Quei pazzi 'Christmas party' in Inghilterra

“Ha abolito il Natale”. Ogni anno la solita, ritrita battuta, buttata lì come se fosse originalissima. Capita, in Inghilterra, appunto ogni dodici mesi, tra novembre e dicembre, quando un allenatore decide che il rendimento della squadra è insufficiente, bisogna stare concentrati e dare un segnale e dunque niente festa di Natale. Va da sé che si tratta quasi sempre di misure demagogiche, della versione calcistica del cosiddetto virtue signaling, cioè farsi vedere a tutti i costi animati da sentimenti costruttivi, ma è semplicemente un atto disperato, quasi sempre inutile e potenzialmente pericoloso per il morale del gruppo, anche se dal punto di vista culturale le rose, fluide e multinazionali, non sono più quelle di una volta e buona parte dei giocatori nemmeno sa cosa sia e soprattutto cosa significhi, la festa di Natale. Perché in Inghilterra quella del Christmas Party è una tradizione calcistica consolidata, è il frutto di un percorso pluridecennale condiviso e al tempo stesso ne è la causa, cementando spirito di gruppo ed esperienza di vita al di fuori del rettangolo di gioco. Una sorta di ‘team building’ sportivo, con la differenza, rispetto a quelli praticati dalle aziende, che a beneficiarne in genere sono proprio i destinatari dell’iniziativa e non i conti bancari delle agenzie che le organizzano. Quest’anno ad abolire il Natale è stato il Manchester United, ma la decisione non è stata presa da Ruben Amorim, subentrato a Erik ten Hag ai primi di novembre, bensì dal club stesso, con un provvedimento che ha riguardato il personale amministrativo e logistico: come segnale, anche qui, verso il mondo esterno. Difficile, con il taglio di quasi 250 dipendenti voluto per risparmiare sui costi, giustificare l’esborso di alcune decine di migliaia di sterline per una festa, anche se poi proprio il passaggio da un allenatore all’altro è costato centinaia di volte di più. Non proprio una festa normale Quello dei dipendenti del ramo non sportivo è del resto un classico ‘office party’ come se ne fanno ovunque, anche in Italia: magari un po’ più complesso e caotico, non un rinfresco alla fine dell’orario di lavoro di un giorno di dicembre né un pranzo con scambio di pacchettini presi in erboristeria e la benedizione paternalistica, a volte un po’ fantozziana - ma senza recita di poesiole - di dirigenti e manager, bensì qualcosa di più elaborato e specifico, tanto da essere oggetto, nei media, di analisi, consigli, progetti. Oltre che riflessioni: il Times, quest’anno, ha pubblicato una serie di ricordi anonimi di feste di Natale, consumate tra pub, hotel, privé di locali, caratterizzate da ubriacature, consumo di cocaina, tentativi di seduzione e altre circostanze tra il patetico e lo squallido, basti pensare che tempo fa la National Express, principale compagnia di bus per trasporti a lunga distanza, annullò il contratto con una celebre azienda dopo aver dovuto ripulire dal vomito TUTTI i veicoli che erano stati noleggiati per portare da e per varie località inglesi i dipendenti ospiti di una festa natalizia. Nel descrivere una di queste occasioni, una lettrice ha definito ‘classico’ l’abbinamento vestito nero+tacchi per le donne e abito scuro per gli uomini, ed è qui la grande differenza con quello che avviene nel calcio , dove la festa di Natale è caratterizzata dall’obbligo o consiglio di vestirsi in modo colorato e fantasioso, in una sorta di compensazione per l’assenza del carnevale come lo intendiamo noi, dovuta alla diversa maniera in cui viene vissuta la quaresima dalla chiesa anglicana. A Londra esiste, è vero, il famoso Notting Hill Carnival, celebrazione, nata negli anni Sessanta, della cultura caraibica, ma si svolge in agosto ed è caratterizzata ormai da una situazione di ordine pubblico sempre più grave, tanto che un recentissimo rapporto della Metropolitan Police Federation, associazione che rappresenta circa trentamila membri delle forze dell’ordine, l’ha definita “una zona di guerra in cui veniamo spediti ogni anno, agnelli mandati al macello”, in coerente tendenza con la crescente ingovernabilità della capitale, minimizzata da chi gira solo nelle aree turistiche e da chi indossa un robusto paio di paraocchi. Abolire il Natale, nel gergo calcistico, vuol dire dunque vietare alla squadra lo sfogo annuale di travestimenti e boutade, alla quale in genere partecipano di buon grado anche i calciatori stranieri fino a pochi mesi prima del tutto ignari di quel tipo di festeggiamento. Ecco perché è rituale anche la foto di questo o quell’altro vestiti in modo curioso, classico materiale da quotidiano, specialmente tabloid, in questo periodo dell’anno. E va da sé che con il passare del tempo, e la crescente disponibilità economica di club , la semplice festa nel locale cittadino è diventata spesso un’esperienza a raggio più ampio. Quest’anno per esempio i giocatori del Southampton sono andati due giorni a Dublino, a inizio dicembre, e la serata clou ha visto la sfilata di travestimenti ispirati alla lettera dell’alfabeto con cui ognuno di loro era stato estratto. Se Aaron Ramsdale si fosse visto assegnare la B, il suo costume avrebbe dovuto essere di un personaggio con quella iniziale, che fosse Batman o Bugs Bunny o cose simili. L’atmosfera, peraltro, è stata particolare: la squadra è partita subito dopo la sconfitta sul campo dell’Aston Villa, tra le meno nette della stagione però con un clima che già faceva presagire l’esonero di Russell Martin, il quale però non aveva posto obiezioni alla trasferta. Ancora più imbarazzante quanto avvenuto al Leicester City: non solo perché il Christmas Party è stato fissato per il 23 e il 24 novembre, ovvero ben 32 giorni prima del Natale stesso, quanto per il fatto che la partenza per Copenhagen è avvenuta poche ore dopo l’1-2 casalingo contro il Chelsea, quando quindi la dirigenza stava decidendo l’esonero dell’allenatore Steve Cooper. Come ha scritto The Athletic, è parso bizzarro il contrasto involontario tra le foto della festa in un locale notturno, con giocatori in travestimenti vari, e il destino di Cooper, situazione peggiorata dal fatto che in una si vede un cartello con la scritta ‘Enzo, ci manchi’, riferito a Maresca, allenatore del Leicester City nella scorsa stagione. Copenhagen, tra l’altro, è la sede del Christmas Party dal 2015, l’anno in cui allenatore era Claudio Ranieri e arrivò poi la vittoria del campionato. Rispetto a qualche anno fa prevalgono una maggiore professionalità e una morigeratezza un pochino più accentuata, ovviamente: gli enormi progressi fatti sul piano nutrizionale e dietetico impediscono il replicarsi di alcuni eccessi del passato, eccessi che potevano anche essere comportamentali. È celebre l’episodio del dicembre 2004 in cui Joey Barton, personaggio notoriamente turbolento, spense un sigaro sulla palpebra di un giovane compagno di squadra, Jamie Tandy. Barton giocava nel Manchester City, squadra in cui era finalmente riuscito a lanciare una carriera dopo essere stato scartato dai due club della natia Liverpool e dal Nottingham Forest, e quel giorno, alla festa al nightclub Lucid, era parte di un gruppo di giocatori che avevano cominciato, per scherzo, a… darsi reciprocamente fuoco, o meglio ad appiccarli ai lembi dei costumi carnevaleschi. Il personale del locale era intervenuto sequestrando accendini e fiammiferi, ma nel frattempo Barton era riuscito a compiere il misfatto ai danni di Tandy. Che, non potendosi vendicare subito, lo aveva fatto qualche ora dopo, accendendo il bordo della maglietta che il compagno di squadra indossava. Infastidito, perché quella… vendetta era avvenuta al di fuori del contesto iniziale, Barton aveva reagito cercando di spegnere il sigaro sulla nuca del collega, che però si era girato di scatto e se l’era preso sulla palpebra, riportando una bruciatura che aveva richiesto un paio di visite in ospedale. Erano poi seguite almeno due risse tra giocatori, situazione che aveva fatto precipitare il City in un profondo disagio, risolto solo in parte con una pesante multa per Barton. Ma, senza che si scadesse nella violenza, altre feste del passato fecero epoca, con situazioni oggi forse impensabili ma ai tempi viste come simpatiche, cialtronesche trasgressioni. Al Liverpool, ad esempio, quando una sera il difensore David Burrows si vestì da… Hitler, surclassato però da un episodio clamoroso: al veder arrivare un tizio con tunica e cappuccio bianchi, classici del Ku Klux Klan, la celebre organizzazione razzista nata negli Stati Uniti, il centrocampista Steve McMahon, che gestiva gli ingressi nel locale, gli disse “Guarda, vestito così non puoi entrare, qui dentro c’è John Barnes”, l’attaccante di origini caraibiche. “No, Barnes non è là dentro, ma qui dentro” rispose l’incappucciato, che poi si tolse il copricapo svelando di essere Barnes stesso, nel suo spirito più dissacratore e anticonformista. Nel 1998, invece, alla festa del Newcastle, si pensò bene di distribuire regali a tema, imbarazzante: Duncan Ferguson, che aveva dovuto trascorrere tre mesi in prigione per una testata a un avversario, si vide consegnare una casacca da carcerato, l’attaccante georgiano Temuri Ketsbaia un pettine, del tutto inutile visto che non aveva un solo capello, mentre il centrocampista tedesco Dietmar Hamann vide che il suo pacchetto conteneva il ‘Mein Kampf’, il libro scritto da Adolf Hitler. Di pessimo gusto anche il regalo fatto ad Alessandro Pistone, il difensore italiano: un cuore di pecora, un messaggio non troppo sottile per dirgli che lui, di suo, un cuore – che nella simbologia inglese è quel che da noi sarebbe il fegato – non ce l’aveva. Episodi impensabili ai giorni nostri, in cui la morigeratezza comportamentale si accoppia anche al fatto che per via dell’onnipresenza dei cellulari qualsiasi atto estremo o imbarazzante sarebbe di immediato dominio pubblico, e fu del resto anche il pericolo di un tracollo di immagine a far sì che Alex Ferguson abolisse le feste di Natale – o, secondo il cliché, il Natale stesso – già nel 2007. Direttamente legata alla consuetudine dei travestimenti, anche se non specificamente al calcio, c’è la tradizione anglosassone delle ‘panto’, abbreviazione di pantomime, ovvero le recite natalizie. Commedie in parte musicali, con una base che ricorda le commedie dell’arte italiane, e che riprendono celebri favole o storie popolari quasi sempre prive di riferimenti al Natale e a volte adattate ai tempi, con battute, esagerazioni, trucco pesante, travestimenti – di norma, uomini interpretano parti femminili e viceversa – e tutto quello che permette di passare un’oretta a cuor leggero, compresa la partecipazione del pubblico nell’esecuzione di alcuni brani. Nel 1933 vennero venduti quasi 300.000 biglietti per la rappresentazione di ‘Queen of Hearts’ al teatro Lyceum di Londra, mentre poco dopo la guerra, nel 1948, vennero messi in scena 200 diversi titoli di ‘panto’ in giro per il Regno Unito. Capita che a interpretare una delle parti principali vengano chiamati attori e attrici famose o comunque personaggi popolari, che in quel caso però sia adattano alle circostanze e allo spirito dell’occasione, tanto più apprezzati quanto più smettono di essere superstar e tornano candidi e ingenui. Ci sono anche attori specializzati in ‘panto’: pochi giorni fa è sceso per l’ultima volta dal palcoscenico un signore chiamato Harvey Kay, che ci era salito per la prima volta all’età di otto anni, nel… 1932, e che ha chiuso la carriera nella sua Sheffield con una parte in ‘Cenerentola’, uno dei classici del genere. Perché in Inghilterra il calcio a Natale è storia Ecco il Natale della gente inglese, il Natale del calcio. Che, nel Regno Unito, vuol dire Natale in campo, e se non è più il 25 dicembre è, da sempre, almeno il 26. Non deve sorprendere questo atteggiamento britannico verso lo svolgimento di eventi, comprese partite di calcio, nel periodo natalizio: una parte della spiegazione va addirittura a oltre un secolo fa, quando per le classi meno abbienti, spesso costrette a vivere in condizioni di disagio e sovraffollamento in case di misere dimensioni, festeggiare non voleva certo dire restarci, in quelle case, ma uscirne e starne lontani il più possibile, e lo stadio era uno dei luoghi in cui più volentieri si poteva andare a passare il tempo. E allora vai con il doppio programma di partite, il 25 e il 26, e anche quando, dal 1965, si smise di giocare il giorno di Natale, il programma restò fitto: nel 1977-78, ad esempio, periodo in cui non c’erano anticipi o posticipi tv e dunque le partite erano tutte in contemporanea, si giocò il 26, il 27 e il 31 dicembre e il 2 gennaio, ed è stranoto come nel 1963 ci furono 66 gol in 10 partite nel Boxing Day, ovvero il 26, con risultati in alcuni casi ribaltati, e non di poco, nelle partite, quasi tutte di ‘ritorno’, giocate 24 ore dopo. Va a proposito ricordato che solo dal 1871 - casualmente, giusto in tempo per lo sviluppo pieno del calcio - San Silvestro, cioè il 26 dicembre, fu ufficialmente proclamato giorno di festa in Inghilterra e Galles. Ma ci furono casi ancora più bizzarri, e il fatto che siano sfuggiti al copia-incolla sul tormentone del 26 dicembre 1963 non li rende meno affascinanti: nel 1940, quindi durante la Seconda Guerra Mondiale, a campionati modificati, non ufficiali e soggetti a costanti variazioni, Natale vide la disputa di 40 partite delle varie serie, con ben 210 gol ovvero, 5,25 a gara, e alcune squadre per non sprecare risorse giocarono addirittura due volte nel giro di poche ore. Il Leicester City ad esempio perse 5-2 nella non lontana Northampton a metà mattinata, poi tornò a casa a a metà pomeriggio vinse 7-2 contro la stessa avversaria. Ma già molti anni prima, nel 1888, in situazione non bellica, l’Everton aveva giocato due partite a Natale e una il 26: coppa del Lancashire contro il Blackburn Park Road la mattina del 25, amichevole annuale contro l’Ulster FC al pomeriggio , sfida locale contro il Bootle il giorno dopo, sotto un tormento di pioggia e grandine. Finita la guerra, con il calcio a costituire uno dei pochi momenti di sollievo da un conflitto che, pur vinto, aveva disintegrato economia e stile di vita, le partite di Natale del 1949 ebbero oltre tre milioni di spettatori, in un clima di assoluta festa, tra canzoni natalizie e bevutine da fiaschetti di liquore, con la curiosa aggiunta, scrive una fonte dell’epoca, della tradizione di lanciare ai giocatori avversari bucce d’arancia: genere alimentare quasi sparito dai negozi durante la guerra, le arance erano diventate un prezioso regalo di Natale in tempo di pace e chi le riceveva conservava appunto le bucce per farne omaggio non richiesto ai giocatori avversari. C’erano stati ostacoli di carattere religioso, questo sì: come condizione per la concessione da parte della chiesa locale del terreno per la costruzione di Highbury, l’Arsenal non poté giocare a Natale fino al 1925, quando il lotto fu acquistato e si procedette immediatamente ad un Arsenal-Notts County, e alcuni giocatori si erano rifiutati di scendere in campo il 25, in ossequio alla propria fede. Il 1957 fu l’ultimo anno con un programma completo di partite natalizie, l’anno dopo se ne giocarono solo tre di First Division e solo una nel 1959. Non era questione di sensibilità ma – come capita quasi sempre – di pratica: passata l’esuberanza post-bellica con i record di pubblico, migliorate le condizioni di vita e persino il decoro e la vivibilità media delle abitazioni anche dei meno abbienti, Natale era vissuto più come festa da vivere in famiglia che occasione per sfuggire ad ambienti soffocanti e tristi, e in più l’avvento delle luci negli stadi aveva permesso di distribuire il calendario anche su base infrasettimanale, evitando così la concentrazione di gare nel periodo festivo, soggetto oltretutto a condizioni del tempo spesso pesanti, anche se solo in rari casi si sospendevano partite. In più, se un tempo i trasporti pubblici funzionavano a pieno regime durante le feste, ora a Natale è quasi tutto fermo, e di conseguenza non avrebbe senso costringere i tifosi a spostamenti che sarebbero da effettuare unicamente con pullman a noleggio e auto private. Ci sarebbe un’altra cosa, legata al Natale calcistico inglese, ovvero la storia del portiere Sam Bartram, rimasto in porta a partita ormai sospesa per nebbia perché nessuno l’aveva avvertito. Ma in questi anni è stata raccontata spesso, con una sensazionale sequenza di copia-incolla, per cui la conoscerete già, e per questo ve la risparmiamo. Buon Natale...

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Roberto Gotta