La decadenza e le scommesse illegali: storia di un disagio pronfondissimo

Spesso, per divertirsi, i marinai catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari, indolenti compagni di viaggio delle navi in lieve corsa sugli abissi amari. L’hanno appena posato sulla tolda e già il re dell’azzurro, maldestro e vergognoso, pietosamente accanto a sé strascina come fossero remi le grandi ali bianche. Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato! E comico e brutto, lui prima così bello! Chi gli mette una pipa sotto il becco, chi imita, zoppicando, lo storpio che volava! Il Poeta è come lui, principe delle nubi che sta con l’uragano e ride degli arcieri; esule in terra fra gli scherni, impediscono che cammini le sue ali di gigante. Le carte dell’inchiesta sulle scommesse che coinvolge molti giovani calciatori restituiscono un’immagine di uno stile di vita che può apparire vuoto, avvilente, superficiale e fragile. Ma forse l’immagine più efficace e profonda ce la offre un poeta maledetto, Charles Baudelaire, con il suo Albatros, principe delle nubi e imponente rappresentazione della bellezza della natura sin tanto che è in volo, goffa e maldestra creatura, incapace di qualsiasi alito di eleganza, quando si posa a terra. Ecco, “lo storpio che volava”, che nella poetica di Baudelaire è la metafora del poeta, può facilmente trasformarsi nell’immagine decadente che descrive il malessere di chi vive contemporaneamente due dimensioni tra loro inconciliabili e stridenti: quella della fama inarrivabile e dell’ammirazione per un talento che consegna all’empireo degli dei e quella dell’isolamento psicologico che ostacola e distorce le percezioni valoriali sino al rifugio nichilista del vizio. Forse, dunque, è bene lasciare perdere giudizi trancianti e definizioni superficiali che vedono i calciatori come una massa di bamboccioni in balìa dell’onnipotenza offerta da guadagni smisurati, e concentrarsi, al contrario, sulle dinamiche che poesia e filosofia hanno indagato da sempre. E questo per mille motivi: il primo tra tutti, banalmente, risiede nel fatto che i calciatori non sono una categoria omogenea e granitica di replicanti votati al degrado: ci sono quelli coltivano gli studi, quelli che non facendolo si abbeverano alla saggezza e cultura popolare, quelli accecati dall’ambizione e quelli consapevoli del loro privilegio, quelli aperti alla sensibilità sociale e quelli chiusi nel tedio esistenziale, quelli di personalità forte e quelli fragili. Esattamente come avviene in tutte le ‘categorie’ e ad ogni latitudine. Lasciamo perdere allora la tentazione della generalizzazione e torniamo all’Albatros. Nel decadentismo e, in particolare, nei poeti maledetti, si respira la disillusione e l’idiosincrasia per il razionalismo e per l’ipocrisia della società borghese che ne era stata forgiata. Tanto che il primo a utilizzare il concetto di declino fu proprio Verlaine nell’incipit del suo ‘Languore’: “Sono l’Impero alla fine della decadenza, che guarda passare i Grandi Barbari bianchi, componendo acrostici indolenti dove danza il languore del sole in uno stile d’oro”. E se i Grandi Barbari bianchi sono la metafora degli eventi storici e sociali di cui si resta testimoni passivi, e se gli acrostici indolenti sono i versi svuotati di valore di un’arte che resta mero esercizio stilistico, non diventa naturale sovrapporre quel male esistenziale ai tempi contemporanei con la loro indolenza di fronte alle tragedie mondiali e con la loro arte spesso appesa al nulla? Ma Verlaine va oltre e parla di noia dell’anima, cita Batillo per esprimere l’esaurimento di qualsiasi gioia o piacere e chiude con un verso che evoca il malessere di un uomo, di un artista, di un’epoca: “Solo un tedio di un non so che attaccato all’anima”. Questo è il Languore, il mal di vivere che fa dire al foscoliano Jacopo Ortis “Tutto è perduto” e che diventa persino titolo di una indimenticabile poesia di Montale, contenuta nei suoi ‘Ossi di seppia’. Sì, perché anche il nichilismo affronta questa dimensione di disorientamento attraverso Foscolo e Nietzsche, ognuno dei quali ne cerca il superamento, che sia nei ‘Sepolcri’ come illusione di una sopravvivenza dopo la morte affidata ai ricordi di chi resta in vita, o che sia nel nichilismo attivo capace di creare i presupposti per il Superuomo attraverso la distruzione dei valori preesistenti. Sino ad approdare al ‘900 proprio con Eugenio Montale che riprende il pessimismo leopardiano: Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato. Tre immagini per tratteggiare l’inquietudine e tre immagini per indicare la salvezza, individuata nel percorso stoico dell’atarassia e cioè nel distacco dalle pulsioni e dalle passioni. E dunque immagini statiche o lontane . Bene, ma che c’entra tutto questo con il vizio delle scommesse, la ludopatia conseguente e il sottobosco criminale che si nutre di queste debolezze? C’entra. Nella misura in cui il male di vivere investe le nuove generazioni defraudandole di un pezzo di futuro senza nemmeno offrire in cambio un’analisi su cui ricostruire. C’entra, perché non stiamo parlando di una setta di viziati senza cervello, ma dei nostri figli. C’entra, perché basta spostare lo sguardo di pochi centimetri per rendersi conto che le fragilità figlie del disorientamento falciano vittime senza soluzione di continuità ovunque. Non è un fenomeno nuovo, tutt’altro. È ciclico e storico. Sin dai tempi di Socrate ci si lamentava della “sonnolenza” e dell’indolenza dei giovani e, per arrivare alle generazioni appena passate, anche negli anni ’70 esistevano forme di autodistruzione giovanile come risposta alle disillusioni e come forma di ribellione al sistema. Una risposta spesso non analizzata, né consapevole o indagata a fondo. Semplicemente vissuta, sentita nell’anima e abbracciata con ingenuità. La cultura giovanile spesso non si rivolge agli antichi, ai filosofi o ai poeti dei secoli precedenti, ma si incarna nella musica, nei meccanismi sociali e nelle dinamiche interpersonali dei loro tempi. E allora forse non è nemmeno necessario risalire a Baudelaire o a Montale. Negli anni ’70 i Sex Pistols non sapevano suonare, ma di fatto hanno fondato ed esportato in Europa il Punk. E nella loro canzone “No future” che tutti conoscono come “God save the Queen” si lanciano in una critica al vetriolo della società inglese alternando di fatto solo quei due concetti: il sarcastico Dio salvi la Regina e il “Nessun futuro per me, nessun futuro per te” ripetuto ossessivamente nel finale. E sempre negli anni ’70 i Pink Floyd, che invece sapevano suonare e rendere poesia ogni loro afflato artistico, scrissero ‘The thin ice’ : Mamma vuole bene al suo piccolo, E anche papà ti vuole bene. E il mare può sembrarti caldo, piccolo E il cielo può sembrare blu. Se dovessi andare a pattinare Sul ghiaccio sottile della vita moderna Trascinandoti dietro il silenzioso rimprovero Di un milione di occhi rigati di lacrime Non essere sorpreso quando una crepa nel ghiaccio Appare sotto i tuoi piedi Scivoli fuori dal tuo abisso e vai fuori di testa Con la tua paura che scorre dietro te Mentre ti aggrappi al ghiaccio sottile. E forse vale la pena ricordare che anche Vasco Rossi, che non sapeva suonare ma che interpretava perfettamente quei tempi, negli anni ’80 scrisse “…e poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxy Bar, o forse non ci incontreremo mai, ognuno a rincorrere i suoi guai. Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso. Ma ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi” . Di esempi se ne potrebbero fare molti altri, ma il concetto resta lo stesso. Il disagio e il disorientamento sono fattori endemici in qualsiasi organizzazione sociale. E sono quasi sempre connessi agli ostacoli posti sul sentiero dei nuovi venuti, in termini generazionali. Sia che prendano le sembianze dell’anaffettività o dell’eccesso di competitività, sia che derivino dalla chiusura diffidente o dalla sfacciata apertura di un sistema sociale che comprime o esalta le personalità senza curarsi della loro crescita complessiva. Sociologicamente ci si affanna a trovare chiavi interpretative per spiegare fenomeni distorsivi che appaiono gratuiti e incomprensibili, tanto più se emergono nei giovani. Alimentando, in questo modo, il loro sentimento di legittimazione riguardo ad atteggiamenti oppositivi e insofferenti alle regole e ai comportamenti codificati. Affetto, rispetto, comprensione e aiuto sono concetti universalmente conosciuti, ma poco praticati. Individualismo e competizione sono un abito mentale che comporta conseguenze rischiose. Si dice spesso, in ambito calcistico, che i giovani devono poter giocare e sbagliare, perché è nel viaggio che si respira la crescita e il punto di arrivo non può mai coincidere con quello di partenza. Probabilmente occorrerebbe applicare questo semplice dettame anche al quotidiano, accettando gli scossoni e gli aggiustamenti tipici dell’età. Partendo peraltro dal presupposto che i giovani non sono un’unica legione fatta di identiche esigenze o aspirazioni, ma un’eterogenea moltitudine di sogni e speranze. In altre parole è possibile che sia del tutto inutile concentrarsi sugli errori o sui comportamenti distorsivi, per quanto clamorosi possano sembrare. La necessità ineludibile potrebbe invece risiedere unicamente nell’attenzione a che le tendenze autodistruttive non giungano a un livello di allarme o, peggio, al punto di non ritorno. Per dirla semplice: pretendere che le nuove generazioni non abbiano vibrazioni di ribellione, gocce di mal di vivere o momenti di disorientamento è di fatto impossibile. Prestare ascolto alle forme di insofferenza e alle grida di aiuto coltivando il senso di responsabilità e senza accontentarsi dell’apparente serenità di un quotidiano meccanico e asettico è al contrario un imperativo imprescindibile. Oggi appare tutto troppo semplificato, è vero: dalla comunicazione politica fatta a slogan alla musica fatta con l’autotune , dalla convinzione di poter fare opinione senza alcuna base come avviene nei social al brutale investimento sul talento dei propri figli, visti come strumenti di rivincita sociale ed economica . Certo, non esiste necessariamente un elemento deterministico nello sviluppo di certe distorsioni , ma esiste certamente il dovere di provare a rimettere in cielo l’albatros che si trascina tristemente a terra. Nessuno merita di sentirsi tale. E nessun marinaio dovrebbe mai mettergli la pipa in bocca o motteggiarlo imitandone la zoppìa. Vale per i ‘ricchi’ ragazzi sprofondati nelle scommesse, vale per i ragazzi ‘normali’ che non conoscono più la normalità. Rimetterli in volo non è importante, è l’unica cosa che conta.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

La decadenza e le scommesse illegali: storia di un disagio pronfondissimo

Alessandro Biolchi