“Posso giocare con voi?”, il tempo della felicità

“Posso giocare con voi?”. La timida domanda di un bambino ai margini di un’improvvisata partita di calcio tra coetanei in uno dei tanti giardini sparsi per il mondo, tradisce l’essenza esistenziale dello sport. Che altro non è se non un decodificatore di valori e aspirazioni, uno strumento che semplifica molti aspetti della vita consentendone una più facile lettura. Cosa sia la felicità è domanda che impone riflessioni complesse e profonde, tanto che l’uomo la indaga sin dai suoi primordi. Eppure se applicata allo sport appare come concetto semplice: felicità è vittoria. E’ quella palla che deforma la rete nella partita decisiva, quella schiacciata che sentenzia, quella tripla sulla sirena che disegna l’arco del trionfo. O ancora quell’ultima bracciata, quel salto che lascia intatta l’asticella, quella sterzata prima dell’ultima porta di uno slalom. Felicità insomma è quell’attimo che genera l’esultanza senza controllo, che libera la gioia irrefrenabile di un’impresa e che getta un ponte tra chi quell’impresa la compie e chi invece la respira con la passione del tifo e dell’empatia. In sostanza è un attimo, un solo istante che deflagra in boato propagando le scintille della vittoria in ogni direzione. Ma è proprio così? Se lo fosse, dovremmo dedurne che la felicità è prigioniera del tempo, fugace concessione di un despota che ricopre quel momento di altri infiniti attimi stratificandosi su di essa come la lava e la pomice di Pompei. Se la felicità è giusto un istante, insomma, diventa al massimo un ricordo da cullare, un sogno da inseguire ancora e ancora in mezzo al dolore e alle disillusioni di cui è costellato il nastro della vita. Eppure nel sentire comune il concetto di vittoria è strettamente collegato alla felicità. Non si capirebbe altrimenti il disorientamento di Elisa Di Francisca di fronte alle lacrime di gioia di Benedetta Pilato dopo un podio olimpico sfumato per un solo centesimo. Lo sport è competizione e un quarto posto alle Olimpiadi rappresenta una sconfitta. Che resta una parte inscindibile e significativa di chi lo pratica, certo. Ma che deve avere un’etica formativa e deve fungere da stimolo per i futuri successi. Mica può diventare un elemento di gioia o appagamento! E al di là della forma che prese la polemica social innescata da quell’incomprensione tra due campionesse, non solo l’ex schermitrice ha avanzato perplessità di fronte alla felicità applicata a un quarto posto. La stessa Pilato qualche tempo dopo ebbe modo di dire: “In molti mi hanno scritto per ringraziarmi del messaggio che ho mandato con quelle parole, ma dopo le Olimpiadi tutti mi chiedevano solamente una cosa: e cioè se fossi felice per davvero”. Difficile crederlo, insomma. Così come per molti è stato difficile credere che l’invito al Quirinale del Presidente della Repubblica non solo ai medagliati, ma anche a tutti gli atleti azzurri finiti al quarto posto, non fosse altro che un atto buonista, politicamente corretto e tuttavia essenzialmente consolatorio. Se la felicità è vittoria, dunque, ha una configurazione bidimensionale: è figlia di un istante e deriva da un’affermazione nell’agone competitivo. Tuttavia, se anche concedessimo la natura istantanea e temporale della felicità, resterebbe il problema di armonizzare le tante dichiarazioni di felicità, anche sportiva, scevre dalla vittoria: l’esordio di un ragazzino in Serie A, la speranza che torna a colorare la vita di una persona diversamente abile che si prepara per le paralimpiadi, il primo punto di una ragazza che approccia il Volley con la squadra della scuola. Certo, qui si potrebbe facilmente parlare di vittoria personale, di affermazione rispetto alle proprie insicurezze, alla propria storia. E dunque il concetto di ‘vittoria’ resterebbe intatto a fianco della felicità. Ma forse c’è di più, perché il tema del percorso e del ‘viaggio’ che aspira alla vittoria merita un approfondimento, a prescindere dal suo esito. Forse allora conviene ripartire daccapo e cominciare a cercare una risposta indagando le origini. Felicità deriva dalla parola latina felicitas, a sua volta tributaria della radice etimologica ‘phy’ che in greco ha dato vita al termine ‘physis’, ‘natura’, che nella nostra lingua è rimasta nel sostantivo ‘fisica’ e in tutti i suoi derivati. Dunque la felicità è profondamente connessa alla natura, appartiene all’essenza dell’uomo e richiede un’armonica progressione nel suo progetto esistenziale. Del resto per Socrate l’uomo è naturalmente incline alla felicità, che si raggiunge perseguendo il bene. I greci la chiamavano ‘eudaimoniaì, cioè la presenza nell’anima di un ‘buon demone’, una divinità capace di indicare la via dell’armonica realizzazione del sé attraverso la virtù. La felicità non risiede in definitiva nel piacere, dicevano Democrito e Aristotele, altrimenti anche i buoi sarebbero felici. Ma nella virtù. Che per i greci si chiamava ‘areté’, parola imparentata con ‘ars’, per noi ‘arte’. Dunque, come spiega meravigliosamente Salvatore Natoli nella sua ‘Educazione alla felicità’, lo stato d’animo che noi inseguiamo come una chimera non è una castrazione di sentimenti, ma riposa sull’arte di vivere, sulla capacità cioè di superare le difficoltà. Concetto trasversale anche negli stoici, tanto che per Seneca il perseguimento della virtù e dunque della felicità passa attraverso l’atarassìa, cioè l’allontanamento dai desideri, dalle passioni e dall’invidia. E cardine anche dell’epicureismo che curiosamente è passato alla storia come semplice inseguimento del piacere. Ma basta leggere la ‘Lettera sulla felicità’ di Epicuro, per capire che ci si muove su sentieri ben diversi: “l'indipendenza dai bisogni è una gran cosa. Non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che l'abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo. In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l'inutile è difficile”. E ancora: “Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l'animo a essere sereno”. Non ci sono dubbi: per gli antichi greci la felicità è connessa alla natura, all’essenza dell’uomo. E dunque non è determinata da fattori esogeni, quali la sorte, la ricchezza o gli onori. Ma da fattori endogeni, sostanzialmente la virtù o arte di vivere bene. Se dunque la felicità è questo, dovremmo derubricare quell’esplosione di gioia che la vittoria conferisce a mero momento di esaltazione, qualcosa di simile a un baccanale o a un rito orgiastico ed estatico. E dovremmo spostare la dimensione del tempo: non più un istante di totale appagamento, ma un percorso lungo e complesso che porta virtuosamente alla compiutezza del sé. Forse allora le parole di Pilato sembrano meno incomprensibili. Perché se l’uomo, anche nello sport, può dirsi felice solo nella progressione, nel viaggio che porta alla propria armonica realizzazione, allora anche un quarto posto può assurgere al ruolo di tessera nel mosaico della felicità. E in questo senso la sconfitta assume un significato diverso: non tanto l’ostacolo da rimuovere con rinnovato impegno o stimolo necessario per le future vittorie, quanto ingranaggio essenziale della costruzione di un progetto di vita armonico. Ecco perché in fondo tutti sappiamo banalmente che non occorre essere Ronaldo, Messi o Duplantis per scoprirsi felici. Ma che sia necessario al contrario impegnarsi per praticare l’arte della vita, anche nello sport. Resta tuttavia il problema del tempo: davvero dobbiamo spogliare quell’intenso attimo di esaltazione per una vittoria delle nobili vesti della felicità? Davvero quei momenti non sono altro che incidentali accadimenti cui attribuiamo importanza solo per fragilità umana? Sul piano della filosofia è certamente interessante il contributo di Nietzsche, perché per lui il tempo non è affatto lineare, ma piuttosto un elemento circolare. Tutto ciò che è transitorio è sottoposto alla sua linearità ma per il filosofo tedesco la vera essenza del tempo è altra. Il suo concetto di ‘eterno ritorno’ porta alla coincidenza tra attimo ed eternità perché è quest’ultima a pesare sul momento. Scompare la durata, emerge la dimensione della profondità, tanto che il ‘suo’ superuomo interpreta il mondo ed esercita la volontà creatrice liberandosi dal tempo così come lo interpretiamo comunemente. Ma il tempo resta un problema anche sul piano della fisica: Einstein ne ha descritto l’essenza fondendolo allo spazio e definendo un’unica entità chiamata spazio/tempo, e tuttavia la meccanica quantistica non si armonizza del tutto alla sua teoria della relatività, mostrando un funzionamento che apparentemente ne vìola le leggi. Al punto che molti scienziati, impegnati a trovare il Santo Graal che metta insieme le leggi del macro-mondo e quelle del micro-mondo, si stanno convincendo che il granello di polvere in grado di bloccare tutto l’ingranaggio sia proprio il tempo. Eliminando la variabile ‘t’ dalle equazioni matematiche tutto sembra tornare al suo posto, consentendo ad Einstein e alla meccanica quantistica di andare armoniosamente a braccetto. Dunque è questa la grande illusione? L’esistenza del tempo? Per Schopenhauer è la felicità ad avere natura illusoria perché in sostanza non esiste e non può essere raggiunta. Tutt’al più si può aspirare a rendere sopportabile la vita attraverso la contemplazione della natura. La stessa natura che per Leopardi è matrigna e che non si cura per nulla dell’uomo. Che dunque si illude di poter inseguire la felicità. Ma forse anche qui eliminando la variabile ‘t’ dalle equazioni del pensiero, tutto potrebbe tornare al suo posto. Dunque che cos’è la felicità? Abbiamo visto che è connessa alla natura, che non ha nulla a che vedere con gli accadimenti esterni, che ha un problema di relazione con il tempo. Ma forse il suo elemento fondamentale lo si comprende per contrasto. Come sostiene Salvatore Natoli, il contrario di felicità non è dolore, ma noia. Quello stato d’animo che porta al progressivo ripiegamento su sé stessi, sino all’azzeramento del significato del mondo. Se è così, allora l’essenza della felicità è l’apertura al mondo, l’educazione alla giusta relazione con gli altri. Valori da sempre patrimonio dello sport e solo in apparente contrasto con il principio di competizione. Sono ‘gli altri’ la chiave per ‘vederla’ e coltivarla, gli stessi ‘altri’ che spesso scompaiono alla vista in quanto irritanti ostacoli al perseguimento del nostro apparente benessere. Vale per la geopolitica, per la sociologia, per la religione e per lo sport. Quale felicità può dare un record se non ci sono avversari a misurare il proprio talento e la propria preparazione? Quale felicità può dare uno stile di vita improntato al benessere se questo va a detrimento di altri popoli vessati da colonialismo, schiavitù, depauperamento? Quale felicità può dare l’amore per Dio, quale esso sia, se va a scapito del ‘prossimo’? Quale felicità può dare la guerra? E allora forse si può tornare all’inizio: “posso giocare con voi?”. Forse è dietro a quella domanda che si nasconde il seme della felicità. Basterebbe un sorriso. Un sì. E forse tutto tornerebbe al suo posto.

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“Posso giocare con voi?”, il tempo della felicità

Alessandro Biolchi