Mancini a GQ, dalle "cretinate" da giocatore al futuro azzurro. "Sogno il Mondiale, ma servono nuovi leader"
CalcioUn bel viaggio nel passato, pensando, seriamente, al futuro. E' quello che fa il Ct azzurro parlando a GQ, in edicola dal 12 giugno. "Voglio portare gli Azzurri in Qatar con Balotelli e Chiesa, anche per riscattare i tre Mondiali che ho buttato via da giocatore"
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New York, 1984. Un diciannovenne Roberto Mancini ha appena concluso una minitournée azzurra di due partite, il rientro è previsto per il pomeriggio del giorno dopo. I “grandi” della squadra, i campioni del mondo di due anni prima, gli propongono un giro nella Manhattan “by night”. Per i più giovani ci sarebbe il divieto, ma Enzo Bearzot si è già ritirato, e la tentazione è irresistibile. Mancini fa le cinque di mattina con Tardelli allo Studio 54. Quando rientra in hotel, ormai alle sei, trova il ct ad aspettarlo in sala colazione. "Subisco in silenzio il peggior cazziatone della mia vita. Me ne dice di tutti i colori, che non ha dormito per la preoccupazione, che mi sono comportato come un somaro, che non mi chiamerà mai più in Nazionale, nemmeno se segnerò 40 gol a campionato".
Oggi che nei panni che furono del grande Bearzot c’è lui, è Roberto Mancini a raccontare l’aneddoto a Paolo Condò, nell’intervista di copertina del numero di luglio-agosto di GQ, in edicola dal 12 giugno. Epilogo compreso: "Anni dopo, quando s’era ormai ritirato, incontrai Bearzot. Non feci in tempo a chiedergli nulla, fu lui ad assalirmi. “Perché non mi hai chiamato per scusarti?”. Rimasi di sale. Non l’avevo fatto perché mi vergognavo troppo del mio comportamento, ed ero certo che lui fosse ancora furioso con me. Bearzot si mise le mani nei pochi capelli che gli restavano. “Io aspettavo soltanto la tua telefonata per richiamarti in Nazionale. Ma senza le scuse non potevo fare niente, e così ti sei perso il Mondiale del 1986”. Volevo morire".
Fu sempre l’orgoglio, spiega nell’intervista a GQ, a costargli il Mondiale del 1990. "In un ambiente come quello della Nazionale occorre parlarsi molto, perché le rabbie e le amarezze latenti ci sono sempre. Io non sono riuscito a emergere in azzurro, e sì che il talento non mi mancava, perché non ho mai avuto l’opportunità di giocare le cinque partite di fila che mi servivano per “entrare” nel motore della squadra. Una gara modesta, e Vicini la volta dopo mi lasciava in panchina. Io mi arrabbiavo, e sbagliavo, perché in Nazionale devi alzare il tuo livello di gioco. I compagni sono tutti forti, ragazzi selezionati, visti e rivisti, sicuri. Non puoi pretendere strada libera per sei mesi − cinque partite implicano più o meno questo tempo − a prescindere da quanto mostri in campo. All’epoca lo sognavo, ed ero un ingenuo".
Persino più amaro – anche perché era la sua ultima occasione al Mondiale – il ricordo del 1994. Arrigo Sacchi era stato chiaro con lui: "Per me tu sei la riserva di Baggio". Mancini, masticando amaro, aveva detto sì. Ma in un’amichevole primaverile di preparazione con la Germania, con Baggio appunto assente, Sacchi gli lasciò giocare solo il primo tempo e poi, vista la giornata così così, lo rimise in panchina. Facendolo sentire tradito. All’arrivo notturno a Malpensa, lo sfogo: "Mister, lei non è stato ai patti. Non mi chiami più, ho chiuso con la Nazionale". Reazione che il nuovo ct della Nazionale oggi descrive come "una cretinata enorme. Tra l’altro in quel Mondiale, tra gli infortuni, le squalifiche e il grande caldo, avrei sicuramente giocato moltissimo. Bearzot non mi chiamò nel 1986 perché non chiesi scusa, Sacchi mi lasciò fuori nel 1994 perché non tornai sulla decisione di autoescludermi, nel 1990 Vicini mi convocò ma senza mai schierarmi. Risultato: non ho giocato un minuto di un Mondiale, e la trovo un’assurdità anche se in buona parte la colpa è mia. Ora penso a qualificarmi per l’Europeo e poi a disputarlo alla grande, io gioco sempre per vincere. Ma confesso che l’idea del Mondiale, visti i precedenti, già mi frulla in testa".
Tra i giocatori su cui pensa di costruire la riscossa c’è Federico Chiesa, figlio di quell’Enrico che all’epoca, facendo alzare il sopracciglio a colleghi come Vialli e Montella, definì il migliore dei suoi partner: "Ogni tanto mi fermo a osservarlo, perché con lui viaggio nel tempo. Federico è identico a Enrico, le stesse finte, la stessa accelerazione, un tiro molto simile. Quest’anno ha segnato poco in relazione alle potenzialità, ma è il classico talento che può esplodere in qualsiasi momento anche dal punto di vista realizzativo. Io me lo aspetto".
E poi c’è, ovviamente, il tanto discusso Mario Balotelli. "Provo affetto per lui, è ovvio, ma il suo ritorno in azzurro ha motivazioni esclusivamente calcistiche", spiega Roberto Mancini a GQ. "Mario ha soltanto 28 anni, e quindi fa ancora in tempo a prendersi tutte le soddisfazioni che desidera perché al suo background fisico e tecnico ha aggiunto l’esperienza. Insomma, è cresciuto in tutti i sensi. Considerato che la Nazionale è destinata a perdere − subito o nel giro di un paio d’anni − lo zoccolo duro che ci ha tenuto a galla fino al flop con la Svezia, ho bisogno di nuovi leader. Mario ha l’età e la credibilità tecnica per farlo, e per fortuna non è l’unico".