Nando Valletti, il “casciavìt” eroe della Shoah

Avete presente quando vi manca il decimo per la partita di calcetto, e si parte con i messaggi in chat: “Qualcuno ha un amico che vuole giocare?”, in attesa che arrivi il sospirato messaggio: “Trovato, siamo in dieci”? Quante volte ci siamo trovati a poche ore dall’inizio della partitella con il forfait dell’ultimo minuto e con la successiva sequenza di messaggi per fare in modo di non far saltare l’appuntamento settimanale al campetto… Il decimo diventa l’eroe di giornata, accolto con pacche sulle spalle dagli altri nove. Sto per parlare di nazismo, di campi di sterminio, del più terribile dei massacri decisi, ordinati ed eseguiti nella storia dell’umanità. Vi chiederete perché ho iniziato parlando del calcetto. Primo, perché il calcio in questa storia è centrale. Secondo, perché questa storia nasce da un episodio come ne possono succedere tanti nella nostra vita quotidiana, con la differenza che accadde in uno dei peggiori campi di sterminio nazista, anzi un campo di lavoro e sterminio . Sì, perché questo racconto nasce dal fatto che nei campi di sterminio c’erano anche campi da calcio. Ovviamente non per i prigionieri ma per il diletto dei soldati delle SS. E in un giorno del 1944 a Gusen, sottocampo di Mathausen, ai nazisti manca un giocatore per completare le due squadre. Un kapò viene incaricato di chiedere ai deportati chi volesse sottoporsi a un provino per entrare in campo: in caso di prova positiva si va in campo, se il test non viene superato le SS decideranno il modo per eliminare fisicamente il candidato. Si fa avanti un ragazzo poco più che ventenne, con gli zoccoli e già provato dal lavoro, dalla fame e dalle condizioni tremende della prigionia. Dice di aver giocato nel Milan e affronta la prova decisiva per la sua vita a piedi nudi, nel fango di quel lembo di Austria. Qualche minuto in campo può significare sopravvivere oppure morire senza sapere neanche quale modo si inventeranno i nazisti per torturarti prima di ucciderti. Quel ventenne si chiama Ferdinando Valletti, è nato a Verona il 5 aprile del 1921. Cresciuto calcisticamente nell’Hellas, nel 1938 si diploma e viene assunto a Milano all’Alfa Romeo. Qui continua a giocare, nel Seregno, poi viene notato dai rossoneri e nel 1941 finisce nella rosa del Milan. Disputa un paio di amichevoli, poi la rottura del menisco, l’operazione e la fine della carriera calcistica. Nel 1943 si è sposato e quando viene deportato lascia la moglie incinta. Prima di proseguire nella storia, perché ‘Nando’ è finito deportato a Gusen? Valletti viene deportato in seguito agli scioperi del marzo del 1944. Lui, insieme ad altri compagni delle cellule antifasciste dell’Alfa Romeo, distribuisce volantini clandestinamente e si adopera per la riuscita dello sciopero che Radio Londra definirà “la più grande manifestazione di massa effettuata nell’Europa occupata dai nazifascisti”. Milano e Sesto San Giovanni erano l’agglomerato industriale più imponente d’Italia: l’Alfa Romeo , la Breda, la Falck, la Pirelli, la Marelli. La Resistenza degli operai iniziò l’anno prima, con le manifestazioni del 1943 partite da Torino e che coinvolsero tutto il nord ovest. E non si fermò. Già nel dicembre del ’43 le agitazioni erano riprese. Tanto che il generale tedesco Zimmermann fece radunare tutti i lavoratori della Falck: “Chi non riprende il lavoro – gridò al microfono – è un nemico della Germania. Chi è nemico della Germania viene fucilato. Chi vuole continuare lo sciopero faccia un passo avanti”. Tutti fecero un passo avanti e Zimmermann se ne andò. Per i gerarchi fascisti, le fabbriche di Milano e di Sesto rappresentavano “Il cancro della Lombardia”, come si legge in alcuni scambi. In seguito agli scioperi del 1944 centinaia di operai di Milano e Sesto San Giovanni vennero deportati nei lager nazisti. Anche Ferdinando Valletti viene arrestato: dopo il fermo, il passaggio a San Vittore e poi la partenza dal binario 21 della Stazione Centrale, con la complicità attiva della dittatura fascista . A Gusen Nando ci finisce con altri compagni dell’Alfa: Romanoni, Vignolle, Crippa e Nespoli. E nel lager conoscerà Aldo Carpi, pittore e insegnante all’Accademia di Brera . Nando, come racconta lo stesso Carpi nell’incredibile ‘Diario di Gusen’ , aiuta il 57enne pittore, ormai debilitato. Quando devono marciare per andare a scavare le gallerie lo sorregge per fare in modo che non cada sotto i trenini che trasportano le pietre. Carpi, per la sua qualità di disegnatore, riesce a racimolare qualche razione di cibo in più facendo ritratti ai suoi aguzzini e ai loro familiari. Torniamo a quel provino. Nando lo supera e viene ‘ingaggiato’ a giocare nelle partite tra soldati nazisti. Si fa valere, da buon casciavìt, e grazie alle sue qualità calcistiche riesce a sopravvivere e ad aiutare altri prigionieri. Grazie al suo impegno calcistico viene spostato a lavorare nelle cucine, da cui, non senza pericolo, porta con sé qualche avanzo, pezzi di patate, quel poco che basta a lui e ai suoi compagni per sopravvivere. E pensare che in quei mesi un altro calciatore, Carlo Castellani, è anche lui deportato a Gusen. Arrestato in Toscana sempre a causa degli scioperi contro il nazifascismo. Carlo, l’attaccante dell’Empoli più prolifico della storia del club insieme a Tavano, si offre al posto del padre, un militante socialista. Pensando di dover solo passare qualche ora nella caserma dei fascisti, che sono suoi compaesani, li conosce, magari ci ha bevuto anche un caffè insieme. E invece anche per lui la condanna è il treno per Gusen. Castellani muore nell’agosto del 1944, provato dalla prigionia, probabilmente a causa della dissenteria. 5 maggio 1945: i soldati della terza Armata americana liberano Gusen. Valletti prende una carrozzina per aiutare Romanoni ormai allo stremo delle forze, si ritrova nell’erba, libero, ad abbracciarsi con gli altri compagni Vignolle, Crippa e Nespoli. Il mediano operaio ha vinto la partita. Torneranno in Italia nell’agosto del ’45. Valletti rientra nell’Alfa Romeo, di cui diventerà dirigente fino alla pensione. Aldo Aniasi, sindaco di Milano ed ex comandante partigiano gli conferì l’Ambrogino d’Oro nel 1979. Poi l’impegno, negli ultimi anni della sua vita, per ricordare l’Olocausto, parlando ai ragazzi delle scuole, instancabilmente. La morte, nel 2007, dopo essersi ammalato di Alzheimer. Ma resta nella storia, ricordato anche dal suo club, il Milan. La figlia Manuela ha scritto un libro, poi diventato anche un documentario: ‘Deportato I 57633. Voglia di non morire’ in cui racconta la prigionia e l’eroismo del padre. Resta il brivido a pensare che i nazisti giocassero a calcio mentre uccidevano, torturavano, lasciavano morire di fame e stenti milioni di persone. Ma derubricare il nazifascismo a semplice ‘follia’ è sbagliato. Per questo servono momenti come il Giorno della Memoria. A ricordarci che quei crimini furono compiuti da uomini come noi, guidati da idee frutto della razionalità, criminale ma non folle. “Se la storia può e deve servire, essa è danneggiata dalla disumanizzazione dei protagonisti del crimine nazista: facendo di loro dei soggetti estranei alla nostra comune umanità, noi ci esoneriamo da ogni riflessione sull’uomo, l’Europa, la modernità, l’Occidente, insomma su tutti i luoghi che i criminali nazisti abitano…È comodo e confortevole, ammettiamolo: l’idea secondo cui noi potremmo condividere qualcosa con gli autori di tesi e crimini così mostruosi ci ripugna. Tuttavia, non si può affermare che eludendo in tal modo determinate questioni che riguardano il nostro tempo e il nostro luogo noi serviamo la causa dell’intelligenza storica o dell’intelligenza pura e semplice”. Lo scrive Johann Chapoutot in un libro fondamentale: ‘La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti’. Un consiglio di lettura per capire come è potuto accadere. Per questo è fondamentale non dimenticare: se la follia può apparire irripetibile, le ragioni terribili e criminali sono sempre dietro l’angolo. Ricordare non è quindi solo un esercizio retorico, ma è una preziosa attività pratica. E serve anche per ringraziare quanti riuscirono ad aggrapparsi alla loro vita e a quella degli altri per non cedere, per sopravvivere, per fare vincere la parte buona dell’umanità. Per questo grazie Ferdinando Valletti, casciavìt in tutto e per tutto.

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Alberto Pontara