I calciatori inglesi stanno scoprendo di poter giocare anche all'estero

Una dozzina d’anni fa arrivò dal ritiro estivo della Roma una foto in cui ventisette calciatori stavano in posa tutti insieme - in piedi, seduti o sul prato - in quel modo allegro e disordinato con cui cominciano le stagioni. Un ventottesimo uomo spuntava dal margine sinistro, a mezzo metro di distanza dai compagni. Aveva le braccia dietro la schiena e il linguaggio del corpo parlava al posto suo: che diavolo ci faccio qui. Ashley Cole era arrivato da Rudi Garcia con la reputazione di miglior terzino inglese della sua epoca, 106 presenze in Nazionale, tre Premier vinte e una Champions. Ma più che uno del branco, pareva un imbucato, uno di quei burloni estranei che si infilano nei gruppi per guastare un clic. È stata per molto tempo l’immagine simbolica di un disagio più ampio, un imbarazzo condiviso e presente in molte generazioni di giocatori inglesi, convinti che la fine del mondo del calcio coincidesse con i bordi del loro campionato. Il Guardian in quei giorni faceva i complimenti a Cole perché non aveva scelto un finale di carriera comodo, una specie di vacanza prolungata o un pre-pensionamento in qualche torneo marginale, ma aveva imboccato la via di uno degli altri quattro maggiori tornei d’Europa. Era un’eccezione. Quella foto torna in mente ora che il panorama è assai mutato. Ci sono dieci inglesi in Francia, sette in Spagna, sei in Germania, da noi sono nove in Serie A e uno in Serie B. Sono undici in più di un anno fa e raggiungono il totale di 51 se aggiungiamo i campionati in Portogallo , in Turchia , in Olanda e in Belgio . Non era mai accaduto che fossero così tanti a fare le valigie e partire, lasciando casa, la Premier League, le abitudini e le comodità. Le stelle, sì, le stelle sono sempre uscite. Da Laurie Cunningham a Gary Lineker, da Michael Owen a Steve McManaman, da David Beckham a Gareth Bale, ma avevano tutti il medesimo destino: o li trovavi al Real Madrid o al Barcellona. Eppure, finanche dalle loro parabole d’élite sono emersi i segni della tradizionale riluttanza inglese a lasciare l’isola. Owen ha raccontato di aver fatto molta fatica a capire Madrid e di essersi sentito in difficoltà verso la moglie e la figlia per tutto il tempo in cui erano costrette a stare in hotel mentre lui era al campo. Così se i compagni la sera uscivano, lui preferiva rinunciare. Raccontano che in preda alla nostalgia certe volte si mettesse in macchina e raggiungesse l’aeroporto per guardare i voli in partenza verso l’Inghilterra, ma forse è solo una leggenda. Cercava a Barajas un’edicola dove trovare i quotidiani del suo paese: e comunque è un segno pure questo. Fino al giorno in cui scoprì che ce n’era una a 50 metri dall’hotel. Cecil Rhodes è stato un politico colonialista. Ha detto cose terribili sull’imperialismo, sulle donne, sulla libertà dei popoli, ma quando le pagine sportive dei giornali inglesi hanno dovuto spiegare i motivi della scarsa presenza di calciatori all’estero, sempre hanno fatto ricorso a una delle sue frasi più celebri: “Ricorda che sei un inglese: hai vinto il primo premio alla lotteria della vita". È stato questo l’atteggiamento che per molto tempo ha spinto a non cercare niente altrove. Sono pochissimi i teenager inglesi che trovano utile studiare una lingua straniera, se tutto il mondo impara la loro. Chi lasciava il paese per tentare un’avventura all’estero - tolti i fuoriclasse da Pallone d’oro - erano sostanzialmente dei bad boy o figure sopra le righe, perché pittoresco pareva emigrare per dare dei calci a un pallone. I trentatré inglesi sparsi oggi fra Italia, Francia, Germania e Spagna sono invece la conseguenza di una mutazione di mentalità e di un cambio di passo culturale, paradossalmente arrivato con la Brexit. Un sondaggio di due anni fa ha misurato nell’86 percento la quantità di sudditi fra i 18 e i 25 anni che vorrebbe tornare in Europa. Se fai un lavoro che te lo consente, allora nel resto d’Europa ci vai. Soprattutto se gli spazi dentro casa tua si sono ristretti. La percentuale di presenze straniere in Premier League supera quella della Serie A. Una fascia di calciatori dal valore medio-alto è stata costretta a sedere in panchina. Sono stati i più giovani a mettere in moto il cambiamento. Quando hanno scoperto che gli spazi erano ristretti, hanno aperto le vele e sono andati al largo. Jadon Sancho e Jude Bellingham avevano 17 anni quando lasciarono il Manchester City e il Birmingham per raggiungere il Borussia Dortmund. La Bundesliga ha innescato la rivoluzione. I successi di Sancho e Bellingham sono stati un invito a rischiare. Sono diventati un modello da seguire. Il campionato tedesco è stato considerato dagli agenti il ponte perfetto tra le accademie inglesi e un ruolo da protagonista nel calcio internazionale. Dopo lo strappo di Sancho, Reece Oxford ha trovato il coraggio peer passare al Borussia Mönchengladbach, sei mesi dopo Ademola Lookman lasciò l'Everton per il Lipsia, Jonjoe Kenny si trasferì allo Schalke e tutti i direttori sportivi in giro per l’Europa hanno preso a considerare possibile l’ipotesi di portar via un calciatore inglese al suo habitat. Non per forza delle primedonne. Prima sono stati i ventenni da scoprire , poi i ventiseienni da rilanciare , ora arrivano anche gli ultra-trentenni dalle motivazioni intatte . La nazionale inglese ai Mondiali del 2018 era l'unica senza neppure un giocatore in un campionato straniero. Alle ultime convocazioni di Tuchel erano sei su 25. Anziché accettare un prestito in una squadra di seconda fascia, un contratto nel resto d’Europa è diventato una prospettiva meno assurda di prima. Le storie di successo hanno creato un effetto domino. Il vecchio ostacolo della lingua resta presente, ma il Times ha scritto che la nuova generazione è più aperta, “molti di loro sono abbastanza maturi da adattarsi ai viaggi, a uno stile diverso di calcio e di vita”. Parti che ti spaventa il traffico italiano e finisci come McTominay a parlare in napoletano.

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I calciatori inglesi stanno scoprendo di poter giocare anche all'estero

Angelo Carotenuto