Spalletti a Napoli da juventino: come si torna dove si è stati felici

«Non tornare dove un giorno sei stato felice, è una trappola della malinconia, tutto sarà cambiato e niente sarà più come prima, nemmeno tu. Non cercare gli stessi paesaggi, né le stesse persone, il tempo gioca sporco e si sarà occupato di distruggere tutto ciò che un giorno ti ha reso felice. Non tornare nel luogo in cui un giorno sei stato felice, tienilo sempre nella tua memoria, com'era, ma non tornare. La vita va avanti e ci sono nuove strade da percorrere, nuovi posti da visitare e altre persone che ci aspettano». Questa riflessione, di incerta paternità, imperversa su quasi tutte le piattaforme social dei nostri tempi, attribuita di volta in volta a personaggi diversi: poeti, intellettuali, attori di successo, scrittori. In realtà poco importa stabilire chi abbia steso il concetto secondo questa specifica formula, perché il tema del Nostos e della felicità è da sempre materia di analisi, sin dall’antichità. Una frase del genere, per esempio, è attribuita a Marco Porcio Catone , quello che si oppose agli Scipioni, quello che informò tutta la sua attività pubblica a un rigore morale talvolta ossessivo e ‘bacchettone’. “Non bisogna mai tornare dove si è stati felici”, disse: sintetico, tagliente, senza orpelli o declinazioni. Del resto Catone è quello che in Senato disse anche “Carthago delenda est”, punto. Mica c’era da aggiungere altro. Cesare Pavese ne ‘La spiaggia’ ribadisce con parole differenti, ma persino più drastiche: “Niente è più inabitabile di un posto dove siamo stati felici”. E anche Nelson Mandela si è cimentato su questo tema, lasciando ai posteri una riflessione simile, ma più neutra, certamente emersa dalla sua esperienza personale: “Niente come tornare in un luogo rimasto immutato ci fa scoprire quanto siamo cambiati”. E si potrebbe continuare a lungo. Sì, perché il ritorno non è mai il ripristino delle condizioni iniziali, ma una ricomposizione su basi nuove di ciò che appartiene al passato e che, come tale, non può rivivere intatto. L’eternità appartiene all’attimo, non allo svolgersi del tempo che tutto trasforma, e la sua dimensione è la memoria. Meglio: memoria trasfigurata che si contrappone alla promessa del futuro come teorizza Sant’Agostino, il filosofo del passato “che non è più” e del futuro “che non è ancora”, concetti mirabilmente espressi da De Crescenzo nell’esilarante scena del film ‘32 dicembre’. Un Luciano napoletano amante della filosofia antica e capace di trasferirla con efficacia comunicativa ai contemporanei: un po’ come quell’altro Luciano che napoletano di nascita non è ma che ha saputo regalare a quella città una gioia senza tempo: Spalletti. La sua prima volta in quello stadio fu il 14 settembre 1997. Ci entrò da allenatore di un Empoli che in due anni aveva portato dalla serie C alla serie A, paradiso tornato nella città toscana dieci anni dopo l’ultima volta. Era la seconda giornata di un campionato che sarebbe stato splendido per lui ma terribile per Napoli, retrocesso in B al termine della peggior parabola della sua storia. Era il tramonto dell’era Ferlaino che dopo la meravigliosa epopea maradoniana si stava sfarinando nell’inarrestabile crisi finanziaria che in pochi anni avrebbe tuttavia tracciato il sentiero per l’arrivo di Aurelio De Laurentiis. Al suo cospetto Bortolo Mutti e uno stadio mezzo vuoto, ma ugualmente ipnotico e affascinante. In campo nel suo Empoli c’era Martusciello, quello che sarebbe diventato collaboratore tecnico suo e di Sarri un po’ ovunque, ma curiosamente mai a Napoli. E quella partita la perse 2-1 grazie ai gol di Bellucci e Protti malgrado la sua squadra avesse mostrato un gioco convincente, tale da fargli dire a fine match: “Spero non diventi un’abitudine quella di ricevere complimenti senza portare a casa altro”. E quel giorno mai avrebbe pensato che l’apice della sua carriera l’avrebbe toccato proprio lì, in quello stadio, al termine di una stagione in cui l’abitudine sarebbe diventata quella di ricevere complimenti insieme ai tre punti. Ci sarebbe tornato da allenatore della Roma incarnando una sentenza per il popolo napoletano: quattro vittorie su quattro tra il dicembre 2005 e l’ottobre 2016, 11 gol segnati e uno solo subìto. Mentre con l’Inter si dovette accontentare di uno 0-0 nel 2017 per poi incassare un 4-1 il 19 maggio 2019 di fronte al Napoli di Ancelotti. Era la penultima giornata e alla fine Spalletti l’avrebbe comunque centrato, il piazzamento Champions: battendo proprio il ‘suo’ Empoli con un gol all’81esimo di Nainggolan e mantenendo il punticino di vantaggio sul Milan di Gattuso. Non bastò per tenersi la panchina dell’Inter che di lì a poco sarebbe stata affidata ad Antonio Conte, quasi a evocare un passaggio di consegne che proprio a Napoli avrebbe vissuto la sua sublimazione in staffetta tricolore. E quella sonora sconfitta del San Paolo in nerazzurro è rimasta l’ultima volta da avversario, in attesa che la sua figura riemerga dalla pancia del ‘Maradona’ vestita dall’abito sociale della rivale più irriducibile, la Juventus. Ma è ciò che c’è stato in mezzo a rendere speciale quel ritorno. Luciano Spalletti arrivò a Napoli nell’estate 2021, poche settimane dopo l’evaporazione dei sogni Champions di Gattuso infranti dal gol di Faraoni all’ultima giornata: Napoli-Verona 1-1 e sorpasso subìto sul filo di lana da parte della Juventus . La sua prima conferenza stampa fu tra il visionario e il profetico: “Questa è una città è piena di persone che hanno lasciato il segno nella storia. E noi vorremmo essere ricordati da Napoli e dai napoletani”. E ancora: “Dovremo mettere in campo un calcio che somigli alla città. Dovessi scegliere un aggettivo direi che voglio una squadra sfacciata. Mi piace molto il coro dei tifosi 'Sarò con te…' perché è una mano che ti tende la città, ed è una mano che dovremo stringere forte”. Ma soprattutto già al primo rintocco evocò la chiusura di un cerchio, tappa finale di un viaggio epico e sentimentale, lo stesso che nel mito trasforma la terribile sirena Partenope in vittima dell’amore impossibile per Ulisse. E il cui corpo, affidato alle onde del mare, giunge esanime nel golfo di quella città che sorgerà sulle sue sembianze: la testa a Capodimonte e la coda a Posillipo. Eccolo il viaggio dell’anima dell’eroe incatenato all’albero della nave e di mille altre avventure: “Completo il tour dell’anima. Sono stato a Roma, la città del Papa. Poi ho allenato a San Pietroburgo, la città degli zar, poi a Milano, la città della Madonnina e della Moda. E ora allenerò il Napoli, la città di Maradona e la città di San Gennaro, dove il calcio e i miracoli sono la stessa cosa”. E in effetti sembrava esserci qualcosa di miracoloso in quella partenza bruciante: otto vittorie consecutive, 19 gol fatti e solo tre subìti, 24 punti messi in fienile, dieci più della Juventus di Allegri, dell’Atalanta di Gasp e della Lazio di Sarri, nove più della Roma di Mourinho, sette più dell’Inter di Inzaghi. Solo il Milan di Pioli, che poi avrebbe vinto lo scudetto, resisteva a -2. Una cavalcata che si interruppe solo nel Meazza nerazzurro e che cominciò a sfilacciarsi con le due sconfitte interne per mano di Empoli e Spezia. Alla fine il terzo posto, con conseguente qualificazione Champions, fu centrato. Obiettivo fondamentale, che risultò tuttavia prodromico al capolavoro della stagione successiva. La partenza appena un po’ frenata da Fiorentina e Lecce non impedì alla corazzata di Spalletti di creare la voragine di 8 punti sul Milan già a novembre, grazie a 13 vittorie su 15 partite. E dopo il solito stop imposto dall’Inter a San Siro, la volata trionfale riprese con altre otto vittorie consecutive e la successiva saggia gestione del vantaggio accumulato . L’aritmetica certificò lo scudetto, atteso senza ansie, a Udine, con ancora 5 giornate da giocare. Fu una marcia inarrestabile, un arcipelago di applausi raccolti ad ogni latitudine: dalla Milano rossonera ad entrambe le sponde del Tevere, da Bergamo a Torino. Senza dimenticare quel fiore all’occhiello, il 5-1 rifilato alla Juventus al Maradona, climax emotivo confezionato dalla classe di Osimhen e Kvaratskhelia e dalla incrollabile consapevolezza di una squadra ormai più compatta di una falange macedone. La festa durò ininterrottamente dal 4 maggio al 4 giugno, per nulla diluita dall’assenza di rivali e dall’arco temporale così divaricato tra l’atto di proclamazione e la fine del torneo. Una felicità esibita senza filtri grazie a quella squadra sfacciata. Una felicità vissuta 33 anni dopo l’ultima. La felicità, insomma, è un istante, ma quell’istante è eterno. Certo, ma cos’è la felicità per Spalletti? A Udine, quel 4 maggio, gli fu chiesto se quel traguardo la incarnasse. Ma la risposta fu più articolata e complessa di quanto si potesse sospettare. Certo, la evocò quasi in termini evangelici definendola come onda di ritorno rispetto a ciò che si dona: si è felici solo quando ci si rende conto di aver regalato felicità agli altri, nello specifico a un’intera città. Ma poi aggiunse: “Non lo so… quando arrivo sul pianerottolo di casa da una parte c’è scritto felicità e dall’altra parte infelicità. E io non so mai che porta prendere”. Vero, per quanto fosse il momento del trionfo, certi dissapori con il presidente erano già emersi e qualche goccia di amarezza già opacizzava la trasparenza della gioia. Ma certe parole più che figlie del contingente sembrano espressione di una visione del mondo, di una mentalità. Del resto basta guardarlo nel momento in cui la sua squadra segna: difficilissimo coglierlo in un’esultanza liberatoria, più facile vederlo immobile, con lo sguardo fisso, quasi a guardare oltre l’attimo. Nessun baccanale orgiastico, ma la necessità di proiettarsi al ‘dopo’: come difendere quel gol, come aggiustare le sbavature che rischiano di consegnare tutto alla dimensione dell’effimero. E allora sì, tutto sommato si può tornare dove un giorno si è stati felici. Non per azionare la macchina del tempo o per cercare ciò che fatalmente non è più. Ma per riabbracciare quell’attimo eterno e per estrarne quella stilla di virtù che è la felicità stoica. Seneca diceva che lei, la felicità, non risiede né nel piacere, né nel possesso. Ma, appunto, nella virtù. Che è cosa difficile da perseguire, esattamente come la felicità: “Quella vera non dipende dalle condizioni esterne, ma dallo stato dell’anima”. Forse è per questo che si nasconde nelle piccole cose, nella capacità di cogliere il trascendente nei gesti più banali e quotidiani. Un po’ come le galline del Cioni, quelle che hanno bisogno di mezzo chilo di granturco al giorno e alle quali bisogna dare sempre da mangiare. E allora ecco che il tour dell’anima che ha già toccato la città del Papa, quella degli Zar, quella della Moda e quella di Maradona si arricchisce di una nuova tappa: Torino, la città dei Savoia che fecero l’Italia, impresa che a lui da Ct purtroppo non è riuscita. Un giorno disse che “Esiste un sud che non tiferà mai Juventus” e mentre varcherà la soglia del ‘Maradona’ se ne ricorderà. Disse anche “Quando uno ha vissuto lì delle partite da allenatore del Napoli è difficile tornarci da avversario”. Espressioni totalizzanti che dal giorno del suo sì alla Juventus molti gli rinfacciano. Ma che oggi non suonano affatto come un tradimento. Se la felicità è la consapevolezza di averla donata agli altri, allora non può essere tradita perché il passato resta intatto ed eterno. Ma, come ricordò Spalletti a Udine, “Chi lavora seriamente dalla mattina alla sera non ha veramente tempo per essere felice. La tenda del sipario si chiude subito e bisogna andare a cercare un’altra scena che dia felicità”. E allora il fine del Nostos non è mai la felicità, ma la necessità di dare senso al tempo vissuto. Per dirla con Sant’Agostino, non misuriamo il tempo perché lo possediamo fuori di noi, ma perché lo custodiamo in noi.

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Spalletti a Napoli da juventino: come si torna dove si è stati felici

Alessandro Biolchi