Gonzalez: "Io, Vicenza, l'incidente, l'amputazione e quella voglia di non mollare mai"

Partiamo dagli inizi, quando hai iniziato a giocare a calcio? E perché? “Ho iniziato da bambino, perché mio padre aveva questo grande sogno: diventare calciatore. Non c'era riuscito per vari motivi, ma quel sogno non l'ha mai abbandonato. In casa nostra si respirava calcio e alla fine tutti e tre, io e i miei fratelli, siamo riusciti a diventare calciatori professionisti. È stato il modo più bello per onorare il sogno di nostro padre. Loro hanno giocato principalmente in Paraguay, ma anche in altri paesi. Non abbiamo mai raggiunto tutti lo stesso livello di notorietà, ma siamo riusciti a farne una professione” È vero che da piccolo ti chiamavano ‘Yuyo’, che significa erba cattiva? “Sì, mi prendevano in giro chiamandomi 'Yuyo' perché ero molto alto e magro. Dicevano che sembravo una pianta cresciuta a caso, senza forma. All’inizio mi dava fastidio, ma alla fine quella fisicità un po’ particolare è diventata un punto di forza” Sei esploso con il Guaranì e tra le proposte europee c’erano anche il Barcellona e il Real Madrid: come mai non hai scelto quella strada, ma il Vicenza? “Sì, avevo ricevuto diverse proposte importanti dall’Europa, tra cui quella del Barcellona e del Real Madrid. Però erano tutte offerte di prestito e il mio procuratore all’epoca non era d’accordo con questa formula. Le uniche due squadre disposte ad acquistarmi subito erano il Vicenza e il River Plate. Abbiamo deciso di scegliere Vicenza perché ci dava l’opportunità di cominciare un percorso serio in Europa” Hai citato il tuo procuratore, Jorge Cyterszpiler, che era stato anche il primo agente di Maradona. Come l’hai conosciuto? "Lui aveva lavorato con Maradona agli inizi della carriera, quindi aveva un’esperienza enorme nel mondo del calcio. Quando mi ha contattato per rappresentarmi, ero emozionato e allo stesso tempo curioso. Durante i nostri incontri mi raccontava aneddoti incredibili su Diego, che però non ho mai conosciuto” Com’è stato il passaggio dal Paraguay all’Italia? "È stato uno shock, sinceramente. Passare da un calcio più libero, istintivo, come quello sudamericano, a quello italiano, così tattico, organizzato e rigido, non è stato facile. Anche la lingua era una barriera” A Vicenza hai avuto due allenatori molto diversi, Mandorlini e Camolese. Che rapporto avevi con loro? "Con Mandorlini è stato un rapporto molto complicato. Lui non credeva in me, mi faceva allenare con la Primavera e mi faceva sentire fuori dal progetto. Nonostante tutto, in Primavera mi sono impegnato e sono diventato capocannoniere con Di Carlo. Ma lui continuava a non considerarmi. Poi è arrivato Camolese, e tutto è cambiato. Mi ha voluto, mi ha dato fiducia, mi ha fatto sentire importante. Anche se la società gli aveva detto di non farmi giocare per questioni contrattuali, lui mi assicurò che mi avrebbe messo sempre in campo. Con lui è iniziata la parte più bella della mia carriera” È vero che Mandorlini ti disse che non avresti mai più giocato in prima squadra? “Sì, dopo una partita in Coppa Italia con la Roma creai tre occasioni e sbagliai un gol e mi disse che non avrei più giocato. Quelle parole mi hanno distrutto. Tornai a casa piangendo. Avevo 20 anni, ero lontano da casa, e mi sentivo umiliato. Chiamai il presidente e gli chiesi di lasciarmi andare. E infatti tornai in prestito in Paraguay un anno per giocare con il Tacuary e il Nacional” Il momento clou della tua carriera è arrivato dopo le Olimpiadi del 2004… “Sì, alle Olimpiadi del 2004 con il Paraguay abbiamo fatto un grande torneo e abbiamo vinto la medaglia d’argento. Abbiamo vinto anche contro l’Italia di Gilardino, De Rossi, Barzagli… Camolese, che sarebbe diventato l’allenatore Vicenza, mi vide e si convinse che potevo essere utile alla squadra. Quando sono tornato in Italia mi ha dato fiducia subito, mi ha fatto giocare e ho iniziato a segnare in Serie B. Quella è stata la svolta vera della mia carriera. Prima delle Olimpiadi ho segnato anche a Julio Cesar contro il Brasile in Copa America. Sul calcio d'angolo del gol mi marcava Adriano” Le cose cominciano ad andare bene e arriviamo al 22 dicembre del 2005, giorno dell’incidente in autostrada che ti cambia la vita. L’ultima partita l’hai giocata contro il Rimini, due giorni prima… “Stavamo andando all’aeroporto di Venezia per tornare a casa per le vacanze di Natale. In auto con me c’era Gerardo Grighini, mio compagno di squadra. Dopo l’impatto mi ricordo che continuavo a dirgli che in continuazione che dovevamo prendere i passaporti e partire. I pompieri mi hanno tirato fuori dalla macchina. L’ultima immagine è quella dell’ambulanza. Poi il vuoto” Hai avuto sogni o visioni durante il coma? E cosa hai pensato quando ti sei svegliato? “No, non ho avuto visioni o sogni. È stato un buio totale. Quando mi sono svegliato ho solo ringraziato Dio perché ero ancora qui” Quando hai letto della morte di Diogo Jota, cosa hai provato? “Ho avuto uno scontro di sentimenti. Lui era giovane, pieno di vita, con una famiglia, appena spostato. Mi domando perché io sia ancora vivo e lui no. È difficile. Queste brutte notizie ti danno più coscienza e consapevolezza, ma soprattutto la responsabilità di aver avuto una seconda opportunità” Dopo circa un mese in ospedale i dottori sono stati costretti ad amputarti il braccio sinistro che ti avevano riattaccato e ricostruito, è stato uno shock? “Sembrerà assurdo, ma è stato il giorno più bello della mia vita. Il dolore era insopportabile, l’infezione si stava diffondendo. Dopo l’intervento, ho iniziato a stare meglio, ho iniziato a vivere di nuovo. Camminare, andare in bagno. La sofferenza era finita. Mi era rimasto il braccio destro, che è stato operato per recuperare movimento e sensibilità. Sono pochissime cose che non riesco a fare senza il braccio sinistro, allacciarmi le scarpe o tagliarmi la carne. Come dico sempre, avrò perso il braccio ma ne ho guadagnate migliaia. Se devo farmi allacciare le scarpe o tagliare la carne quando sono al ristorante, lo chiedo senza vergogna. La gente, anche sconosciuta, è sempre pronta a darmi una mano” Qual è stata la visita più bella in ospedale? “Sicuramente quella di Alex Zanardi. Mi ha dato la carica giusta per uscire dall’ospedale e continuare a giocare. A lui dicevano che non avrebbe più guidato un auto, a me che non avrei più messo piede in campo…” È vero che i tuoi compagni venivano a trovarti e poi piangevano fuori? “Sì, venivano a salutarmi con il sorriso, mi portavano dei cioccolatini e poi uscivano subito dalla stanza. Ho saputo dopo che scoppiavano a piangere. Non riuscivano a vedermi così: ero magrissimo, da 91 kg ero sceso a 60. Ero irriconoscibile." Ti hanno subito avvisato che non avresti più giocato in Italia? “No. Dopo più di un anno, quando mi ero già ripreso, ho fatto la visita medica per avere l’idoneità sportiva e lì mi è stato spiegato che non avrei potuto ottenerla in Italia. Così sono dovuto tornare in Paraguay” L’idoneità sportiva non ti veniva data perché avresti giocato con la protesi, oppure anche senza non te l’avrebbero comunque concessa? “Non potevo giocare con la protesi perché avrei potuto fare male agli altri, e neanche senza, perché mi mancava l’equilibrio. Credo sia stato per proteggere me e anche gli altri” Alla fine comunque ce l’hai fatta. Dopo quasi due anni, nel novembre del 2007, sei tornato a giocare. Lì hai giocato senza protesi, giusto? “Sì, esattamente. Sono tornato dopo nemmeno due anni senza protesi. Poi, a forza di cadere, mi sono fratturato la clavicola. In quel momento ho deciso di smettere. Ho preso il patentino da allenatore in Paraguay, aperto la mia scuola calcio e sono andato avanti nel mondo del calcio, ma da allenatore” Quante partite hai fatto con un solo braccio? “In Serie A con il Tacuary tre partite. Con il Presidente Hayes Serie B una o due partite” In questi vent’anni, oltre a lavorare come scout e a riprenderti, cosa hai fatto? “Ho iniziato subito con l’Inter Campus. Dal 2009 il progetto è arrivato in Paraguay e mi hanno affidato il ruolo di coordinatore. Gestivo una scuola calcio con 300 bambini che si allenavano gratuitamente. È grazie a questo progetto che ho conosciuto un bambino orfano che ho poi adottato. Oggi lui è diventato coordinatore dell’Inter Campus in Paraguay. È una bellissima storia anche la sua” Parallelamente all’Inter Campus hai portato avanti altri progetti? “Sì. Ho avuto la mia scuola calcio privata, ho allenato una squadra in Serie B, una in Serie C, una giovanile e anche una in Serie A. Non ho mai smesso di giocare a calcio a livello amatoriale. E dopo diversi anni in cui ho mandato curriculum alla federazione e alla Conmebol, nel 2022 mi è arrivata l’opportunità di lavorare con la FIFA” In che ruolo hai lavorato per la FIFA? “Nel 2022 sono stato invitato ai Mondiali in Qatar con il gruppo delle leggende FIFA. Poi sono andato al Mondiale Under-20 in Argentina e nel 2023 al Mondiale Under-17 in Indonesia, sempre come parte del gruppo di studio tecnico FIFA. Analizzo le partite e collaboro nell’area tecnica” Dopo vent’anni sei tornato a Vicenza. Ora vivi a Costabissara, giusto? “Sì, esattamente. Sono tornato a vivere a Costabissara. Ho i miei due figli maschi con me: uno giocava in Serie D al Montecchio e ora che il campionato è finito ed è in attesa di nuova squadra, lavora all’Autogrill quando non si allena” Hai ripreso a collaborare con il Vicenza? “Sì, mi hanno chiamato e proposto un contratto. Ora lavoro nel settore giovanile come maestro di tecnica e osservatore. Cerco di trasmettere ai ragazzi i valori e l’esperienza che ho maturato” In conclusione, Vicenza per te è stato un po’ tutto: delusione, felicità, paura, rinascita. Se dovessi descrivere cosa senti per Vicenza con una sola parola, quale sarebbe? “Quello che posso dire è che i migliori anni della mia vita li ho vissuti qui, in questa città. Ho provato le emozioni più forti. Il rapporto che ho trovato con i tifosi, con la società, con la gente, è qualcosa di fortissimo. Sono passati 24 anni da quando sono arrivato per la prima volta a Vicenza, e ancora oggi i vicentini, e non sto esagerando, mi invitano a pranzo, a cena, tutti i giorni. Mi riconoscono ovunque, mi portano in giro, mi fanno sentire come uno di famiglia. Non voglio fare paragoni con nessuno, ma mi sento una persona davvero voluta bene qui. Questa cosa non l’ho mai trovata da nessun’altra parte. Solo a Vicenza. Per me Vicenza vuol dire amore”

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Andrea Molinari