Marani: "La Nazionale azzurra di Valcareggi vera rivoluzione del 1968"

l'impresa
Matteo Marani

Matteo Marani

La prima volta in cui l'Italia divenne Campione d'Europa, fu nel 1968: la vittoria rappresentò un evento gigantesco, straordinario e sino a oggi irripetibile

ITALIA-INGHILTERRA, L'AVVICINAMENTO LIVE

Era l'Italia dei governi balneari, del pudore dipinto sul viso delle ragazze, della tv in bianco e nero. La prima, e speriamo non più ultima volta in cui la squadra azzurra divenne Campione d’Europa, fu nel 1968, anno di contestazioni nelle Università, di lotte tra padri e figli, di sogni, di luna da toccare, raggiunta l’estate successiva con la gente davanti al video.

L'importanza di Valcareggi

Anche quello di Ferruccio Valcareggi fu un allunaggio speciale. Un piccolo passo di un uomo per un grande passo del movimento azzurro, uscito distrutto dal Mondiale inglese del 1966. Al gol del dentista coreano Pak Doo Ik, che poi dentista non è mai stato, crollarono di colpo la presidenza federale di Giuseppe Pasquale e la panchina del povero Edmondo Fabbri, il malcapitato "Mondino", sul quale cadde lo stigma della peggiore sconfitta nella storia dello sport nazionale. Corea come Caporetto, tragedie del Paese. Fu lì che il nuovo presidente della Figc, Artemio Franchi, uno che di strada ne avrebbe fatta parecchia, indicò il nome di Valcareggi da affiancare al fascinoso Helenio Herrera. Finché il Mago crollò con la sua Inter e a quel punto, anno 1967, toccò al triestino pratico, saggio, ma anche piuttosto schivo, guidare da solo. Un uomo talmente normale, lontano da certe autocelebrazioni odierne, che non fece nemmeno una foto con la Coppa d’Europa nella notte del 10 giugno. Non si trovano, non ci sono. "Tenete ragazzi – disse ai giocatori – questa l’avete vinta voi ed è giusto che siate voi ad alzarla".

Una lezione immensa

Quella vittoria fu in effetti un evento gigantesco, straordinario e sino a oggi – ahinoi – irripetibile. Un'intera generazione, esattamente come Italia-Germania 4-3 di due anni dopo, si sarebbe ritrovata nel ricordo di quel trionfo. A Euro ‘68 si erano iscritte 31 formazioni, divise in 8 gironi. A noi ne capitò uno facile, con Svizzera e Cipro, ma duri furono i quarti contro la Bulgaria. Andata a Sofia, persa 3-2 con un Rivera a mezzo servizio, e 2-0 al ritorno al San Paolo, con reti di Prati e Domenghini. Quel successo, seppure sofferto, ci portò alla fase finale, composta da quattro squadre, e in programma dal 5 giugno in Italia. Tornammo di nuovo a Napoli per affrontare stavolta l’Unione Sovietica, ancora sfida ideologica in epoca di blocchi contrapposti. Centrò un palo Domenghini, ma il risultato non si sbloccò. A porte inviolate, come avrebbe detto Nicolò Carosio ai microfoni della Rai, si decise con il sorteggio.

La cronaca

I rigori infati non c’erano, si ricorreva al lancio della monetina, eseguito dal tedesco Tschenscher nello spogliatoio napoletano. La moneta prescelta furono 5 franchi svizzeri, oggi visibili al Museo del Calcio di  Coverciano. Il nostro capitano, Giacinto Facchetti, il quale vestiva il 10 sulla maglia perché allora si assegnavano i numeri in ordine alfabetico, scelse testa. E testa fu, con la sua corsa impazzita in campo per festeggiare insieme al resto del gruppo. L'8 giugno fu tempo così del duello decisivo contro la Jugoslavia. L’Italia faticò molto, con diversi giocatori in difficoltà fisica, e dopo il vantaggio della Jugoslavia realizzato dal fortissimo attaccante serbo Dzajic, lo stesso che aveva regolato l’Inghilterra in semifinale, la partita si trascinò stancamente fino a 10 minuti dal termine. Gli slavi facevano passare il tempo, gli italiani non riuscivano a pareggiare. Finché una punizione dal limite permise a Domenghini di pescare l’1-1 che ci regalò la finale bis due giorni più tardi, il 10 giugno 1968, giorno entrato nella storia.

La mossa decisiva

La mossa decisiva la piazzò Valcareggi alla vigilia, cambiando cinque giocatori rispetto alla prima gara. Piazzò De Sisti al posto di Juliano, rimise Mazzola e recuperò Riva, che andò a sostituire Prati e che si piazzò, in attacco, accanto ad Anastasi, idolo di ogni tifoso meridionale e alla seconda presenza in azzurro. In mezz’ora, proprio Riva e Anastasi chiusero il conto. Il primo segnò di sinistro, lesto e rapido, l’altro infilò la porta jugoslava con tiro al volo in semirovesciata, bellissima rete che spense le velleità di una squadra già provata, stanca e acciaccata. Al fischio finale dello spagnolo Ortiz de Mendibil, sugli spalti dell’Olimpico si accesero migliaia di torce con i giornali. Uno spettacolo di calore e di amore eccezionali, che cancellavano gli anni difficili dai quali veniva il calcio nostrano. Esattamente come avviene oggi, con la richiesta a Mancini di cancellare a Wembley l’amarezza del Mondiale mancato e un decennio di digiuno internazionale per i nostri club. La notte del 10 giugno di 53 anni fa, un tempo ormai troppo lontano, l’Italia scese in piazza per festeggiare. Ciò che vorremmo fare nuovamente domenica, ricordando nella circostanza quella squadra azzurra che ci portò il primo titolo. Quasi fosse una filastrocca: Zoff, Burgnich, Facchetti; Rosato, Salvadore, Castano; Domenghini, Rivera, Anastasi, De Sisti, Riva.