Il calcio in carcere come inclusione sociale: ecco il progetto 'Sopra la Barriera'

Si chiama Romolo Cimini, ha 54 anni e due divise nell’armadio. Una la mette per andare a lavorare, l’altra la porta con sé in un borsone due giorni la settimana, gli serve quando deve cambiare identità. La indossa dall’una e trenta alle quindici il martedì e il giovedì. No, non è un supereroe, non di quelli tradizionali almeno. Romolo è un sovrintendente della polizia penitenziaria, un brigadiere, una carica arrivata lo scorso marzo. Ma in carcere lavora dal 1992, da quando quella prigione è nata. La casa circondariale è quella di Lanciano, in provincia di Chieti. Blocchi di cemento in aperta campagna, a cinque chilometri dal centro. Ma da quel cemento nascono anche belle cose: laboratori teatrali, attività scolastiche e lavorative, culturali, religiose e sportive. Una soprattutto molto ambita. E qui entra in scena la seconda divisa del brigadiere. Il carcere di Lanciano ha una squadra che milita nella serie D del calcio a cinque, la Libertas Stanazzo. Ogni sabato della stagione calcistica le porte della prigione si aprono per ospitare gli avversari dei match di campionato. È chiaro che la Libertas gioca tutte le partite in casa, un privilegio di cui i detenuti farebbero volentieri a meno per andare in trasferta, ma già scendere in campo è essere altrove, raccontano, guardandosi bene dall’usare il termine ‘evasione’. Gli altri detenuti si affacciano alle finestre e tifano per i compagni bianco azzurri che corrono lì sotto. La scorsa stagione hanno sfiorato la vittoria. Il progetto Questo è possibile grazie al progetto ‘Mettiamoci in gioco’, primo in Italia a coinvolgere i detenuti, voluto fortemente dalla Lega Nazionale Dilettanti, che vede coinvolto anche il carcere di Padova, con la Polisportiva Pallalpiede. Il calcio diventa uno strumento di inclusione, per costruire un percorso di rieducazione, grazie al rispetto dell’altro e delle regole. Lo sa bene Romolo Cimini, conosce il potere della sua seconda divisa, quella che porta nel borsone due giorni la settimana. Il brigadiere Romolo è anche l'allenatore. Lo diventa nel momento in cui indossa la tuta e calpesta il campo in erba sintetica donato dalla LND e dal Comitato Regionale Abruzzo, e in quello stesso istante, il Direttore del carcere, Daniela Moi, si trasforma in Presidente. Scritto così, in una decina di parole, appare semplice. In realtà entrano in gioco una serie di fattori da affrontare: i detenuti devono essere in grado di creare una relazione con il loro allenatore, mantenendo, allo stesso tempo, la distanza che il ruolo di Romolo fuori dal campo e il contesto richiedono; Romolo, di suo, deve creare una relazione con i calciatori, e metterla da parte nei momenti fuori dal campo. La squadra è nata da un patto comune, fatto firmare a tutti i ragazzi, nel quale hanno stabilito gli obiettivi e un accordo: chi lo trasgredisce non gioca più e rimane a guardare dalla cella. Romolo ancora ricorda l’emozione del momento in cui gli venne chiesto di diventare l’allenatore della Libertas. “Mi chiamò il direttore, mi chiese una mano per proseguire con il progetto nato nel 2014. Io giocavo a calcio quindi sono stato felicissimo di accettare. Negli anni precedenti l’allenatore era stato un esterno. Il primo giorno, non posso negarlo, regnava un certo imbarazzo, nel senso che era una cosa fuori dal normale. I detenuti erano abituati a vedermi in divisa ufficiale, non in tuta. Erano spaesati e sorpresi. Ma si sono abituati presto”. L’intervista Come viene selezionata la squadra? “Sono allenatore ma non selezionatore, quello è un compito che spetta ad un rappresentante della Federazione, di modo che non possano esserci rimostranze. A me spetta solo dire chi merita di restare in squadra e chi no” Cosa è cambiato da quando indossa questa duplice veste? “Mi rendo conto che raccolgo maggiore rispetto da parte dei detenuti anche nell’ambito lavorativo: non sono solo un poliziotto, mi hanno scoperto anche come persona” Di cosa è più orgoglioso? “Del fatto di avere vinto anche quest’anno la Coppa Disciplina. Il nostro primo obiettivo, il traguardo più importante. È la terza volta che accade. La nostra direttrice ne è fiera” I risultati Quello del calcio nelle carceri è uno dei dei progetti più impattanti e significativi, nato in un luogo che dovrebbe essere di rieducazione ma che spesso diventa di emarginazione ed è raccontato nella serie docufilm ‘Sopra la Barriera’, realizzata dalla LND e lanciata su Sky Sport, che porta all'interno delle carceri di Lanciano e Padova con il racconto dei detenuti e anche quello di 'Mister' Cimini. Nel nostro sistema carcerario la percentuale di recidiva raggiunge picchi del 70%, e questi progetti, nati con il supporto delle Direzioni Penitenziarie degli Istituti di Padova e Lanciano, si fondano sull’idea che lo sport, e in particolare il calcio, possa diventare un veicolo potente di trasformazione personale, soprattutto in contesti di marginalità estrema come in questo caso. A spiegarlo è il coordinatore dell’Area di Responsabilità Sociale Luca de Simoni: “L’impatto va oltre l’individuo” dice. “Il progetto contribuisce anche alla costruzione di un’immagine del carcere, che va oltre gli stereotipi e i pregiudizi. Come sottolineato da numerosi studi, l’accesso a programmi sportivi strutturati all’interno delle carceri può incidere significativamente sul tasso di recidiva, favorendo percorsi autentici di reinserimento. In questo senso, la LND, attraverso ‘Sopra la Barriera’, mostra che lo sport può diventare uno strumento di giustizia riparativa e di responsabilizzazione”. “È un progetto”, continua, “che ha anche valore simbolico: restituisce dignità a persone che, pur avendo commesso errori, restano titolari di diritti fondamentali, tra cui quello all’educazione, alla salute e alla possibilità di cambiare. Iniziative come queste dimostrano che lo sport può abbattere barriere invisibili, costruendo ponti tra il dentro e il fuori, tra punizione e speranza”. Ma qual è il ruolo della LND in tutto questo processo? “Per definizione” conclude de Simoni, “la Lega non persegue obiettivi economici o commerciali. E da sempre, come è nel suo DNA, tende a voler ricoprire un ruolo spesso dimenticato a certi livelli ma fondamentale per il benessere generale della nostra società, oltre che per quello del calcio italiano. Nel dilettantismo c’è sicuramente una sensibilità pronunciata verso lo sviluppo di progetti a impatto sociale, concreti e tangibili, dovuta anche all’eterogeneità che può esserci in un movimento con oltre 1 milione e centomila tesserati e tutte le situazioni sociali che possono derivare da questi numeri. Questo è il potere dello sport e del calcio”. *Si ringrazie per la collaborazione Luca de Simoni, coordinatore Area Responsabilità Sociale LND

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Roberta Noé