Il sorriso del tempo, i 70 anni di Rummenigge

Era il 29 aprile 1984 e a San Siro era in programma non una partita qualunque, ma Inter-Juventus, il Derby d’Italia. Ai tifosi nerazzurri di quella sfida importava poco, perché era la terz’ultima giornata e per i nerazzurri di Radice in ballo c’era solo la piccola consolazione di una qualificazione in Coppa Uefa, mentre i rivali di sempre erano a un passo dal 21esimo scudetto. Eppure quel giorno San Siro, ancora ‘nudo’ e privo di quell’esoscheletro fatto di torri, terzo anello e coperture che lo avrebbe corazzato solo nel 1990, era stracolmo. E non per la speranza di frenare la corsa trionfale dei bianconeri, ma perché dal tunnel, prima della partita, sarebbe uscito lui: Karl-Heinz Rummenigge. Aveva firmato per il Presidente Pellegrini un mese prima, a marzo, grazie a Sandro Mazzola che impostando la complessa trattativa si era giocato inconsapevolmente una carta vincente: sé stesso. Sì, perché quando il piccolo Karl giocava a calcio nella sua Lippstadt, piccola cittadina della Renania-Vestfalia a pochi chilometri da Dortmund e Dusseldorf, spesso lo ‘impersonava’, come fanno i bambini con i loro idoli: “Mazzola scende sulla fascia, si accentra, dribbla l’ultimo difensore e….gol!”. Il suo decimo compleanno lo aveva compiuto così, quel ragazzino intriso di calcio che nelle sei settimane di vacanza dalla scuola si armava di pazienza con i suoi due fratelli Wolfgang e Michael e costruiva letteralmente le porte da calcio mettendo insieme pali, traverse e passione per giocare con gli amici nei campi lì intorno. Karl-Heinz era nato nel 1955, a dieci anni esatti dalla fine della guerra. E in una città che ne portava ancora i segni nel corpo e nell’anima. Lippstadt, infatti, fu il luogo dove si chiuse la battaglia della Ruhr e virtualmente l’intero secondo conflitto mondiale: fu lì che la Prima e la Nona armata dell’esercito americano si congiunsero completando l’accerchiamento a tenaglia di 300.000 uomini della Wermacht. E fu lì che il fedmaresciallo Model si suicidò con un colpo di pistola quando si rese conto di non poter rispettare la promessa fatta personalmente a Hitler di resistere e respingere gli Alleati. E fu sempre lì che centinaia di donne, internate nel sottocampo di concentramento locale e destinate al lavoro coatto nelle tante fabbriche di munizioni sorte come funghi in quella zona, furono liberate dai soldati americani al termine della battaglia. Ferite ancora aperte, cicatrici indelebili, riflessi difficili da cancellare dagli sguardi stremati anche di coloro che vissero l’orrore da innocenti, ma sentendosi addosso il peso della colpa. La generazione di Karl-Heinz era la prima con gli occhi rivolti al futuro e libera da ansie per quanto impastata di una memoria collettiva tesa a superare faticosamente uno choc storico di immani proporzioni. Ora c’era la Germania Ovest, la ricostruzione, la politica europeista di Adenauer che in pochi anni aveva restituito rispetto internazionale, produttività e centralità a una Nazione lacerata. E un padre, quello dei tre fratelli Rummenigge, di umile estrazione operaia ma capace di regalare sorrisi attraverso il calcio, mostrando ai figli le gesta di Di Stefano e Mazzola. Il suo ventesimo compleanno Karl lo festeggiò a Monaco di Baviera, dieci giorni dopo il suo primo gol in Bundesliga contro il Colonia. Sì, perché nel frattempo si erano accavallati mille colpi di scena. Da bambino giudicato “troppo magro e troppo lento” da alcuni allenatori delle giovanili del Borussia Lippstadt, aveva assunto rapidamente i tratti dell’iconografia classica teutonica: fisico imponente, spalle possenti, bicipiti potenti, capelli biondi, occhi azzurri e gote facilmente inclini a quel rossore tipico della timidezza. Eccome se era timido, Karl. Una sera andò con gli amici in una discoteca di Lippstadt, prese da bere, e comincio a chiacchierare. Ma quando il suo sguardo incrociò quello della figlia del proprietario, restò paralizzato e fece cadere il bicchiere mandandolo in frantumi, attirando fatalmente l’attenzione della ragazza. Scoprì che si chiamava Martina e probabilmente fu solo per la sua intraprendenza che nacque la storia d’amore sfociata in matrimonio. Sì, era proprio timido, Karl. Caratteristica che apparentemente faceva a pugni con la potenza sprigionata in campo, tanto che un giorno ruppe la mano a un portiere con un tiro dalla distanza. E tanto che l’allenatore della prima squadra del Borussia Lippstadt, vedendone le doti tecniche e fisiche, a un certo punto lo spronò: “Se entro due anni non sei in Nazionale, ti prendo a calci nel sedere”. Un’eco che sarebbe ricomparsa nelle parole di Beckenbauer al Bayern. Quando, a carriera prossima alla fine, gli chiesero chi tra i giovani della rosa avrebbe potuto sostituirlo nel ruolo di leader, tuonò: “Uno con queste caratteristiche ci sarebbe, ma è ancora troppo stupido”. Karl capì subito di essere il destinatario dell’invettiva e reagì nei fatti. Anni più tardi il Kaiser gli chiese scusa per il tono inelegante di quella dichiarazione, ma Karl-Heinz ripose: “No, Franz, avevi ragione. E devo a te se sono diventato capitano della Nazionale”. Monaco, dunque. La svolta, l’occasione, la palestra di umanità e professionalità. Il Bayern lo prese a 17 anni, spuntandola su una pletora di pretendenti più numerosa dei proci di Itaca. C’era l’opzione Dortmund, vicino a casa, e mille altre richieste. Ma in una riunione di famiglia si optò per Monaco, malgrado fosse a 600 Km da casa. Karl ci arrivò nell’estate del 1974, subito dopo la vittoria mondiale della Germania. E trovò uno spogliatoio con sei campioni del mondo, circostanza che a Lippstadt fu commentata con acidità: ma cosa ci va a fare sto ragazzino in mezzo agli dei? Non giocherà mai. E invece giocò eccome: 21 partite e 5 gol il primo anno, 32 partite e 8 gol il secondo. Il tutto corredato da due Coppe dei Campioni messe in bacheca: la prima da panchinaro, ma la seconda vinta in Finale contro il Saint Etienne, da titolarissimo. Intendiamoci: a fine allenamento, nel centro sportivo del Bayern, si accomodava nello spogliatoio C, quello riservato ai giovani. Muller, Maier e Beckenbauer frequentavano lo spogliatoio A, e i ‘normali’ quello B. Ma a Karl non importava, perché da certi campioni c’era tutto da imparare e perché il Kaiser di fatto lo aveva adottato, fornendogli consigli e incitamenti nel processo di crescita. Il suo trentesimo compleanno Kalle lo festeggiò a Milano. Tre giorni dopo la doppietta rifilata all’Avellino alla 3^ giornata di campionato in quella che sembrava una stagione strepitosa, cominciata con 8 gol nelle prime 7 partite tra Coppa Italia, Uefa e Serie A. Ma nel frattempo si erano affastellati altri mille colpi di scena. Intanto ‘el rumenig’, come lo chiamavano a Milano sottraendogli una emme, tagliandogli una sillaba ma offrendogli amore incondizionato, aveva vissuto il 1980, il suo anno d’oro: Meisterschale col Bayern, capocannoniere di Bundes, calciatore dell’anno in Germania Occidentale, Pallone d’Oro ed Europeo vinto con la Nazionale. Entrando di fatto nell’Olimpo del calcio, al punto che lo stesso Maradona non si limitò ai complimenti, ma andò oltre: “per fermarlo bisogna abbatterlo”. E poi ‘el rumenig’ avrebbe approcciato da supereroe il suo secondo Mondiale, quello di Spagna 1982, . Ed è qui che dobbiamo tornare con un salto temporale a quell’aprile del 1984, il giorno della sua ‘presentazione’ a San Siro prima di Inter-Juve. San Siro ribolliva, dicevamo, e quando la sua testa bionda fece capolino dal serpentone d’ingresso un’esplosione accompagnò il suo saluto. “Kalle-Kalle”, urlato senza controllo e senza alcun ordine ritmico da ogni settore dello stadio divenne un’onda confusa e spaventosa colma d’orgoglio ed entusiasmo. Rummenigge era il dio del tuono giunto direttamente dalla mitologia nibelunga per alimentare i sogni più ambiziosi di una tifoseria impazzita. E quel giorno Kalle, sedendosi in tribuna, fu il protagonista di una contrazione spazio-temporale che fuse e esibì ai suoi occhi passato e futuro. In campo c’era Platini, avversario/amico come due anni prima in Spagna. Le Roi segnò quel giorno a San Siro, così come aveva segnato quell’8 luglio ‘82 a Siviglia davanti ai suoi occhi impotenti, visto che un acciacco lo aveva costretto in panchina per la semifinale mondiale tra Francia e Germania. Ma poi Kalle avrebbe contribuito a piegare la storia entrando nei supplementari e accendendo la rimonta da 1-3 a 3-3. Ai calci di rigore segnarono entrambi, Platini e Rummenigge, ma l’errore di Bossis non fu perdonato da Hrubesch e in finale andò la Germania. Quel giorno a San Siro invece ad esultare fu Platini, per il gol e per lo scudetto virtualmente conquistato. E Kalle stavolta non poté entrare per ribaltare il piano inclinato della storia. Si sarebbe rifatto l’anno successivo confezionando con una doppietta il 4-0 rifilato alla Juventus, ma intanto il nastro del tempo che qualche volta si diverte a riannodarsi su sé stesso gli mise davanti altri frammenti confusi e apparentemente senza logica: nella Juve segnò anche Cabrini, quello del rigore sbagliato sullo 0-0 nella finale mondiale di Madrid ma che alla fine sollevò la Coppa, nell’Inter segnò Altobelli, quello del terzo gol che fece dire a Pertini “adesso non ci prendono più”, e in campo c’erano Gentile, Scirea, Paolo Rossi, Marini, Collovati, tutti protagonisti di quella epica sfida spagnola. Insieme ad Hansi Muller, quello che nella finale ormai persa lo sostituì costringendolo a una triste passerella. Beppe Bergomi, che la sera del Bernabeu ne annullò le velleità e che di lì a poco sarebbe diventato suo compagno, invece era out, anche lui in tribuna. Ma sulla panchina della Juve c’era quel Trapattoni che da allenatore dell’Inter avrebbe firmato 3 anni dopo la sentenza del suo addio a Milano, convinto che ormai i cingoli del panzer fossero usurati definitivamente. Quando lo stesso Rummenigge lo avrebbe poi contattato da dirigente del Bayern per portarlo a Monaco, il Trap non seppe trattenere la sorpresa: “Sono io il responsabile del tuo mancato rinnovo all’Inter. E ora mi vuoi al Bayern?”. Ma Kalle sa essere disarmante: “Aveva ragione mister, ero logoro. Nessun rimpianto e nessuna amarezza nei suoi confronti, la sua scelta era comprensibile”. Il suo quarantesimo compleanno lo festeggiò da vicepresidente del Bayern, carica condivisa con Franz Beckenbauer. Che non era stato solo il suo mentore all’arrivo in Baviera negli anni ‘70, ma che nel 1986, ai Mondiali del Messico, era diventato anche suo Ct in Nazionale. Torneo cominciato male, dalla Germania e da Kalle: pari con l’Uruguay, vittoria con la Scozia, sconfitta con la Danimarca, zero gol di Rummenigge e qualificazione raggiunta a fatica, grazie al pari imposto dalla Scozia all’Uruguay. Poi però, dagli ottavi, la svolta: vittoria sul Marocco, vittoria sul Messico e vittoria sulla Francia: Kalle finalmente sempre in campo, niente gol, ma finale conquistata, la seconda consecutiva. Dall’altra parte l’Argentina di Maradona, che ha incantato il mondo con la ‘mano de dios’ contro l’Inghilterra e con la serpentina del secolo contro il Belgio. E furono proprio i sudamericani a cominciare meglio, indirizzando la partita con Brown e sigillandola con Valdano. Almeno così pensò il mondo intero davanti alla televisione. E invece ancora una volta fu proprio Kalle a suonare la tromba della riscossa: firmò il 2-1 a un quarto d’ora dalla fine e Voeller completò il miracolo 5 minuti dopo. Ancora una volta l’inerzia era cambiata e il primo gol di Rummenigge in quel Mondiale sembrò l’annuncio del trionfo. Fu lo stesso Karl-Heinz a spiegare cosa accadde in seguito: “Ne ho parlato spesso con Franz . Siamo stati troppo avidi. A quel punto pensavamo di aver vinto la partita e ci buttammo tutti avanti per segnare il gol decisivo….”. Fu così che Maradona vide lo scatto di Burruchaga invano inseguito da Briegel e innescò il contropiede del 3-2. Seconda finale consecutiva, seconda sconfitta. Stavolta ancora più bruciante. Tanto più che quella sarebbe stata l’ultima partita di Kalle in Nazionale, materializzando il peso specifico di un semplice avverbio: “Ho vinto quasi tutto – disse Karl – ma quel ‘quasi’ è un macigno”. La sua carriera da calciatore sarebbe finita nel 1989, al Servette. Proprio mentre il ‘suo’ Presidente Ernesto Pellegrini festeggiava lo scudetto capolavoro forgiato nel fuoco tedesco: Trapattoni in panca e Mattheus-Brehme in campo. Ma nel 1995 Kalle aveva appena chiamato proprio il Trap per risollevare le sorti del club bavarese, esibendo quell’eleganza di modi e di pensiero capace di conquistare chiunque. Il suo italiano è sempre stato marchiato da un evidente accento tedesco, ma è inappuntabile e soprattutto dolce, come la sua personalità. Gli spigoli di durezza che la lingua germanica porta con sé una volta traslata nell’italico, in lui scompaiono: la ‘d’ e la ‘t’ si ammorbidiscono, le liquide conferiscono un fare tenue, quasi pastello, al suo eloquio. Il riflesso di una personalità che con l’Italia ha sempre trovato empatia. Da noi è sempre venuto in vacanza e sul Lago di Como si sentiva a casa. I suoi amici erano persone del posto, quelle semplici che si incontrano nella quotidianità: il macellaio, il bancario, il barcaiolo, il panettiere. Non certo i vip muniti di barche e macchinoni. Ecco perché era amato, ecco perché fuori da San Siro gli ambulanti che gridavano “la sciarpina de rumenig” facevano affari d’oro. All’Inter è stato solo tre anni, segnando 42 gol in 107 partite e senza alzare alcun trofeo. Numeri che applicati a un potenziale crack come lui suonano come un flop, un fallimento. Eppure ancora oggi è amato, ricordato, venerato per le sue giocate, la sua potenza, ma soprattutto la sua eleganza d’animo, la sua umiltà e il suo equilibrio. Quanto ai gol, resteranno indelebili la citata doppietta alla Juve, il devastante tracciante contro il Milan e soprattutto la meravigliosa torsione contro i Glasgow Rangers. Un gesto che resta perfetto compendio delle sue qualità di potenza, visione ed estetica. Fu annullato dall’arbitro Roth per gioco pericoloso, anche se il replay regala una distanza di almeno 50 cm tra il suo piede e la testa del difensore scozzese. A fine partita lo stesso Roth si avvicinò a Kalle chiedendogli la maglia per i suoi figli. Karl alzò lo sguardo, lo guardò negli occhi, non disse nulla e se ne andò via. Chissà, forse perché l’ottusità dello zelo resta appiccicata addosso come senso di ingiustizia, forse perché Kalle si era ormai in parte italianizzato, attribuendo all’estetica una forza superiore alle regole che pretendono di cancellarla. Quell’estetica che rifletteva perfettamente la sua innata eleganza nei toni e nei modi e che aveva cominciato a coltivare anche nel quotidiano sin dal suo primo giorno in Italia, se è vero che Causio, il ‘Barone’, alla presentazione dei nuovi acquisti nerazzurri lo squadrò da capo a piedi, notò i calzini bianchi sotto l’abito e guardandolo alzò l’indice della mano destra agitandolo leggermente da una parte all’altra: “Così no, Kalle”. I suoi 50 anni Rummenigge li festeggiò sempre al Bayern, non più come vicepresidente ma come amministratore delegato responsabile, tra le altre cose, dei rapporti con gli altri club e con le istituzioni calcistiche internazionali. Durante la sua gestione il club bavarese ha vinto tanto, praticamente tutto. Due triplete , 14 campionati e svariate altre coppe contribuendo a consolidare una politica economica sostenibile che ha reso la società ricca, affidabile e sostanzialmente priva di debiti. E i suoi 60 anni arrivarono in questo solco, di ammirazione internazionale per il suo spessore e per la sua seria competenza professionale. Nel 2015, infatti, due settimane prima del genetliaco fu eletto membro del comitato esecutivo dell’Uefa, mentre ricopriva la carica di Presidente Eca, l’associazione dei club europei di cui era stato uno dei promotori e fondatori. E’ il periodo in cui condivise attività e responsabilità con Andrea Agnelli con cui allacciò un rapporto personale improntato all’amicizia, messo però a dura prova nel 2021, in quella notte in cui si scatenò la congiura della Superlega: “Ero in tribuna per una partita del Bayern e Ceferin mi mandava un messaggio ogni 5 minuti, voleva capire cose stesse succedendo”. Provò a contattare Agnelli più e più volte, senza esito. Da quel telefono l’ex presidente della Juventus non avrebbe più risposto. Ma non è un caso che dopo la disfatta del progetto, rifiutato sin dall’inizio dalla sua società e abiurato con effetto domino da quasi tutte le altre nel giro di poche ore, il Presidente dell’Uefa abbia affidato a lui il delicato ruolo diplomatico di ricucitura del clamoroso strappo. Ora festeggia i suoi 70 anni. Rummenigge è sempre stato uomo di dialogo, non ha mai reagito di istinto, non ha mai usato toni sopra le righe e ha sublimato la sua naturale timidezza con la calma capacità decisionale di chi pratica il dubbio come Socrate e agisce con saggezza come Federico II. Forse non é un caso che sia concittadino di Martin Niemoller, militare tedesco sotto Guglielmo II, ordinato pastore protestante nel 1924 e fermo oppositore del regime nazista cui dedicò un sermone che gli costò l’arresto e la detenzione in un campo di concentramento. La stesura originale del suo discorso, successivamente rielaborata in modi differenti dai vari movimenti per i Diritti umani con il fine di attirare l’attenzione sull’apatia che incoraggia le persecuzioni, recitava così: "Quando i nazisti presero i comunisti, io non dissi nulla perché non ero comunista. Quando rinchiusero i socialdemocratici io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico. Quando presero i sindacalisti, io non dissi nulla perché non ero sindacalista. Poi presero gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero a prendere me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa". In un periodo storico in cui sembra prevalere l’eccesso verbale e divisivo, in cui la rabbia sociale diventa carburante per le autocrazie, in cui l’altro è visto sempre come distante al punto da rendere indifferenti sulla sua sorte, la speranza risiede proprio nel modello culturale e sociale di uomini come Karl-Heinz Rummenigge e Niemoller. Martin morì il 9 marzo del 1984, due mesi prima di quel giorno in cui a San Siro la gente inneggiava a Kalle, quasi a conferirgli un’eredità: “Gli anni ’80 sono stati bellissimi – ha detto più volte Karl – il mondo era più sorridente”. Ed è il suo sorriso che festeggiamo oggi, con l’auspicio sia lo stesso del mondo del futuro. Auguri Kalle

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Alessandro Biolchi