Cusin: "Dalla Palestina al sogno Mondiale sfiorato con le Comore: il mio viaggio"

Tripoli, Saint-Martin, Plovdiv, Abu Dhabi, Hebron, Mashhad, Aradippou e Thohoyandou. Solo per citare alcune città che lo hanno ospitato. Tre continenti, una quindicina di Paesi e migliaia di chilometri percorsi. La vita da allenatore di Stefano Cusin è un gigantesco mappamondo calcistico, dove quasi ogni bandierina è stata piazzata in posti che sono ben distanti da quello che è il calcio 'canonico' a cui siamo abituati. Nato in Canada e cresciuto in Francia, prima di tornare in Italia solo dopo i 20 anni, Cusin ha vissuto fin dall'infanzia in mezzo a popoli, culture e profumi diversi, un background che lo ha portato, quasi con naturalezza, a diventare il giramondo che è oggi. Perché il calcio, prima dei guadagni e della notorietà, è un modo per emozionarsi, e su questo concetto non si transige. Iran, Bulgaria, Sudafrica, Cipro e Libia, solo per citarne alcune: la sua carriera finora è stata un’avventura dopo l’altra. Tutto però è partito dal Camerun, ormai più di 20 anni fa. Come e perché arriva nel cuore dell’Africa? “Soprattutto per curiosità. Sono sempre stato convinto che nel continente africano ci fosse del gran potenziale, mancavano solo organizzazione e lavoro. Nel 2002 la Fifa pubblicò i contatti dei pochi agenti affiliati che operavano in Camerun: mandai una mail a tutti, spiegando il progetto che avevo in mente, di sviluppare il calcio sfruttando l’approccio e la cultura italiane. Una delle risposte che ricevetti fu del fratello del vicepresidente della federazione calcistica locale, con cui iniziammo dalla nazionale Under17 e che di lì a poco vinse la Coppa d’Africa di categoria. Contemporaneamente giravo il Paese, per selezionare ragazzi sconosciuti delle periferie e dei quartieri poveri da portare al Torneo di Viareggio. Dopo tre anni fui chiamato per diventare direttore tecnico delle giovanili del Congo. È iniziato tutto così. Passo dopo passo”. Quale è stato il primo impatto una volta sceso dalla scaletta dell’aereo? “Un impatto emotivo. Commettevo l’errore di volere tutto subito, di pretendere che le persone del posto capissero il progetto. Quando ero io a non capire prima loro. Credo che tanti allenatori che vanno a lavorare in un altro Paese inizialmente fatichino per questo motivo: prima di imporre le proprie idee bisogna essere accettato da un punto di vista umano. Solo poi si può incidere con il lavoro. C’era tanto potenziale, tanto entusiasmo e tanta apertura mentale: molto bello. C’erano poche risorse, ma io ero abituato a lavorare con poco, mica avevo allenato Inter, Milan o Juve . Fu molto formativo per quello che fu il proseguo della mia carriera”. Qualcuno di quei ragazzi è poi riuscito a emergere? “Mi ricordo benissimo di Daniel Maa Boumsong, che scoprii in un torneo tra quartieri della città di Douala e che portammo a fare il Torneo di Viareggio. Lui venne preso dall’Inter, esordì anche con Mancini nella stagione 2006/2007 ma non riuscì mai a imporsi, finendo per fare tanti prestiti in giro per l’Italia. Poi ci fu anche Kelvin Matute, che andò all’Udinese e passò tantissimi anni di carriera tra Serie B e Serie C. Tanti di quei ragazzi sono arrivati in Europa, magari non in campionati di primissima fascia, ma è più che sufficiente: con i soldi guadagnati in Camerun si riescono a mantenere una cinquantina di persone”. Dopo l’Africa il suo primo approdo europeo fu in Bulgaria, un contesto molto insolito. “Durante il Viareggio lasciai il mio numero di telefono a un agente che lavorava molto con il mercato bulgaro. Qualche mese dopo venni contattato: il Botev Plovdiv voleva un allenatore italiano. Organizzammo un incontro a Padova con il presidente della società, che parlava un ottimo italiano perché era un amante di Venezia, e ci mettemmo d’accordo per un contratto di sei mesi, visto che a causa del clima il campionato viene diviso in due fasi. Dopo nemmeno due settimane vincemmo un’amichevole contro lo Slavia Sofia: il contratto da sei mesi divenne subito di tre anni. L’impatto fu molto difficile. Plovdiv è una città che soffre, tanti giovani sono disoccupati, e in quel periodo c’era in atto una forte contestazione verso la proprietà, tanto che per gli allenamenti dovevamo andare fuori città. Il clima era veramente teso, il club aveva anche grossi problemi economici. Dopo pochi mesi ci separammo”. Altro club, altro Paese: l’Al-Ittihad di Tripoli, in Libia. Il presidente era uno dei figli di Mu’ammar Gheddafi. È vero che avete stretto amicizia? “Una decina di giorni dopo aver lasciato la Bulgaria venni contattato da un agente per provare un’esperienza in Libia. Pensavo fosse per una squadra di bassa classifica, solo al momento della firma dei documenti ho scoperto che si trattava dell’Al-Ittihad, la squadra più importante del Paese. Hanno tifosi appassionatissimi e uno stadio da 80mila posti, l’impatto da un punto di vista mediatico fu notevole. Il presidente era il ‘dottor’ Mohamed Gheddafi, con cui scattò subito un feeling: dopo avermi conosciuto non proseguì nemmeno i colloqui con gli altri candidati per la panchina. Tante volte capitò che mandasse le guardie del corpo a prendermi per farmi portare nel suo ufficio, in una casa segreta o in un bunker, solo per parlare di calcio. Per ore e ore. Era una persona molto colta e molto divertente: dopo qualche mese mi confidò che con gli allenatori prima di me non aveva mai avuto alcun tipo di rapporto”. Si è mai chiesto perché da un punto di vista umano vi siete trovati così tanto? “La cosa buffa è che siamo in contatto ancora oggi, a distanza di più di 15 anni. Ogni tanto ci sentiamo ancora, tramite una persona in comune. È il bello del calcio. Lui è una persona squisita. Un gran conoscitore di calcio. Capisce i particolari del lavoro di allenatore e ti fa lavorare bene. Non è un caso se poi abbiamo vinto il campionato e a ottenere risultati importanti. Ho sempre sentito un grande appoggio da parte sua”. Ha mai sentito delle pressioni ‘politiche’ in quel periodo? “Mai direttamente legate alla squadra. Però noi eravamo la squadra del ‘potere’, insieme all’Al-Ahly, l’altra squadra di Tripoli, che era gestita sempre dalla famiglia Gheddafi. Quando andavamo in trasferta, spesso capitava che ci fosse un ambiente da ‘Far West’. In più di un’occasione ci sono state anche delle aggressioni fisiche. Si sentiva che il clima fuori casa era teso”. Chiusa questa parentesi, è stato per diversi anni il vice di Walter Zenga. Come è nata questa collaborazione? “Per caso, come è successo spesso nella mia vita sportiva. Con il Botev Plovdiv venimmo nelle Marche per fare la preparazione estiva, mentre in Umbria, nello stesso periodo, si stava allenando il Catania di Zenga. Visto che i miei giocatori volevano una sfida un po’ più impegnativa delle formazioni di Eccellenza e Serie D con cui avevamo giocato fino a quel momento, organizzammo un’amichevole. Dopotutto faceva comodo a entrambe le squadre”. Si ricorda il risultato? “Perdemmo 1 a 0. Ma giocammo molto bene. Dopo la partita Zenga venne a congratularsi con me, nonostante non ci fossimo mai visti. Parlammo per un’ora: di tattica, di schemi, di metodi di allenamenti e di esperienze all’estero. Fino a quando nello stadio non c’era più nessuno. Prima di salutarci ci scambiammo i numeri di telefono, con la promessa di rimanere in contatto. Difatti fu la prima persona a congratularsi con me dopo la vittoria del campionato in Libia”. E poi? “Ci risentimmo sotto Natale. Pensavo fosse solo per gli auguri, invece mi propose di fargli da assistente al Al-Nassr, la squadra che oggi è di Cristiano Ronaldo. Lui aveva già parlato con la proprietà e cercava un vice che avesse esperienza in Paesi di quel tipo. Lì per lì pensavo fosse uno scherzo, poi tutto si è fatto molto serio. Abbiamo iniziato per caso e abbiamo proseguito per parecchi anni, fino al 2017, al Wolverhampton. Ancora oggi siamo in contatto, ci siamo sentiti l’ultima volta un paio di settimane fa. Non è stato solo un rapporto di lavoro, abbiamo creato un’amicizia vera”. In questo periodo, approfittando magari di qualche amicizia in comune, non c’è mai stata qualche opportunità per venire ad allenare in Italia? “Qualche incontro c’è stato, non lo nascondo. Però non ho mai trovato l’ambiente e il progetto giusti. Io ho bisogno di sentire la fiducia e di capire per bene la linea da seguire, solo così sento di poter incidere. Le proposte che ho ricevuto non mi sembravano molto strutturate, oppure al contrario erano troppo ambiziosi per quelli che erano i mezzi. Quindi diciamo che non c’è mai stata una vera opportunità”. Durante la parentesi da vice allenatore, è finito anche in Palestina. Come è successo? “A inizio 2015 con Walter saremmo dovuti subentrare sulla panchina del Cagliari, ma non se ne fece più niente. In quel periodo non avevo intenzione di stare fermo, quindi chiesi la disponibilità a cercare un altro incarico. Ricevetti una chiamata da un’agente per andare all’Ahli Al-Khalil di Hebron, in Cisgiordania. Accettai. Pur consapevole che era un tuffo verso l’ignoto: cercando informazioni su Google si vedevano solo le bombe, la desolazione e i problemi degli abitanti”. Che ambiente ha trovato? “A convincermi del progetto fu la chiamata del presidente del club, una persona squisita. Mi tenne al telefono per quasi un’ora, raccontandomi della storia della squadra: una società giovane, che cercava di emergere sviluppando il talento dei giovani che erano in rosa. Erano terzultimi in campionato, l’obiettivo era mantenere la categoria. Fin dall’inizio ho sentito che erano un popolo bello, appassionato: nessuno ha mai cercato di spiegarmi il conflitto o di criticare Israele, hanno lasciato che mi facessi la mia idea e di comprendere al meglio la situazione. Giocammo addirittura la Supercoppa a Gaza, 15 anni dopo l’ultima volta, ottenendo un permesso speciale grazie all’intervento dell’ex presidente Fifa Blatter. Fu un’avventura, anche perché riuscimmo nell'impresa di vincere quattro titoli in nemmeno 10 mesi e arrivammo a giocare la fase a gironi della Champions League asiatica”. Si ricorda qualche momento significativo di quell’esperienza? “A Gaza City venimmo ricevuti da Ismail Haniyeh, al tempo capo di Hamas. Parlammo sempre e comunque di calcio. Perché lì è uno dei pochi mezzi di espressione e divertimento. In tutti gli stadi l’accoglienza era sempre calda, affettuosa: ricevevo dei cori di apprezzamento anche da parte degli avversari, per aver scelto di allenare in un Paese come la Palestina. Nel mondo del calcio non è così comune omaggiare l’allenatore rivale. Il fatto di avere un italiano nel loro campionato era un motivo di vanto. Certo, ricevetti anche diverse minacce dalla controparte israeliana per la mia scelta. Mi sentivo a casa. Venivo invitato a cene, matrimoni e addirittura funerali. Fu un’esperienza meravigliosa, profonda da un punto di vista umano, ben oltre il calcio”. Tant’è che successivamente in carriera ci è tornato. “È vero. Nel 2019. Avevano costruito una squadra per vincere ma non ce l’avevano fatta. Io venivo da due esperienze negative, a Cipro e in Sudafrica. Il presidente, con cui ero rimasto in buonissimi rapporti, così come tutto l’ambiente, mi chiamò e mi disse: “so che sei libero”. Accettai subito di tornare per finire la stagione, sentivo troppo il bisogno di ritrovare un’ambiente sereno”. Un altro Paese diverso e delicato in cui ha allenato è l’Iran, dove è stato subito dopo la seconda parentesi in Palestina. Come viene vissuto il calcio a quelle latitudini? “L’Iran già lo conoscevo, c’ero stato per la Champions League asiatica con l’Al-Nassr. Lo stadio di Teheran per esempio contiene 90mila spettatori. È uno Stato con un campionato importante, non è un caso che la nazionale sia spesso al Mondiale e che i club arrivino sempre in fondo alle competizioni continentali. Per certi aspetti si avvicina anche all’Italia: la cultura del cibo, dei rapporti personali, è simile alla nostra. Però in quel periodo, a inizio 2020, il Paese non viveva una situazione facile: a causa di alcune questioni geopolitiche era sull’orlo di un conflitto con gli Stati Uniti. Infatti ricordo che la mia famiglia era molto preoccupata quando comunicai la decisione di partire”. Il primo impatto? “Abbastanza forte. Arrivato all’aeroporto di Mashhad, che la capitale religiosa del nord del Paese, venni accolto dai servizi segreti. Probabilmente visto il mio abbigliamento ero stato scambiato per un militare. Venni tenuto in una stanza per 48 ore, sotto sorveglianza, fino a che non vennero fatti tutti i controlli del caso. Quando fu assodato che ero solo un allenatore, mi rilasciarono. Ci siamo rifatti subito, vincendo le qualificazioni per la Champions League asiatica: sportivamente parlando, è iniziata bene”. Arriviamo a oggi. Cosa l’ha convinta ad accettare il progetto delle Comore? “La risposta è proprio nella domanda: il progetto. Arrivavo da un’esperienza con la nazionale del Sud Sudan e la federazione cercava un Ct con le mie caratteristiche: europeo, pratico dell’ambiente africano, bravo a lanciare i giovani. Parlando con il presidente ho capito che non c’era fretta, che la missione principale, per il momento, era svecchiare la squadra e far ripartire il movimento. Mi è piaciuto molto il suo entusiasmo controllato, tipico di una persona che ha il polso della situazione. Non ci ho messo molto ad accettare”. Il primo compito da Ct delle Comore? “Convincere i bi-nazionali a scegliere la nostra squadra. All’inizio è stato complicato, perché i senatori erano in conflitto con la federazione. Al primo raduno non si sono presentati in 20, abbiamo dovuto convocare un folto gruppo di ragazzini che giocavano in Francia, senza esperienza internazionali. Incredibilmente abbiamo battuto Capo Verde per 2-1 all’esordio, in rimonta. Da quel momento sono cambiati i rapporti. Oggi abbiamo un buon mix di veterani e di giovani, penso siamo tutti soddisfatti: ci siamo qualificati per la Coppa d’Africa, ci siamo giocati l’accesso al Mondiale e siamo cresciuti di 30 posizioni nel ranking. Stiamo facendo cose importanti per questo Paese”. I risultati confermano la forte crescita del progetto. Ma che tipo di calcio si gioca alle Comore, che valori tecnici possiede la sua squadra? “Sono giocatori tecnici, generalmente poco fisici. Infatti soffrono le squadre che la mettono sul piano dei muscoli. Hanno una bellissima mentalità: sono dei guerrieri ma allo stesso tempo sono delle brave persone. Il campionato locale è poco competitivo, quindi abbiamo dovuto fare un attento lavoro di scouting verso i giocatori con il doppio passaporto, soprattutto nelle serie minori francesi. Grazie al lavoro e alla voglia stiamo raccogliendo dei risultati importanti: ci siamo qualificati per la prossima Coppa d’Africa da primi nel girone, pur essendo nello stesso gruppo con la Tunisia, il Madagascar e il Gambia. Il tutto senza praticamente mai giocare in casa, per colpa di alcuni problemi con lo stadio. Il Mondiale non è mai stato un obiettivo, era una missione troppo grande, però già aver fatto 15 punti nel girone è qualcosa di incredibile. Avessimo potuto giocare le partite in casa, sono convinto che avremmo potuto andare almeno ai playoff per il Mondiale 2026”. Ha già scritto in poco tempo una pagina di storia delle Comore. Cosa si augura di poter ottenere in futuro con questa nazionale? “Quando firmai il contratto si parlò di un progetto di ricostruzione come obiettivo principale. Di arrivare alla Coppa d’Africa ce lo siamo ‘imposti’ all’interno dello spogliatoio mentre le qualificazioni per il Mondiale sono state un palcoscenico soprattutto per crescere. Per il futuro immediato l’obiettivo sarà ben figurare nella prossima Coppa d’Africa, dove avremo un girone molto impegnativo con Marocco, Mali e Zambia. Sul lungo periodo, d’accordo con la federazione, la missione sarà quella di essere regolarmente partecipanti alla rassegna continentale. Poi perché no, magari provare ad andare al Mondiale del 2030, approfittando del numero allargato di squadre qualificate: sarà un’impresa molto difficile, ma sono convinto sia possibile”. Come viene organizzato il lavoro? E la parte di scouting? “Le mie mansioni si dividono in due parti. La prima a livello locale, sulle Comore, dove cerco di organizzare corsi per allenatori, di partecipare all’inaugurazione di nuove infrastrutture e di convincere squadre europee a venire nell’arcipelago per vedere i giocatori e investire sul posto. Ma è un lavoro lungo, ci vorranno almeno 7/8 anni prima di vederne i frutti. La seconda è tutta la parte di scouting: seguiamo molto il calcio francese, in tutte le sue categorie, dalla Ligue 1 fino all’equivalente dell’Eccellenza. Solo a Marsiglia ci sono 80mila cittadini di origine comoriana. A oggi abbiamo una lista di 100 nomi, che io e il mio staff seguiamo regolarmente. Spesso seguiamo dei calciatori anche in Portogallo e in Olanda, il più possibile ci vado in prima persona. Così da cercare di convincere chi ha un doppio passaporto”. Con quale frequenza è fisicamente alle Comore? “Dipende dal periodo. Nell’ultimo periodo non moltissimo, tra amichevoli, trasferte e scouting. Anche a novembre e dicembre sarà così, visto l’avvicinarsi della Coppa d’Africa. In questa fase devo stare molto focalizzato sulla prima squadra. Da gennaio invece riprenderò con il mio programma locale, trasferendomi sull’arcipelago. Sono tre isole, ognuna con il suo campionato e la sua vita: cercherò di passare quanto più tempo possibile alle Comore per continuare nel nostro percorso di crescita”. Cosa rappresenta il calcio in un Paese piccolo e frammentato come le Comore? “È per distacco la cosa che unisce queste isole, perché si parla spesso di scissioni o di problemi politici. Quando ci siamo qualificati per la Coppa d’Africa, per esempio, battendo il Gambia, in tutte le isole c’erano dei maxi schermi nelle piazze. Una cosa incredibile. Alle Comore il calcio è una ragione di vita, è l’argomento di discussione preferito nei ristoranti, negli aeroporti. Anche in giro per l’Africa. Ricordo un cuoco in Costa d’Avorio che mi disse: “coach, la squadra mi ha fatto sentire fiero di essere comoriano”. Lì il calcio è alla base della società, è orgoglio, è vita”. Lei è un ‘giramondo’ anche da prima di fare l’allenatore: è nato in Canada da genitori italiani, poi è cresciuto in Francia. Crede che le sue origini l’abbiano aiutata per la sua carriera? “Sicuramente! La mia famiglia è tornata dal Canada quando avevo tre anni. Io sono cresciuto in Francia, nei quartieri popolari, dove abitare nello stesso palazzo con italiani, portoghesi, spagnoli, algerini e marocchini era la normalità. Si viveva tutti così a stretto contatto che il pensiero di essere di provenienze diverse non esisteva nemmeno. Fin dall’infanzia ho avuto questa idea che il mondo fosse piccolo, difatti io da giocatore sono stato anche in Svizzera e ai Caraibi. L'idea del viaggio, di andare a cercare emozioni in altri Paesi e di visitare il mondo attraverso lo sport, ce l’ho dentro da sempre. Il Camerun al Mondiale del ’90, o il Senegal al Mondiale ’02 sono state squadre che mi hanno affascinato tremendamente: da lì nasce questo amore per l’Africa e per il calcio ‘itinerante’. Ha parlato di ‘emozione’. Quale parte della sua carriera gliene ha data di più? “Emozione e passione sono il motore della mia vita. Non ho scelto di fare l’allenatore per i guadagni o per la notorietà, ma per le sensazioni che questo sport mi riesce a trasmettere. Ogni Paese in cui sono stato mi ha lasciato qualcosa, perché in ognuno di essi ho vissuto delle emozioni, positive molto spesso ma qualche volta anche negative. Dalla Palestina, che mi ha accolto con amore, alla Libia, dove ho fatto un percorso importante e che ricordo con piacere nonostante il contesto oggi sia molto diverso. Fino all’Inghilterra, dove ho toccato il calcio europeo ai massimi livelli, e a tutta l’Africa, dove ho visto cose incredibili, anche fuori dal calcio”. In quale Paese si è trovato meglio? In quale invece peggio? “Da un punto di vista lavorativo il primo che mi viene in mente sono gli Emirati Arabi: a Dubai, ad Abu Dhabi si vive in condizioni favolose, a livello di stile di vita e di infrastrutture. Impossibile anche non citare l'Inghilterra: per stadi, ambienti e tifosi da allenatore è il meglio che ci sia. Ho ancora il bellissimo ricordo di una vittoria in casa del Newcastle di Benitez, davanti a 70mila persone, e la festa sfrenata dei 4mila tifosi che ci avevano seguito in trasferta. Quello sì che era calcio! Le uniche due esperienze che posso dire siano state negative, invece, sono state quella in Sudafrica, dove a Polokwane ci sono ancora diverse problematiche di carattere razziale, e a Cipro, dove avevo a che fare con un presidente dalla personalità non congeniale al mio modo di lavorare. Paradossalmente mi sono sempre trovato meglio nei Paesi che l’opinione pubblica dipinge come ‘difficili’, per esempio la Palestina e l’Iran”. Si ricorda un momento, un dettaglio, una storia di questa sua lunghissima carriera? In positivo ma anche in negativo. “Non uno, tanti! Per esempio la vittoria del derby di Tripoli, davanti a 80mila spettatori, un’emozione enorme. Ricordo un ragazzino all’inizio della mia carriera, in Camerun. Era un talento naturale, viveva solo con il nonno. Un giorno mi disse: “l’unica cosa di cui mi rammarico è che mio nonno non potrà mai vedermi”. Io pensavo fosse solo un problema di trasporti, solo poi ho scoperto che questo signore era cieco. Un’altra volta un ragazzino mi disse che la cosa che più amava del calcio era che tutti bevessero dalla stessa bottiglia, senza distinzioni di razza. In Palestina c’è stata l’avventura di conoscere Ismail Haniyeh, dopo un percorso fatto di tunnel e di bunker, che in quel momento era il leader di Hamas e il ricercato numero uno dell’FBI. Cenammo insieme parlando solo di calcio, gli interessava sapere i dettagli del mio lavoro a Hebron. Oppure quando in Sudafrica prima di ogni partita entrava lo stregone nello spogliatoio, pensando di poter fare la formazione. Grazie al mio lavoro ho conosciuto ministri, capi di stato, tanti Paesi e culture diverse. Il calcio mi ha regalato tantissime emozioni e tantissimi ricordi, perché è un veicolo per unire tutto il mondo”. L’ultima domanda: dopo una carriera così, quale Paese le manca sul mappamondo del calcio? Vorrebbe provare un’esperienza in Italia prima o poi? “Diversi: il Giappone, il Brasile, gli Stati Uniti, la Francia. Prima o poi una nazionale molto competitiva. Ho ancora tanti progetti e tanta voglia di calcio, non mi vedo ancora a stare a casa. Allenare in Italia non è un’ossessione, perché è il mio Paese. Conoscendo la cultura sarebbe più facile. La vera sfida per me è conoscere Paesi, persone e culture nuove, adattarsi in situazioni inedite. Dipenderà come sempre dal tipo di progetto, però non è un tipo di esperienza che voglio provare a tutti i costi. Vedremo in futuro”.

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Simone Dagani