L'elegantissimo gol di Luis Alberto, il cambio di gioco col laser di Calhanoglu e altre delizie trovate nella calza della befana
La rinascita di Luis Alberto in questa stagione è una delle storie più belle del campionato, se non la più bella in assoluto. Ancora più bella se la si mette nel contesto di una Serie A che, priva del potere economico necessario per attirare i talenti più vistosi e chiassosi, deve per forza di cose elaborare un gusto più raffinato, cercando il talento là dove lo sguardo dei grandi predatori del calcio europeo non arriva. Con Luis Alberto nessuno ha avuto pazienza, tranne la Lazio. Tranne Simone Inzaghi che, col fiuto di un cane da tartufo, ha intuito che dopo una stagione con il contagocce fosse finalmente pronto. In questo gol c’è tutto il talento tecnico di Luis Alberto, quella sensibilità distribuita su tutta la superficie del piede che gli permette di manipolare il pallone con l’interno (con cui controlla il campanile che atterra giusto fuori dall’area e poi conclude in porta), l’esterno (con cui porta la palla dentro l’area del rigore, finché il portiere non è uscito) e la suola (con cui salta i due difensori che cadono nella finta del tiro sul secondo palo) con la stessa precisione.
A differenza di Felipe Anderson (di cui ha preso il posto quando serviva, ma adesso che il brasiliano sta tornando in forma non è escluso che li vedremo giocare insieme più spesso), Luis Alberto non fa leva sull’esplosività fisica per sfruttare i propri vantaggi tecnici, anche quando va veloce o copre parecchi metri in conduzione tiene la palla a distanza ravvicinata. Anche se non ha il primo controllo “al velcro” delle icone del calcio spagnolo (tipo Iniesta), Luis Alberto è uno di quei giocatori con un rapporto così speciale con il pallone che sembra restargli vicino dopo ogni tocco come se, il pallone, fosse dotato di volontà, come fosse provasse affetto per certi calciatori più che per altro. La palla tra i piedi di Luis Alberto sembra più docile.
Ma non possiamo non accennare almeno, sempre nella partita con la Spal, all’assist per il terzo gol di Sergej Milinkovic-Savic. Un altro giocatore con un controllo sulla palla fuori dal comune, e non solo in rapporto alla stazza. Per lanciare Immobile in profondità ha giocato un filtrante di collo precisissimo, paragonabile a quel colpo che nel golf si chiama Pitch, con cui si avvicina la palla alla buca facendola volare e poi fermare sul green. SMS colpisce la palla dandole un effetto all’indietro che la fa frenare e virare leggermente verso il centro una volta toccato terra, così che Immobile se la ritrova perfettamente davanti al portiere in uscita.
Nessun elogio alla Lazio 2017-18 rischia di essere di troppo, per una squadra che pur non essendo rimasta (per ora) a qualche punto di distanza dal lotta Scudetto quest’anno sta esprimendo un gioco brillante, efficace ed esteticamente appagante; all’altezza delle squadre che la precedono, o l’hanno preceduta in classifica, e di cui magari si è parlato di più.
Dietro al successo della Lazio ci sono più cose. Anzitutto la capacità di chi ha trovato ed è riuscito ad arrivare per primo, o al momento giusto, su talenti assolutamente unici come Luis Alberto, Milinkovic-Savic, Felipe Anderson, De Vrij (per parlare solo di questa stagione). Poi il lavoro quotidiano che permette anche a molti altri giocatori di vivere, in questa Lazio, uno dei momenti migliori della propria carriera (Immobile, Luca Leiva, Lulic, Strakosha, Jordan Lukaku), quel lavoro che resta sempre fuori dalle inquadrature ma che permette di livellare verso l’alto le differenze all’interno di una rosa in cui la qualità è distribuita in maniera eterogenea.
Infine le idee di Simone Inzaghi che fanno della Lazio una delle squadre più moderne della Serie A, con un utilizzo degli half spaces e della profondità che diventa spesso indifendibile per le sue avversarie.
La partita contro la Sampdoria è probabilmente una delle migliori prestazioni della carriera di Massimo Coda, ed è complicato scindere i destini del Benevento dell’ultima settimana da quella del suo centravanti, che si è trasformato nella perfetta sinestesia della rinascita dei sanniti: sei dei sette punti in classifica dei campani sono arrivati a cavallo di due giornate, in uno storico back-to-back, con due vittorie nelle quali il ruolo del numero 11 è stato più che preponderante, quasi assolutista, con tre reti e un assist.
A metà del secondo tempo il Benevento è ancora in svantaggio, ma sta cominciando a macinare gioco da qualche minuto: Massimo Coda, fin lì, in linea con la narrativa che mescola sfortuna e sgangheratezza, ha già collezionato un palo, una traversa e un errore sottoporta abbastanza ordinario.
Nicholas Viola recupera l’ennesimo pallone arpionandolo dai piedi di Linetty. È importante soffermarci per un secondo su questa giocata, che innescherà quella ancor più bella di Coda, perché Viola in tutto ha vinto per 8 volte il possesso palla contro la Samp. Pochi minuti prima (come si vede nel replay che anticipa di pochi istanti l’azione del pareggio), in un duello inscritto nel cerchio di centrocampo come fosse marcato con il fuoco, aveva stoicamente difeso un pallone attivando l’arpione sinistro, in tackle, per due volte consecutive, estrema forma di ribellione e rivalsa contro tocchi un po’ approssimativi.
Il lancio di Viola pesca Coda leggermente defilato sulla destra. I difensori della Samp non sembrano troppo preoccupati, a parte Ferrari che cerca affannosamente di recuperare, dando l’impressione di essere l’unico a presagire la pericolosità del contesto. Coda ha un buon primo controllo, con il destro; gli riesce così bene l’addomesticamento della palla che deve sembrargli naturale disegnare con la gamba sinistra a compasso un doppio passo e aggiustarsi la sfera sul sinistro con un tocco del tacco. Il tiro a giro è solo la conclusione inevitabile di una giocata stilisticamente perfetta.
Poco dopo Coda segnerà anche il gol del vantaggio con un bel calcio di punizione e servirà a Brignola l’assist del momentaneo 3-1. In tutto, a fine partita, avrà tirato 8 volte: nelle ultime due partite ogni 3 tiri contro la porta avversaria sono finiti in gol, e mi sembra un manifesto eloquente non solo di quanto Coda sia on fire, ma anche di quanto certe volte, a gennaio, per cominciare l’assurda sfida per salvarsi, sia sufficiente scavare nelle motivazioni di certi giocatori anziché inseguire placebo dai cognomi esotici.
Ogni minuto delle ultime apparizioni di João Cancelo ci è servito per cominciare a realizzare quanto sia elegante e distinto nell’interpretazione del ruolo di terzino, centrale nell’evoluzione moderna del calcio, che può essere svolto con una serie di sfumature e varianti di cui il portoghese rappresenta un interessante compendio.
Per quanto il suo stile di gioco si esalti nelle proiezioni offensive (tipo l’affondo con sombrero a Bonaventura nel derby di Coppa Italia, o la percussione tambureggiante con la Fiorentina, in tandem con João Mario, che ha portato alla punizione da cui è nato - peraltro grazie a un suo cross teso per la testa di Icardi - il gol del vantaggio nerazzurro) e per questo Spalletti gli ha fatto finire la partita su una lina più avanzata, Cancelo sta dimostrando anche margini di crescita difensivi. Contro i viola ha francobollato bene Thereau, costringendolo a rimanere piuttosto basso, con la sua arma preferita: difendere attaccando.
João Cancelo è terzino con la tecnica di un'ala, che usa bene il suo corpo mettendolo al servizio dei piedi, e questa azione ne è una cristallina dimostrazione. Prima compie un bel movimento a schermare la palla, attirando su di sé il pressing di Veretout e Benassi, liberando così la linea di passaggio per Gagliardini che però sbaglia la verticalizzazione. Pochi istanti più tardi ancora Cancelo recupera la palla con un intercetto su Veretout e riparte, dialogando con Borja Valero. Il tocco di suola con cui rientra verso l’interno evitando l’intervento in tackle dalle spalle di Benassi ha una leggiadria speciale. Anche se è la meno appariscente, è questa prima metà della giocata la più difficile da concepire: l’intuizione, lo sguardo dalla nuca. Il resto viene automatico: spostare il corpo, modificare la direzione della corsa e con un tocco d’esterno tagliare fuori ancora Veretout, creando la superiorità a centrocampo, è nella normale percezione della fluidità d’azione di un calciatore abile a saltare avversari come uno sciatore i paletti del SuperG.
Non c’è niente di male ad ammetterlo: di fronte ad azioni del genere, la reazione più istintiva è chiederci: «Ma come ha fatto l’attaccante a non inquadrare la parta della porta libera così da due passi?». Il fatto è che siamo più attratti e affascinati dalla fallibilità dell’attaccante che dalla “miracolosità” di un intervento del portiere, nonostante nella scala gerarchica degli eventi quello soprannaturale dovrebbe comunque avere la priorità. Infatti è una questione anche e soprattutto di percezione.
Per apprezzare appieno questo intervento di Perin bisogna riguardare e riguardare e riguardare l’azione, e i dettagli prendono forma uno ad uno fino a formare il quadro completo di ciò che è successo: il colpo di reni, la tempestività del riflesso con cui alza il braccio per deviare il tiro, tutti particolari che sfuggono all’immediatezza della prima osservazione. Le parate istintive non sono mai davvero fortuite: serve lucidità, il cosiddetto sangue freddo che è poi il risultato finale di un costante allenamento di riflessi e concentrazione; ma è anche preparazione atletica e fisica: bisogna imprimere una forza sovraumana nel polso per deviare tiri così ravvicinati; e soprattutto sono ore e ore di allenamento spese ad affinare i riflessi e far memorizzare al corpo quel movimento che poi, quando serve, dovrà compiere senza quasi che il pensiero gli mandi lo stimolo.
Questa parata di Mattia Perin va premiata non solo perché ha permesso al Genoa di tenere a galla una partita poi decisa da un gol di Galabinov, importantissima per agganciare il Sassuolo in classifica, ma anche perché si inscrive in un percorso personale nelle ultime giornate del portiere genoano - autore di una parata altrettanto spettacolare e concreta a Torino su Berenguer - che ribadisce, casomai ce ne fosse bisogno, quanto sia anche e soprattutto lui, che ha saputo mantenere una costanza di rendimento nonostante la sfortuna e le avversità, un’opzione concreta per il futuro dei pali della Nazionale.
Sapevamo che il gioco lungo di Calhanoglu sarebbe stata una delle armi a disposizione del Milan, ma prima l’infortunio di Conti, poi le difficoltà tattiche di Montella e quelle generali di squadra che ancora continuano, hanno privato il numero 10 turco della possibilità di mettersi in contatto, con continuità, con un giocatore dalla parte opposta del campo. Questo cambio di fascia su Suso, che si infila tra il centrale (Ceccherini) e il terzino (Martella) del Crotone senza perdere velocità, percorrendo trenta o quaranta metri di campo a mezzo metro da terra, è una specie di anticipo su quanto di buono Calhanoglu (come altri giocatori del Milan dal talento espresso solo parzialmente) può fare per questa squadra. Già dopo dieci minuti aveva servito una palla veloce in profondità per Suso, che però è abituato a frenare e tornare sul sinistro e forse non è il compagno ideale per questo tipo di giocate di Calhanoglu (in questo senso il rientro di Conti potrebbe davvero ridargli vita). Certo Calhanoglu al proprio meglio non servirà solo a questo, e se ancora gli errori dettati dalla fretta sono ancora troppi, contro il Crotone è sembrato a suo agio sia partecipando alla catena in fascia, offrendo l’appoggio a Bonaventura e Rodriguez oppure allargandosi in isolamento per andare al cross, sia venendo dentro al campo e girandosi sul destro. Gli manca ancora qualcosa, come a tutto il Milan, ma ci sono buone ragioni per guardare al futuro con moderato ottimismo.
Dura essere un numero 10 in un calcio in cui da un parte nessuno può più permettersi di vivere solo di gesti estemporanei e, anzi, ai trequartisti viene chiesto di fare l’esterno, la seconda punta, di portare il pressing con i tempi giusti e coprire determinate linee di passaggio; ma dall’altra a quel numero portato sulle spalle è associata un’idea romantica di calciatore fantasioso e tecnico che deve essere una spanna o due sopra tutti gli altri. Rodrigo De Paul finora aveva piuttosto vissuto le difficoltà del trequartista che si deve adattare a giocare in fascia, riuscendo sì a mostrare le doti a disposizione ma lasciando sempre qualche dubbio sul proprio valore assoluto. Nelle ultime settimane, da quando Oddo lo sta schierando in verticale alle spalle della prima punta, De Paul sta dimostrando una qualità molto alta praticamente in ogni giocata.
Le giocate sono frutto, prima che della giusta esecuzione tecnica, della capacità di compiere la scelta più esatta tra quelle possibili, assumendosi anche un rischio piuttosto alto. In questo caso in De Paul rischia di perdere il pallone al limite dell’area per tentare un sombrero che, se riuscito, gli avrebbe aperto la strada per il contropiede. Così è stato e De Paul ha potuto portare la palla fino al limite dell’area, scaricando poi su Jantko anche se con un passaggio troppo sui piedi che ha costretto Jantko a frenare e a coordinarsi macchinosamente per il tiro. Questo è l’unico difetto di De Paul in quella posizione, sempre contro il Chievo ha dato almeno altri due palloni troppo sul corpo a Lasagna, facendo sfumare il pericolo. Perché De Paul non è un 10 dalla tecnica assolutamente divina, uno di quelli con un controllo dolce e appiccicoso come il miele, o capaci di far passare la palla nella cruna di un ago; piuttosto è un 10 molto efficente e verticale, che ha bisogno di spazio per aggiungere a ogni tocco un metro di corsa e di opzioni di passaggio vicine per liberarsi della palla e muoversi nello spazio. Protegge bene la palla con il corpo ma De Paul gioca un calcio ritmato e verticale, nel cuscinetto tra centrocampo e difesa, venendo incontro e lasciando lo spazio agli inserimenti della mezzala (Jantko), sprecando pochissimi: di 19 passagi contro il Chievo, De Paul ne ha sbagliatoi solo 2, mandando al tiro un compagno 3 volte. Insomma, non il numero 10 che abbiamo in mente, ma il numero 10 di cui gli allenatori nel calcio moderno hanno bisogno.