Marotta e lo scudetto dell'Inter 2024: un po' De Gaulle, visione e organizzazione

il ritratto
Marco Bucciantini

Marco Bucciantini

Lo scudetto della seconda stella porta sicuramente la firma di Beppe Marotta. L'amministratore delegato nerazzurro, partito dallo stadio Ossola di Varese da bambino, ha costruito la sua carriera su visione e organizzazione. Un po' alla De Gaulle...

Una squadra così armoniosa, solidale, coesa, capace di rivelare tutta sé stessa tanto da non poter eccepire in alcuno, quasi da doverli tutti elevare ai voti massimi, è sicuramente riuscita nel manico. Dal pensiero che la origina, dal governo pratico della manodopera, quindi da quel blocco che dal campo sale su (o va verso est, in Cina). Essendo la proprietà contumace - ma anche recentemente ha compiuto quelle operazioni e architetture finanziarie per non destabilizzare l’avventura, per prendersi tempo per “comandare” ogni scenario futuro - il ruolo della società (i dirigenti) è chiaramente maggiorato. Fra loro, ci viene logico parlare di Giuseppe Marotta fu Giovanni (la madre: Maria). Il padre dopo aver fatto la guerra passò al Ministero delle Finanze, nell’ufficio territoriale di Varese, dove 67 anni fa è nato Beppe: dunque in casa i conti hanno sempre dovuto tenerli in ordine.

Il calcio nel destino, da Varese all'Inter

Riferire a lui questo pezzo valga allora per tutta la dirigenza: che sia per una riduzione giornalistica, che sia per un riferimento dell’immaginario, che sia perché perfino gli avversari ormai gli intestano qualsiasi potere - la mitica Marotta League - la sua presenza è decisiva. Le biografie d’altronde hanno un peso, un valore, sono il brevetto immateriale delle cose riuscite. In quella di Marotta - cavaliere della Repubblica da qualche anno - ci sono tutti gli aneddoti necessari e coerenti: lo stadio Ossola del Varese (allora in Serie A) che è visibile dalla finestra di camera e invade - inonda - i sogni fanciulli: “Su quel campo volevo esserci, in qualunque modo”. Così a 8 anni si affianca al magazziniere Angelino che gli permette di assistere agli allenamenti dappresso ai giocatori ma in cambio pretende la corvée: aiutarlo a pulire gli scarpini. I tentativi di giocare, la resa ai fatti e la deviazione precoce dal campo di gioco alla carriera dirigenziale, ad appena 16 anni, mentre a scuola lottava al Classico, preferendo le materie umanistiche. Responsabile dei giovani del Varese, direttore sportivo poco dopo. Poi Monza, Como, Ravenna, Venezia, Sampdoria. Facciamola breve ma un dirigente bravo deve far accadere cose strane: allora Vieri ha giocato in Romagna, e Recoba nel Venezia (ma qui è stato d’aiuto il potere, il carisma, e il grano di Zamparini, perché Recoba era già un nome). Trovata la Serie A in Laguna, preferisce la sfida romantica di Genova: è il solito crescendo marottiano (locuzione abbastanza orribile, perdonate, ma di solito anzi sempre con lui le cose crescono, fino all’apice): la Sampdoria è in Serie B e rimbalza nei pressi della promozione che ritrova, infine, con Novellino in panchina (come a Venezia, Beppe si affeziona, certi nomi ritornano nella sua carriera).

 

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Va a recuperare l’intossicato di ego Antonio Cassano, ormai deriso a Madrid (“Il calciatore che mi ha fatto calcisticamente più divertire”) e insieme (anche a Mazzarri e poi Delneri) portano la Samp in Europa fino ai preliminari di Champions: cose che non succedevano dai tempi di Paolo Mantovani. Per tutte queste cose arriva la chiamata di Andrea Agnelli, per quell’affetto di dianzi il primo anno se lo gioca malocchio con Delneri, dal secondo si salda a Conte (lo rivorrà a Milano) e inizia un’era mai conteggiata di scudetti Juventus. Dell’addio, poco alla volta, si è saputo tutto: non fu condivisa l’operazione più grossa della società, con la quale ancor oggi la Juventus fa i conti (sbagliati). Agnelli avrebbe voluto salutarlo con una conferenza stampa congiunta (come fece con Allegri), Marotta rifiutò. Lasciò il suo potere a Fabio Paratici, e questo condividere i ruoli, superare i territori - senza dualismo, senza competizione - è un suo merito, un suo punto di forza: nella gestione più sportiva all’Inter aveva pensato di portare Cristiano Giuntoli, ma cambiò idea dopo aver conosciuto per esperienza diretta il lavoro e l’umanità di Piero Ausilio: la società era fatta, e si preoccupò di maneggiare qualcosa dell’organizzazione pratica dei movimenti della squadra, di migliorare (dal suo punto di vista) qualcosa a livello infrastrutturale. La scelta e la successione fra Conte e Inzaghi racconta un percorso visualizzato in modo lineare e compiuto, una consequenzialità riuscita. La difesa delle scelte - fatta anche resistendo ai dubbi, come lo scorso anno con Inzaghi - oggi viene incassata come valore aggiunto di confidenza e unione.

L'impronta più evidente sulla squadra è la ricerca di un linguaggio comune: l'italiano. Che ha sostituito lo slavo un pezzo alla volta, che richiama altre esperienze riuscite (Barzagli il primo anno alla Juvnetus, Pirlo il secondo così da creare un blocco "territorialmente marcato" nella parte di sostanza della squadra, davanti a Buffon). All'Inter uguale: un pezzo per volta, una matrice che possedesse un vissuto comune, una visione allineata, una mentalizzazione sullo Scudetto, così come si immagina da ragazzini. Perfino Thuram arriva in questo solco, straniero ma nato a Parma, cresciuto a Torino fino ai sette anni di età. Nessuna rivendicazione patriottica ma solo una conoscenza e un'esperienza da replicare. 

Il rapporto con la proprietà è sempre stato ottimo - o sono stati bravi a farlo sembrare sempre così, anche in momenti ovviamente complessi - e le difficoltà politiche e di conseguenza economiche di Zhang lo hanno reso ideale: la proprietà deve delegare e lasciare molta autonomia ai dirigenti sul posto. Chiaro che è un incontro fra la necessità e il “lascito” di pura fiducia e stima, ma Marotta così sta comodo, è abituato al controllo totale, è stato spesso amministratore delegato anche se comincia a sentire la fatica: “È l’ultimo contratto, poi smetto, mi occuperò dei giovani”, ha detto di recente, senza fissare una data perché l’orizzonte ora è illuminato dalla golden hour, la luce è perfetta e non è facile incamminarsi altrove.

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Marotta, un po' De Gaulle

Un generale che fece una grande carriera in politica, un giorno disse che la cosa più difficile per un dirigente è non attribuire alcuna importanza alle cose che non hanno alcuna importanza. Questo richiamo alla scarnificazione di Charles De Gaulle chiede esperienza e sembra radicato nel nostro: poche deviazioni, pochissima polemica gratuita (d’altra parte, le cose vanno bene da tanti anni). Questo successo dell’Inter deve essere raccontato anche così: la bellezza quand’è spontanea si esaurisce nell’esteriorità. Quando è costruita ha una forza potente, rivoluzionaria, duratura, salvifica. E divulga una lezione perduta, umiliata in un Paese che festeggia le amministrazioni controllate, che si accorda nei concordati fallimentari e premia di buonuscite manager senza missione: la classe dirigente è decisiva, è la riscossa “riformista” di una società (in senso lato), la cultura e la competenza di un dirigente sono le obbligazioni certificate di un popolo che chiede e spera che sia organizzata la propria felicità. Questo è il vero scudetto

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