Inter e Barcellona: una semifinale da vera 'Guerra dei mondi'

La guerra dei mondi. Era questa l’atmosfera che si respirava alla vigilia della semifinale di Champions League nell’aprile del 2010 tra Inter e Barcellona. Mondi opposti e inconciliabili in quanto forgiati dalla personalità e dalla visione dei due allenatori, da allora paradigma di diade antitetica: Mourinho e Guardiola. Etica ed estetica, pragmatismo e utopia, cinismo e buonismo, Sparta e Atene, ripartenza e tiki-taka. Non una sola stilla di pensiero sovrapponibile e coincidente, se non in relazione al fine ultimo: la vittoria. Una irriducibile dialettica, insomma, di natura tattica e strategica, comunicativa e operativa. Corredata da tutti quegli elementi che arricchiscono i romanzi più avvincenti. In primo luogo perché in campo si sarebbero sfidati due campioni che solo pochi mesi prima si erano sfilati la maglia dell’una per indossare quella dell’altra: Ibrahimovic, orientato da un malessere passato agli annali come ‘mal di pancia’, aveva eletto la Catalogna come unica terra in cui coltivare i sogni Champions costringendo Moratti a una scelta tanto dolorosa quanto inevitabile. Ma la cui conseguenza avrebbe generato un ribaltamento di prospettive e un explicit narrativo degno di un capolavoro, vale a dire lo sbarco a Milano di Eto’o, fuoriclasse esente da ‘disturbi gastrici’ e disposto ad aderire alla filosofia mourinhana sino alle estreme conseguenze, visto che per la sua Inter si sarebbe sacrificato sino a interpretare il ruolo di terzino. Ma le pagine di quel romanzo contenevano altri elementi di fascino, sin dai primi e introduttivi capitoli: Thiago Motta, che aveva sfidato e battuto l’Inter con la maglia del Barcellona 7 anni prima, avrebbe affrontato il suo passato. Iniesta, profeta di un centrocampo onirico insieme a Xavi, avrebbe guardato la partita dalla tribuna a causa di un infortunio. Un vulcano impronunciabile e posto ai confini del mondo si mise a tossire così forte da oscurare le rotte aeree costringendo i blaugrana a un viaggio in pullman di 14 ore. A San Siro, insomma, sarebbe andato in scena il primo atto di un’opera complessa e coinvolgente. E lo si percepiva sin dal prologo. Bastarono pochi minuti per capire che nessuna trama sarebbe stata inghiottita dalla noia: Ibra sfiorò il suo proverbiale colpo dello scorpione in piena area, Eto’o costrinse Valdes a una parata tutt’altro che banale, Maxwell bruciò la fascia sinistra offrendo a Pedro il cioccolatino dello 0-1. Ma quello che accadde dalla mezz’ora in poi si sarebbe depositato con caratteri d’oro nel libro della storia nerazzurra: Eto’o, trasformato in ala destra in una delle sue splendide metamorfosi, mise in mezzo rasoterra. Milito, spalle alla porta, sembrò togliere il pane dai denti di Cambiasso che invece avrebbe potuto calciare direttamente in porta. Ma con una sorprendente virata aprì a sinistra per Sneijder, solo e feroce nell’aggredire quello spazio: 1-1. Ma la rasoiata capace di cambiare l’inclinazione del prato di San Siro arrivò al 3’ del secondo tempo: apertura perfetta di Pandev per Milito rapido a leggere la penetrazione di Maicon, palleggio in corsa e tocco elegante in diagonale, 2-1. L’inerzia dell’euforia produce ondate senza controllo e ormai l’Inter è padrona del campo. Ancora 13’ e Motta ruba palla sulla trequarti innescando Eto’o, cross dipinto per Sneijder solo dall’altra parte, colpo di testa strozzato a terra che si trasforma in perfetto assist per Milito: 3-1. Il resto è resistenza stoica alle giocate geniali di Messi, alle mischie furibonde in area, alle conclusioni rabbiose esorcizzate da Julio Cesar, alle astuzie ‘latine’ di Dani Alves in cerca di un rigore che non c’è . Del resto la quintessenza della bellezza di una sfida così è proprio l’anima latina delle società, degli allenatori e di molti giocatori. In particolare se scandita dal battito argentino, costante incrollabile degli incroci tra Inter e Barcellona. Fu così sin dall’inizio, nel 1959, quando i nerazzurri di Campetelli furono spazzati via dai Quarti di Coppa delle Fiere dai blaugrana guidati da tale Helenio Herrera, argentino emigrato in Marocco, poi in Francia e infine in Spagna, dove dimostrò le sue doti psicologiche e tattiche, tanto da vincere 4 campionati , una Coppa delle Fiere e una Copa del Generalisimo. E fu proprio quella doppia sonora batosta subita contro il suo Barcellona a illuminare Angelo Moratti: per costruire una squadra vincente c’era bisogno di quel signore lì. Tanto più se supportato dall’acquisto milionario del suo cardine di centrocampo, quel Luisito Suarez che avrebbe completato il mosaico della Grande Inter. E in qualche misura fu così anche nel 1969/70, quando i nerazzurri eliminarono il Barça dalla Coppa delle Fiere grazie ai gol di Boninsegna ma con Suarez in campo e un Herrera in panca, anche se stavolta si trattava del paraguaiano Heriberto. E fu così anche nel 2003, quando nella seconda fase a Gironi sulla panchina dell’Inter c’era Hector Cuper e in campo tra i blaugrana un incontenibile Saviola, autore di un gol e un assist nel 3-0 del Camp Nou. Ma l’hombre vertical si prese almeno la soddisfazione di imporre l’unico pareggio al Barcellona di Antic nel ritorno a San Siro, qualificandosi a braccetto con gli spagnoli capaci per il resto di fare percorso netto. E sarebbe stato così anche dopo quel magico 2010. Perché Inter e Barcellona si sarebbero affrontate ancora 3 volte. Nel 2018 l’Inter avrebbe affrontato il Barcellona nella fase a Gironi. Al Camp Nou vittoria facile del Barça, grazie anche a un gol dell’ex Rafinha, con Messi in tribuna ma stupito e sorridente di fronte all’invenzione del ‘coccodrillo’ mostrata al mondo da Brozovic, disteso dietro alla barriera in un atteggiamento che tutti successivamente avrebbero copiato. Ma al ritorno l’eroe sarebbe stato per un attimo l’argentino Icardi, capace di impattare il gol di Malcom a San Siro per un pari dal profumo di qualificazione, poi gettata via a San Siro contro il Psv. E che avrebbe messo in mostra per la prima volta a quei livelli un ragazzino chiamato Lautaro Martinez, entrato all’85’ e capace in 2 minuti di sradicare un pallone sulla trequarti, di difenderlo con determinazione e di offrirlo a Vecino per un tiro rimpallato che sarebbe diventato assist perfetto per il capitano. Lautaro, che avrebbe eletto il Camp Nou come sede della sua epifania internazionale l’anno successivo con Conte in panchina e senza più l’ingombrante connazionale a togliergli spazio là davanti. Due soli minuti di partita per segnare il suo primo gol in Champions: scatto bruciante e tiro perfetto in diagonale per il vantaggio momentaneo. Peccato che dopo un miracolo di Ter Stegen su suo colpo di testa un altro Luis Suarez, stavolta quello uruguaiano, avrebbe poi ribaltato la partita a una manciata di minuti dalla fine. E peccato che al ritorno un’altra epifania avrebbe cancellato la sua splendida sponda per il gol di Lukaku. La rivincita per quella doppia eliminazione ai Gironi, infatti, Lautaro se la sarebbe presa nel 2022/23 con Inzaghi in panchina. L’1-0 di Calhanoglu a San Siro la prima spallata, il 3-3 del Camp Nou otto giorni più tardi la certificazione aritmetica dell’impresa. Firmata, manco a dirlo, da Lautaro: prima con un gol sintesi di talento , potenza e geometria . E poi con un assist illuminante e geniale a Gosens per il 2-3 a due minuti dalla fine, essenziale per disinnescare il gol di Lewandowski nel recupero. Anima argentina Herrera, Cuper, Saviola, Icardi, Lautaro… anima argentina, dunque. Come all’andata di quella semifinale del 2010 consumata a San Siro e che tuttavia non fu incarnata da Messi, il giocatore più forte del mondo, ma da Diego Milito, l’umile e timido puntero autore di due assist e un gol nel 3-1 finale. Aiutato nell’impresa dalla ferocia agonistica di Samuel, dalla razionalità di Cambiasso, dal cuore di capitan Zanetti. Ma c’era ancora da giocare la gara di ritorno, il capitolo finale di una saga densa, emozionante e colma di tensione. ‘Remuntada’ fu il mantra adottato in Catalogna, ‘Pasaremos’ il verbo più utilizzato nelle interviste ai giocatori blaugrana, ‘Ens hi deixarem la pell’ la frase scritta su migliaia di manifesti sparsi in tutta Barcellona e applicata alla spalla di Messi come fosse un tatuaggio. Un’atmosfera colta come un’opportunità da Mourinho, maestro di comunicazione e abilissimo nel caricare la già intensa pressione sui rivali, scaricando contestualmente il peso dalle spalle dei suoi giocatori: “Per noi la Champions è un sogno, per loro un’ossessione” disse il portoghese in conferenza. Ma non solo. “È un problema per la miglior squadra del mondo ribaltare un 3-1? E allora dov’è il dramma che si legge nelle loro dichiarazioni? È solo una partita, mica bisogna fare la guerra”, quasi preconizzando i tentativi di disturbo della quiete interista da parte dei tanti tifosi spagnoli sotto l’hotel durante la notte delle vigilia. E ancora: “Io ero lì nel 1997 e so bene cosa significherebbe per loro vincere una Finale a Madrid. Già a novembre, quando arrivai qui con l’Inter per la fase a Gironi, si parlava solo di Madrid”. Già, perché Inter e Barcellona nel 2009/10 avevano avuto un prologo anche nel Girone F, passato a braccetto con i blaugrana primi dopo aver pareggiato 0-0 a San Siro e battuto i nerazzurri al Camp Nou 2-0. Ma soprattutto Mou mise a frutto la sua conoscenza profonda dell’ambiente barcelonista. Lui da quelle parti era ‘el traductor’ di Bobby Robson, almeno nella concezione vaga che ne aveva il Presidente blaugrana dell’epoca, Josep Lluis Nunez. Ma la verità è che Mou era ormai parte integrante dello staff dell’allenatore inglese sin dai tempi dello Sporting, nel ’92, quando effettivamente cominciò a collaborare come semplice traduttore perché, come scrisse Ryan Baldi su These Football Times, il club si rese conto che Robson in portoghese non avrebbe saputo ordinare nemmeno un drink. Ma da allora il trentenne Mourinho di strada ne aveva fatta, arricchendo le traduzioni di note tattiche del tutto personali, analizzando meticolosamente gli avversari di turno, perfezionando il lavoro di Robson sul campo e acquistandone progressivamente una fiducia che valicava decisamente i confini del ‘traductor’. In quel periodo al Barcellona Guardiola c’era già, nelle vesti di giocatore. E respirava la stessa filosofia, la stessa ideologia calcistica del portoghese. Ma è inutile chiedersi da dove derivi la successiva incompatibilità tra i due personaggi, perché spesso le antitesi germinano dallo stesso seme e le rivalità più irriducibili traggono origine dal medesimo humus culturale, ideologico, addirittura genetico. Da Romolo e Remo sino alle origini socialiste di Mussolini la storia trabocca di esempi di antimateria generata dalla materia. Mou lasciò il Barcellona con parole al miele e ci sarebbe probabilmente tornato volentieri nel 2008, quando invece Laporta preferì scommettere sul giovanissimo Guardiola. Ma la sua evoluzione lo aveva già portato sul sentiero dell’eresia rispetto al credo di quella Polis calcistica che si traduce nel motto “Mès que un club”. Tanto che l’anno successivo avrebbe valicato il muro più solido del tifo iberico, sposando la causa del Real Madrid. E dando vita ad altri indimenticabili scambi di strali con Pep Guardiola: dal “Puto amo, puto jefe” del catalano rivolto al portoghese, all’anafora di quest’ultimo con l’ossessivo “Porqué” declinato polemicamente contro le trame occulte che favorivano sistematicamente l’avversario. La battaglia Ma nel 2010 era ancora solo Barcellona-Inter. E c’era il ritorno da giocare per conquistarsi il paradiso. Non fu una partita, fu una battaglia. Prima di tutto psicologica, nella quale Mou seppe costruire un capolavoro. Sì, perché la sfida calcistica in senso stretto durò solo fino al 28’, minuto in cui l’arbitro De Bleeckere abboccò all’amo di Busquets: Motta, già ammonito, allargò il braccio per proteggersi istintivamente dal pressing feroce portato dallo spagnolo alle sue spalle. Nessun gesto violento, ma solo il fortuito e lieve contatto della sua mano col volto dell’avversario. Busquets cadde a terra “come corpo morto cade”, portandosi le mani al volto e allargando le dita per sbirciare se la sua furbizia avesse colto nel segno: cartellino rosso, Camp Nou esultante come per un gol e panchina blaugrana in campo a festeggiare. Fu in quel momento che emerse la lucidità psicologica di Mourinho. Nessuna protesta eclatante, solo un sorriso sarcastico a sottolineare come un fatto del genere fosse atteso, quasi scontato, dunque non così preoccupante come poteva apparire. Nessun gesto provocatorio, in stile manette: quel pubblico non era il suo, non c’era nulla da trascinare. Occorreva invece infondere sicurezza e coraggio ai suoi. Dunque calma olimpica, incitamenti passionali alternati a espressioni rasserenanti. E una passeggiata esibita a uso e consumo dei suoi guerrieri: quella verso la panchina di Guardiola, intento a richiamare Ibra per fornire suggerimenti tattici dopo l’espulsione di Motta, per dire a tutto lo staff blaugrana una sola frase: “Inutile che festeggiate, la partita non è finita”. Il resto era del tutto prevedibile: pullman davanti alla difesa, Milito ed Eto’o a supportare i terzini di fascia, Sneijder col compito di alleggerire la pressione quanto più possibile. Ma l’Inter in realtà non passò praticamente più la metà campo. Un’ora di difesa strenua grazie alla gigantesca prova di Lucio, Samuel e Chivu, alle parate di Julio Cesar, alla disciplina di tutti gli altri. Come una testuggine testarda l’Inter rimase ancorata alla sua voglia di lottare, senza curarsi dei mille cross e delle decine di tentativi di penetrazione su ogni lato del bunker. Fino all’83’. Quando Piqué trovò lo spiraglio giusto per presentarsi davanti a Julio Cesar conservando la lucidità per evitarne l’uscita disperata con una pregevole giravolta su sé stesso: 1-0. Cominciarono così i 10 minuti più lunghi della storia dell’Inter: fuori tutti gli attaccanti , dentro Muntari, Cordoba e persino Mariga, come pezze di cuoio da applicare a un’armatura lacerata. Difesa totale e strenua. Come i 300 alle Termopili. Come Custer a Little Big Horn. Ma non esiste un romanzo di successo senza il colpo di scena finale: 92’, l’ennesimo cross spedito verso il limite dell’area viene intercettato da Samuel che, nel tentativo di respingere al volo, colpisce in pieno Touré. L’ivoriano, che aveva ormai abbandonato le praterie della sua difesa per rinforzare l’onda d’urto offensiva, porta istintivamente la mano davanti al petto per proteggersi dal proiettile e la palla finisce proprio lì, smorzandosi e restando così nella sua disponibilità. Tocco preciso per Bojan e botta di prima intenzione sotto la traversa. Ecco l’attimo celebrato da Woody Allen in ‘Match Point’: la palla resta in bilico sul nastro della rete e per un istante eterno deve decidere da che parte cadere. Il VAR non c’è, cosa avranno visto gli arbitri? Il Camp Nou esplode, è il segnale della ‘Remuntada’ completata? In realtà la decisione di De Bleeckere fu velocissima e decisa, gol annullato, Inter in Finale. Ma ogni tifoso, blaugrana o nerazzurro, sarebbe disposto a scommettere che tra la rete scossa da Bojan e il fischio dell’arbitro il tempo avesse smesso di scorrere. Come avviene nell’anima latina e nella passione argentina di chi “È venuto quasi dalla fine del mondo”. Perché in realtà Barcellona-Inter non è oppressione, come in una guerra tra mondi. Ma è bellezza profonda. Proprio la fine del mondo.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Inter e Barcellona: una semifinale da vera 'Guerra dei mondi'

Alessandro Biolchi