Lisci: "Il mio Osasuna non vuole porsi limiti. Proprio come il miracolo Mirandes"

La città di Pamplona, 200mila abitanti nel cuore della Navarra, a 50 chilometri dal confine con la Francia, è conosciuta soprattutto per due cose: per essere la prima grande tappa sul cammino verso Santiago di Compostela e per le sue famose corse dei tori, che galoppano per le vie del centro storico durante i giorni della festa per San Firmino, patrono della città. Quello che in pochi sanno è che la città è stata fondata in epoca romana, nel primo secolo a.C, da Gneo Pompeo Magno, prima alleato politico e poi rivale di Giulio Cesare. Romana, dunque, come il nuovo allenatore della squadra che rappresenta la città, l'Osasuna. Alessio Lisci è sì nato a Roma, ma la sua formazione calcistica è tutta spagnola. Cresciuto sportivamente nelle giovanili del Levante, club dove ha fatto tutta la trafila fino alla prima squadra, si è messo in mostra al Mirandes, in Segunda Division, squadra che ha portato a pochi minuti dalla promozione in Liga nonostante il piccolissimo bacino di utenza e le poche risorse messe a disposizione dalla società. Oggi riparte da Pamplona, dall'Osasuna, unico allenatore italiano in Spagna dopo la partenza di Carlo Ancelotti, per continuare nel suo percorso di crescita. Il suo mantra è "non poniamoci limiti": crederci sempre, per correre verso un futuro di successi. Partiamo dal principio. Come comincia la tua avventura? “È una storia che racconto spesso. Ai tempi dell’università ho vinto una borsa di studio per fare un tirocinio all’estero. Ho mandato un po’ di curriculum in giro e tra le squadre che mi hanno risposto c’era il Levante. Sono andato, ho lavorato per sei mesi nello staff della formazione primavera e alla fine del percorso la società mi ha voluto tesserare. Da lì è iniziata la mia carriera”. Perché hai scelto la Spagna? “Perché sono da sempre un fan del calcio spagnolo e della Liga. E poi per i corsi di allenatore, che in teoria sono più semplici, anche se poi è stato comunque complicato perché mi sono dovuto spostare a Madrid. Ma ne è valsa la pena”. Hai avuto una lunga carriera di più di 10 anni al Levante, arrivata fino alla prima squadra, dove non sei stato confermato nonostante dei buoni risultati. Cos’hai provato a lasciare il club che ti aveva cresciuto calcisticamente? “È stato un finale un po’ triste. In quei pochi mesi abbiamo fatto tanti punti, nel girone di ritorno avevamo una media da piazzamento europeo però non è bastato per salvare il Levante dalla retrocessione. La situazione che ero ereditato era molto compromessa. Ci siamo andati vicini, con lo staff abbiamo fatto un grande lavoro. Nonostante la difficoltà mi sentivo in dovere di provarci, come gesto riconoscimento per la società in cui sono cresciuto. Non avercela fatta mi ha lasciato parecchio amaro in bocca: è il calcio, bisogna saperlo accettare”. Saresti rimasto anche in Segunda Division? “Certo. La società lo sapeva. Hanno fatto un altro tipo di scelta. Con il senno di poi è andata bene a entrambi: ci abbiamo messo qualche anno però oggi ci ritroviamo in Liga”. Il passaggio successivo della tua carriera è stato il Mirandes, un contesto ben diverso da quello del Levante. Cosa ti ha convinto ad accettare la loro proposta? “Mi ha convinto perché venivo da una stagione senza panchina, in primis. Stava per ricominciare la stagione, c’erano delle trattative con alcuni club ma loro sono stati i più decisi, non volevo rischiare di rimanere fermo un altro anno. È vero, sono passato dalla Primera Division al club con il budget più basso di tutta la Segunda Division ma in quel momento mi interessava solo rimettermi in gioco. Sapevo che non sarebbe stato facile ma loro mi hanno fortemente voluto e io avevo voglia di dimostrare il mio valore”. Con il Mirandes nell’ultima stagione avete quasi sfiorato la promozione, sfuggita solo nei supplementari della finale playoff. Quanto ti è dispiaciuto essere andato così vicino all’impresa? “È stata un’avventura fantastica. Credo sia impossibile capire da fuori il contesto e la difficoltà di portare una squadra come il Mirandes così vicina alla Primera Division. Forse esagero, ma credo che nella storia del calcio spagnolo non ci sia mai stata una realtà così ‘estrema’ arrivata a quel livello, per bacino di utenza e potere economico. Siamo stati a un gol dalla promozione diretta, ancora penso allo 0-0 contro l’Almeria: non mi spiego come quella partita sia finita con un pareggio. Rimane un grande rimpianto, per me e soprattutto per i cittadini di Miranda. A meno di cose strane non succederà più di andare così vicini all’impresa. Tutti stavano vivendo un sogno, di questo ne sono felice. Un po’ di rammarico per essere caduti all’ultimo passo però rimane”. Cosa ti ha insegnato questa esperienza per il prosieguo della tua carriera? “Tantissimo. Per due anni ho lavorato con giocatori sempre diversi, quasi tutti giovanissimi e alcuni di grande talento che rivedremo in categorie più importanti. Mi sono creato una mia ‘rete’ di giocatori. Dal punto di vista umano, invece, ho imparato a sapermi arrangiare e a non lamentarmi, a fare tesoro di ciò che il club riusciva a mettermi a disposizione: al Mirandes non avevo un ufficio vero e proprio, lavoravamo sempre nello spogliatoio. Una bella rinuncia per chi come me passa tutto il giorno al campo. Penso mi abbia formato, la porterò sempre con me”. Prima di arrivare a Miranda sei stato tanti anni a Valencia . Com’è stato lo shock culturale il primo giorno che sei arrivato? “All’inizio ammetto di aver provato un po’ di paura. Nella mia vita ho vissuto a Roma, Barcellona, Valencia: tutte città molto grandi. L’avventura a Miranda, dove peraltro fa più freddo che nel resto della Spagna perché al Nord, mi ha spaventato. Una volta che mi sono ambientato invece sono stato benissimo. Città piccola, tanta natura intorno, potevo andare al centro sportivo a piedi: un grosso cambio ma un’esperienza assolutamente piacevole”. In estate sei stato scelto dall’Osasuna, un club che da diversi anni occupa la parte centrale della classifica. Con la società avete parlato di obiettivi? “Il primo è la salvezza, senza dubbio. Perché l’Osasuna è una squadra che non dispone di un budget alto, sta lavorando bene grazie alla sua pianificazione attenta. Il consiglio d'amministrazione vuole mantenere i piedi per terra e conservare la categoria. Anche lo scorso campionato, fino a 7/8 giornate dalla fine erano nel gruppo che lottava per la retrocessione, solo grazie a un filotto nel finale sono quasi riusciti ad arrivare in Europa. Cominciamo a salvarci, poi quando ce l’avremo fatta proveremo a guardare magari un po’ più in alto. Non bisogna mai porsi limiti, come ha dimostrato il Mirandes”. E da un punto di vista personale? Cosa ti aspetti da questa fase della tua carriera? “Sarà un’ottima opportunità per consolidarmi nella massima categoria. Anche perché io non sono stato un giocatore, e quando arrivi “da fuori” devi guadagnarti i successi con ancora più impegno e lavoro. Fare un passo falso rischierebbe di compromettere diversi anni di carriera, quindi il mio obiettivo è cercare di fare bene e farmi conoscere anche in Primera Division”. Che tipo di allenatore sei? Uno di quelli che impone la sua filosofia calcistica o che si sa adattare? “Io mi devo adattare. Si può rimanere fermi sulle proprie posizioni solo quando sul mercato l’allenatore ha totale libertà. Finora per me non è mai stato così. Ho allenato in club che devono essere bravi a sfruttare l’occasione di mercato e a sapere scegliere il giocatore giusto, senza sprecare risorse. Quindi sono un allenatore che si adatta totalmente alla rosa a sua disposizione”. Sei cresciuto con un modello di riferimento in panchina? “Uno nello specifico no. Cerco di ‘rubare’ un po’ da tutti. Una parte del mio staff si occupa anche di studiare le squadre che nelle ultime stagioni stanno facendo bene e capire se possiamo applicare alcuni dei loro principi di gioco alla nostra squadra. Fare l’allenatore è un lavoro di ricerca continua”. Da italiano trapiantato in Spagna, che differenze ci sono tra la Serie A e la Liga? “Sono due campionati differenti: in Italia ci sono più squadre che giocano con la difesa a tre, si fa più affidamento sulla difesa a uomo; in Spagna invece non c’è un’attenzione così maniacale alla fase difensiva. In attacco invece agli esterni o alle seconde punte sono chiesti compiti diversi rispetto a quelli che hanno in Serie A. Non che uno sia migliore dell’altro però”. Parlando di Serie A, c’è stata un’opportunità per tornare in Italia dopo il bel lavoro fatto con il Mirandes? “Ci sono stati degli interessamenti ma si sono interrotti presto. Ho ricevuto delle offerte più concrete dalla Spagna e dall’Inghilterra, per allenare un club che oscilla tra la Premier League e la Championship. Ma non dirò quale ”. Un ritorno in Italia, prima o poi, è contemplato? “Non escludo nulla. Io da allenatore guardo al progetto, non alla nazione. Nel calcio è difficile parlare di lungo periodo, comandano sempre i risultati, perciò cercherò sempre squadre con progetti stabili e una buona programmazione. Il Paese verrà dopo”. In alcune precedenti interviste hai raccontato che la preparazione estiva al Mirandes era complicata, perché l’organico era sempre ridotto ai minimi termini. Com’è stato finalmente trovare una rosa a ranghi completi? “Sono tornato a fare un precampionato ‘normale’, non ero più abitutato . Sono passato dalla squadra con meno giocatori in assoluto della Segunda Division a quella più completa della Primera Division, perché dei tre giocatori che abbiamo aggiunto alla squadra, due erano già con noi all’inizio della preparazione. Il 99% della rosa era fatto: ci siamo potuti conoscere bene, con calma, è stato un periodo formativo. Siamo arrivati bene al via della stagione”. Avete esordito in casa del Real Madrid. Cosa hai provato entrando sul prato del ‘Santiago Bernabeu’? “Per mia fortuna da questo punto di vista sono una persona abbastanza fredda. A prescindere dallo stadio cerco di isolarmi: dopotutto si parla sempre di calcio, si gioca sempre in 11 contro 11. È evidente che il ‘Bernabeu’ è uno stadio importantissimo e meraviglioso. L’ultima volta che ci sono stato non avevano ancora completato i lavori di ristrutturazione, adesso è ancora più d’impatto. Però alla fine si parla sempre di calcio, conta ciò che accade in campo”. Sei riuscito a mantenere la stessa ‘freddezza’ anche la settimana dopo? Avete centrato in casa la prima vittoria della stagione. “In quel caso no! Nelle vittorie cerco sempre di lasciarmi andare almeno un po’. Il calcio è uno sport frenetico, la stagione è lunga, si gioca ogni 4 o 7 giorni: durante un anno ci saranno sempre dei momenti di difficoltà. Quindi i successi bisogna goderseli. Sempre nei limiti, in questo mondo bisogna stare sul pezzo”. Tra Miranda e Pamplona, sede dell’Osasuna, ci sono poco più di 100km. Sei già tornato? “Non ancora. Ho in programma di farlo nelle prossime settimane. Il Mirandes in questo periodo sta ristrutturando una parte dello stadio, giocano le partite in una città poco lontana. Sto aspettando di vedere i lavori completati per godermi una partita dal vivo. Tornerò sicuramente con piacere, ho tantissimi amici lì e mi sono portato via un bellissimo ricordo”. Hai cerchiato sul calendario la partita contro il Levante? Sarà una rivincita? “Ormai è una partita come le altre. Ci ho già giocato contro in Segunda Division quando allenavo il Mirandes, la prima volta è stata emozionante, lo ammetto. Fa parte del passato, sono cose che succedono spesso nel calcio. Quando torno la tifoseria mi accoglie sempre con calore, ci siamo voluti bene. Vincere contro il Levante equivale a vincere contro qualsiasi altra squadra ormai, non c’è nessun senso di rivincita”. Sei più il tipo di allenatore che vive per il calcio o ti piace prenderti il tuo tempo per staccare dal campo? “Purtroppo è una specie di dipendenza . Cerco di staccare il più possibile ma è complicato. Non vedo nulla in diretta del campionato spagnolo, perché poi riguardo le repliche per preparare le partite. Quando mi capita guardo molto volentieri la Serie A, e ovviamente anche gli appuntamenti con la Champions League. Non è mai facile staccare del tutto. Ci provo quantomeno”. Fuori dal campo invece, come ti descriveresti? “Come un ragazzo normale, che ama le cose semplici. Passo praticamente tutti i giorni al centro sportivo. Quando ho un po’ di tempo libero mi piace fare sport e mangiare e bere bene, al nord della Spagna la cucina è buonissima. Mi manca la cucina italiana, lo ammetto. Per fortuna me la cavo ai fornelli, qualche volta mi diverto a preparare la cena per gli amici”. Cavallo di battaglia in cucina? “Da buon romano, una bella pasta alla carbonara”.

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Simone Dagani