Mihajlovic: "Leucemia? Ho avuto paura, ma ora sono un uomo migliore"

Serie A

L'allenatore del Bologna torna a parlare della malattia: "Mi è cascato il mondo addosso. Al rientro in campo a Verona quasi non mi riconoscevo: ma non bisogna vergognarsi di come ci riduce il male. Ora mi sento un uomo migliore". Poi sulla guerra: "Ho pianto il mio amico Zeljko. Non il comandante Arkan, capo delle Tigri"

Dall'ospedale aveva anche scritto un'autobiografia: La partita della vita, per continuare a costruire anche nei momenti più difficili. E nell'ultimo anno e mezzo, il mondo del calcio si è stretto attorno a Sinisa Mihajlovic: "Mi ha aiutato molto, ma ora basta", sorride l'allenatore del Bologna nella lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera. La lotta contro il cancro è giusto definirla una guerra? "Solo oggi capisco la domanda. Ammalarsi non è una colpa, succede e basta. Cerchi di reagire e ognuno lo fa a modo suo. Parlavo così per farmi coraggio: avevo paura e cercavo di darmi forza nell'unico modo che conosco. Combatti, non mollare mai. La verità è che non sono un eroe. E chi non ce la fa non è certo un perdente. Si tratta di una maledetta malattia, senza dottori non si va da nessuna parte. L'unica cosa che si può fare è non perdere la voglia di vivere: ora mi godo ogni momento, prima davo tutto per scontato. Contano solo la salute e gli affetti. La leucemia mi ha reso un uomo migliore".

Sotto falsa identità

In ospedale Sinisa era diventato Cgikjltfr Drnovsk: "Per non attirare i curiosi, mi avevano dato la falsa identità di un 69enne senza fissa dimora", racconta l'allenatore. "L'ho trovato ironico: senza dimora io, che negli stadi venivo chiamato zingaro di m... Non solo dai tifosi, durante Lazio-Arsenal in Champions League lo fece anche Vieira per tutta la partita. Per lui l'insulto era zingaro, per me era m... Reagii male, con insulti razzisti che mi costarono tre giornate di squalifica. Sbagliai, e tanto. Sono un uomo controverso e divisivo. Ne ho fatte di cazzate". Tra le più discusse, l'amicizia con Zeljko Raznatovic, criminale di guerra jugoslavo. "Nei miei anni a Belgrado l'ho frequentato per 200 sere l'anno", non si nasconde Mihajlovic. "Diventammo davvero amici. Quando morì pubblicai il famoso necrologio che mi costò una pioggia di critiche. Ma era per il mio amico Zeljko, non per il comandante Arkan, capo delle Tigri: non condividerò mai le cose orrende che ha fatto. Ma non posso rinnegare un rapporto che ha fatto parte della mia vita, altrimenti sarei un ipocrita".

"Non mi riconoscevo più allo specchio"

La guerra negli anni '90 ha segnato profondamente tutta la generazione di Sinisa. "E io da calciatore della Lazio cercavo di fare il possibile", incontrando anche l'allora premier Massimo D'Alema. "Volevo fargli capire che i bombardamenti della Nato avrebbero provocato la morte di tanti innocenti. Fu cortese, ma mi disse che non poteva farci niente. Quella era una guerra americana. Io non amo l’America: eppure il midollo per il mio trapianto mi è stato donato da un cittadino statunitense. La vita è piena di sorprese". L'ultima? "25 agosto 2019, per la prima di campionato a Verona implorai i medici. Pesavo 75 chili, ero immunodepresso e rischiavo di cadere per terra davanti a tutti. Ma volevo esserci e dare un messaggio: quando mi sono rivisto davanti alla tv non mi riconoscevo, ma non ci si deve vergognare della malattia. Così ho cercato di far capire a tutte le persone del mio stato di non abbattersi, di provare a vivere una vita normale. Fossero stati anche i nostri ultimi momenti".

Mihajlovic Getty

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