Nascita dell'Atletico Fiorentina. Sembra una squadra basca, mossa da un'identità superiore

Serie A

Marco Bucciantini

Nella rosa di Pioli non ci sono campioni, ma la squadra sta mostrando e dimostrando il valore aggiunto del gruppo. Cresciuto dopo il lutto, dentro il lutto di Astori. La Fiorentina ha raccolto quell’uomo, e lo sta raccontando in campo

"Tutto, tra i mortali, ha il valore dell’irrecuperabile e del casuale. Tra gli immortali, invece, ogni atto (e ogni pensiero) è l’eco degli altri che nel passato lo precedettero o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine".
Jorge Luis Borges

La Fiorentina di queste settimane è preziosa come un addio senza una separazione. È una forza che combatte la precaria energia dello sport, tessuto di scontri e di valori alterni e mutevoli, di nuovi vincitori e nuovi sconfitti. Lo fa con energie umane, strette fra loro e legate (insieme) a qualcosa che ha a che fare con la vita, rivelata nella sua urgenza con la morte di Davide Astori.
L’origine può essere questa, è difficile indagare un momento così intimo, e possiamo solo vedere il campo dove la Fiorentina sta mostrando e dimostrando il valore aggiunto del gruppo. Cresciuto dopo il lutto, dentro il lutto. Perché succedesse, bisognava che la perdita riguardasse tutti: questo è il lascito umano di Davide Astori, che – evidentemente – è stato capace di seminare questi sentimenti condivisi nei suoi compagni e negli appassionati.

Il suo ricordo, il suo esempio, o forse solamente il suo esserci stato è adesso un punto di riferimento quasi “religioso”, vincere è come camminare verso la meta di un pellegrinaggio che un gruppo di uomini sta compiendo con fervore e crescente consapevolezza.
Un’identità sovradeterminata, tipica delle squadre allacciate a minoranze politiche e territoriali, simile a esempi baschi o catalani, per tentare paragoni suggestivi più che esatti: là, fattori esterni, storici, divenuti poi sociali, infine perfino tattici (nel caso del Barcellona: imporre un modo di stare al mondo, di vedere il mondo, passando dal campo) hanno “legato” uomini, in campo e fuori, creando un impeto revanscista. Per spostarsi un po’ restando nella patria di questi sentimenti, a Madrid la seconda squadra oggi incarna perfettamente questa specie di mistica, senza tuffarsi in motivi né storici né politici: semplicemente sociali e sportivi, essere destinati alla lotta per farsi posto nella città del magnifico, opulento, imbattibile Real. Una squadra che spesso risulta di forza misteriosa, come intuì un commentatore all’alba del cholismo: difendono bene, attaccano bene e non sono particolarmente brillanti in niente, se non nel dare tutto quello che hanno, e nel farlo insieme.

È nata quindi l’Atletico Fiorentina, innestata su una vicenda enorme (come può esserla una rivendicazione storica, negli esempi buttati lì, o un sentimento di riscatto eterno), una scomparsa che ha sovrastato qualsiasi discorso privato, una “luce accesa” – per ripetere le parole di Milan Badelj, che questa immagine usò nel discorso funebre – nitida come un traguardo ideale, una direzione magnetica verso la quale sciama un gruppo di calciatori, e con loro una città intera.
Una mistica per niente ascetica ma assai volenterosa, operosa che conquista punti e scala posizioni perché esalta l’altro aspetto di questo sport: le partite si vincono con i campioni e con le squadre. La Fiorentina non ha campioni, anche se alcuni giovanotti sono credibili nella loro ambizione di diventarlo.
Tutto questo radica a Firenze perché Pioli aveva preparato il terreno, dopo un avvio in evidente soggezione, con il senso di colpa di essere impreparati (i terzini titolari arrivarono a campionato avviato). Tutto pareva rimediato, non programmato: nell’attacco la consunzione di Théréau sembrò rinverdirsi in esperienza necessaria, perché intorno Chiesa e Simeone avevano voglia e numeri ma nemmeno 30 partite di Serie A nella testa e nelle gambe, Gil Dias e Esseryc erano invece proprio alieni a questo livello, Saponara avvitato sulle sue paure, Babacar nel suo acquario di pochi minuti e molti gol, inadatto all’oceanico campo di calcio, e alla complessità della partita. Altri di puro complemento (Lo Faso, Zekhnini). Eppure, dopo un paio di giornate sacrificate a questa inadeguatezza vera o presunta, la Fiorentina fu in fretta squadra, con una sua fisionomia, una riconoscibilità tattica, una preferenza per il recupero palla sotto la metà campo, e contropiedi organizzati bene (la mobilità e continuità fisica di Simeone e Chiesa aiutava lo “sfogo”) ma ri-finiti male, perché questi ragazzi difettano di visione di gioco, perché non c’era un trequartista capace di illuminare la parte finale della manovra, perché lo sbattersi di quei due li sfiancava fino a deprimerne la balistica. Il gioco che Pioli fece conoscere con la Lazio (le splendide corse esterne di Candreva e Anderson, l’uso di Klose come regista d’attacco e non solo realizzatore, la pienezza del lato debole del campo, in contrattacchi così squassanti da essere indifendibili: arrivò terzo, davanti al Napoli di Higuain, al Milan, all’Inter, alla Fiorentina di Montella) a Firenze veniva replicato per vie interne, con Veretout e Benassi più abili degli esterni negli inserimenti, e meno bisognosi della rifinitura di un “10” per arrivare al tiro con i tempi giusti.

La classifica subiva questa fatica nel trasformare la robustezza tattica in un’esibizione netta di bellezza, cioè di occasioni. Non riuscendo a sfoggiare, la squadra finiva per ridursi alla lotta, e subire la maggiore tecnica e fisicità delle grandi squadre, tutte (TUTTE) messe sotto tatticamente nei primi tempi, tutte poi maggiori allo scemare delle forze. Insomma, la squadra c’era, benissimo organizzata, equilibrata, anche per un livello generale così omogeneo da non creare invidie, sospetti o recriminazioni.

Poi la tragedia del capitano. L’urgenza di essere qualcosa di superiore per dare senso a quelle giornate che scoprirono una comunità così estesa, così necessitante di condividere le lacrime, perché impoverita di questo elemento in un mondo (del calcio) cos impegnato a delegittimarsi, privandosi di emozioni collettive, per fomentare il tifo, le divisioni, le polemiche. In una città dove si era guastato il gioco, rovinato dalle distanze (fra i tifosi e la società, fra la proprietà e la squadra): nelle distanze s’infilano i rancori, nei rancori cova ulteriore distanza.

Un lutto ricordò a tutti che da un lato o l’altro della trincea viviamo la stessa passione, lo stesso sentimento. Piazza Santa Croce, che di solito esalta la divisione, celebrando il calcio storico, dove si lotta a mani nude, a torso nudo, per imporre un colore, fu invece Piazza dell’Unità e tutto il mondo si convocò spontaneamente per riconoscersi in questo sentimento, l’unico veramente necessario al consorzio umano. Ma non sarebbe durato più in là di un funerale se non fosse mancato un uomo che questa pienezza sapeva incarnarla e diffonderla, attorno.
La Fiorentina ha raccolto quell’uomo, e lo sta raccontando. In campo.

E quel numero 10 che non c’era, perso chissà dove, adesso c’è. Ha dovuto, come tanti campioni in crisi, ritrovarsi con una giocata, con un pezzo di bravura proibito agli atleti ordinari. Non è accaduto in campo ma davanti a un foglio, o a un computer. Riccardo Saponara si mise a scrivere, per capire il dolore, per passarci dentro, tentando di trovare l’uscita. Capitano, mio capitano.
Quella lettera la conoscete. Frammenti di vita quotidiana e di speranze, di amicizia e di vuoto, una colazione saltata e un film da finire di vedere, LaLaLand, con un pianista che immaginava una vita sognata, mancata, come quella di un ragazzo perduto a trent’anni, quando si è ancora figli e già padri, fratello di tutti: uomo di tutti. Ci sono uomini che non se ne vanno.

Poi Saponara è andato in campo, a giocare. Ha trovato compagni ancora più tenaci, appesi a un sogno, attaccanti cresciuti in fretta, mediani che divorano il campo annullando qualsiasi inferiorità tecnica, difensori che proteggono la porta come si trattasse della vita. Fra loro, un numero 10 che mette la palla come serve, dove serve, quando serve. Ecco i gol di Chiesa e Simeone. E tutto il resto, fatto “insieme”, costruito e custodito insieme, diffondendo un’impressione superiore alla qualità, ma concreta, reale, avvitata ai fatti della partita come un chiodo piantato in un asse di legno, inestirpabile e tale da impoverire la forza altrui (sembra davvero l’Atletico Fiorentina).

E l’idea, di sfuggita e sempre presente, che il migliore in campo non sia più fra noi. Ma c’è.