I dazi e l'effetto di Trump sullo sport

“Chi siete? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino!”. L’esilarante siparietto tra Benigni e Troisi da una parte e il doganiere dall’altra rappresenta una riuscitissima parodia dei dazi che nel medioevo erano imposti a tutti coloro che trasportavano merci da un comune all’altro. Si tratta del film, inutile ricordarlo, “Non ci resta che piangere”, titolo che oggi potrebbe suonare tristemente profetico, vista l’aggressiva politica protezionistica che l’amministrazione Trump sta attuando nei confronti di tutti i Paesi del mondo. Ma al netto delle analisi economiche, dei dibattiti politici e delle montagne russe imposte dal Presidente Usa che prima li impone travolgendo i mercati e poi li congela trasformandoli in arma politica e negoziale, quali sono le conseguenze dei dazi sul mondo dello sport? Per un comune cittadino apparentemente non cambia nulla: la pratica sportiva individuale piuttosto che la semplice partecipazione da spettatore di un evento agonistico sembrano sfuggire a tutta questa intricata vicenda. Lo sport dopotutto non è mica una merce e, anzi, la passione che genera è uno dei pochi medicamenti che allontana dalle fatiche e dalle frustrazioni del quotidiano. O no? In effetti bastano poche riflessioni e un minimo di analisi per capire che no, lo sport non è affatto immune dagli effetti di una controrivoluzione commerciale che entra a gamba tesa sulle dinamiche della globalizzazione. Dopotutto i dazi non sono altro che imposte indirette applicate a merci e/o servizi provenienti da un Paese straniero con l’obiettivo di aumentarne il prezzo e dunque di renderli meno competitivi rispetto ad analoghi beni nazionali. Ma con l’effetto collaterale di scaricare quell’aumento direttamente sui consumatori, soprattutto per quei beni essenziali sin lì importati dall’estero e difficilmente sostituibili. Vero, qui ci si riferisce ai prodotti alimentari o farmaceutici. E tuttavia l’interconnessione economico/commerciale è tale da comportare un effetto domino che investe molti, moltissimi altri settori. Tra cui, appunto, lo sport. Partiamo dall’aspetto di più immediata comprensione: la commercializzazione di materiale e abbigliamento sportivo. Si tratta di un’attività produttiva che crea posti di lavoro e genera un indotto economico enorme, anche grazie all’esportazione verso il mercato americano. In Italia ci sono molte eccellenze in questo settore, dalla Lotto alla Kappa, dalla Diadora all’EA7, dalla Macron all’Errea, giusto per citarne alcune. E allargandoci all’Europa non si possono dimenticare realtà come le tedesche Adidas e Puma o la spagnola Joma. Tutte aziende che sponsorizzano squadre professionistiche o singoli atleti di discipline individuali, fornendo loro il materiale tecnico necessario per l’attività sportiva e ricevendone in cambio visibilità. Che consente loro di conquistare quote di mercato: comprare una maglietta della Juventus, dell’Atalanta o del Milan significa acquistare anche il loro marchio, che dunque allarga la sua appetibilità dal merchandising al normale abbigliamento sportivo. Di più: accaparrarsi la canottiera azzurra di Marcell Jacobs o la tuta di Federica Brignone alimenta il loro prestigio, processo che negli anni ha consentito a queste aziende di sbarcare con profitto oltreoceano dove la loro manifattura è apprezzata e acquistata, al punto che l’Italia è diventata il terzo Paese per esportazioni di scarpe sportive negli Usa, malgrado la presenza di un colosso come la Nike. Che certamente ha la forza non solo di orientare il mercato interno ma anche di compiere il percorso inverso, verso l’Europa. Basti pensare che da noi sia l’Inter che Sinner, giusto per citare due brand importanti, sono legati all’azienda americana. Cosa desumere, quindi? Che l’imposizione di dazi sulle aziende europee aiuterebbe ulteriormente i maggiori marchi Usa? Assolutamente no. Perché anche la Nike, senza bisogno di alcun contro-dazio, deve misurarsi con le stesse problematiche. Motivo? Nike è un marchio americano, è vero, ma non produce tutto negli Usa. Anzi, per la maggior parte si rivolge a Paesi dove il costo del lavoro è più conveniente che in patria. Sino a qualche tempo fa il partner prevalente era la Cina, ma le tensioni che negli anni si sono consumate tra i due Stati proprio in chiave commerciale hanno dirottato le aziende a stelle e strisce su altri Paesi. Come il Vietnam. E Hanoi, nel contempo, ha investito con l’intento di diventare un polo mondiale nel settore. Tanto che l’anno scorso il 50% delle calzature e il 28% dell’abbigliamento sportivo a marchio Nike sono stati prodotti proprio in Vietnam. Strategia che hanno adottato anche aziende come Adidas e Puma . Peccato che i dazi previsti per quell’area del mondo siano del 46%, circostanza che aumenterebbe fatalmente il prezzo di quei prodotti ovunque, non solo fuori dagli Usa. In altre parole, le conseguenze per gli stessi consumatori americani in questo specifico settore rischiano di essere clamorose: considerando che il 30% delle sneakers vendute negli States è made in China, che il 29% proviene dal Vietnam e che un’altra percentuale significativa riguarda le importazioni da Italia e Germania, il pericolo è che da quelle parti le scarpe sportive diventino costosissime o introvabili. I dazi, insomma, colpiscono tutti senza fare prigionieri, esattamente in forza della globalizzazione che 'spalma' e distribuisce nel mondo l’intera catena di produzione e distribuzione di uno specifico prodotto, come dimostra la celebre parabola della matita di Milton Friedman, economista e premio Nobel citato persino da Elon Musk in opposizione alla politica adottata da Trump: “Il legno proviene da un albero tagliato nello stato americano di Washington. E per tagliare l’albero c’è voluta una sega, per costruire la quale è servito l’acciaio. La grafite della punta penso provenga da qualche miniera del Sudamerica, mentre la gomma per cancellare posta all’altra estremità arriva probabilmente dalla Malesia. Il cinturino metallico e la colla che tiene tutto insieme…non ho la minima idea da dove vangano. Ma ciò che intendo è che non una sola persona, bensì letteralmente migliaia di persone hanno collaborato per costruire questa matita”. Discorso perfettamente applicabile anche all’attività di molte altre aziende sportive sia nel golf che nel tennis, dove le maggiori imprese Usa, che si valgono di materiali di importazione cinese, hanno già fatto notare come i dazi appesantiranno notevolmente i costi di produzione. Ora dunque appare chiaro perché il giorno dello scenografico annuncio di Trump, la Nike a Wall Street abbia perso il 14% in una sola giornata di contrattazioni per poi giovarsi di un piccolo rimbalzo un paio di giorni più tardi, quando il Presidente, nella sua consueta giostra comunicativa, avrebbe dichiarato di aver parlato direttamente col segretario generale del partito comunista vietnamita rivelando la sua intenzione di ridurre a zero i dazi verso gli Usa per liberarsi della violenta ritorsione: “Ne sono felice – ha chiuso Trump – ne parleremo”. E’ bastato un post che anche solo vagamente prefigurasse un passaggio dal 46% allo 0% per rianimare quel titolo in Borsa. Sì, perché la Borsa, come è noto, non è il freddo luogo degli ingranaggi che ubbidiscono pedissequamente alle leggi economico/matematiche. Ma al contrario è la dimensione eterea in cui comanda la volatile inclinazione dell’umore. Che in un contesto di tale insicurezza e confusione non può che crollare vaporizzando capitali a nove zeri per poi rinvigorire di fronte all’inversione a U adottata, temporaneamente, dall’amministrazione americana. Questo ci porta ad un’altra possibile declinazione dell’effetto dei dazi: in Italia ci sono molte proprietà americane nel mondo del calcio, ma due in particolare attirano l’attenzione perché coinvolgono club storici e prestigiosi come Milan e Inter. E nel caso delle due società milanesi non si tratta semplicemente di proprietà americane, ma di Fondi di investimento, per loro natura estremamente sensibili alle fluttuazioni dei mercati azionari. Una contrazione prolungata e significativa delle Borse mondiali potrebbe dunque comprimere se non addirittura inaridire guadagni e investimenti costringendo a rivedere al ribasso budget e pianificazione dei club, tra ingaggi non più sostenibili e movimenti di calciomercato meno ambiziosi. Altro aspetto che certamente non sfuggirà alla mannaia dei dazi è la fruizione dello sport, se non in modo diretto certamente come suo effetto collaterale. Tutti gli eventi di alto livello e di qualsiasi disciplina impongono un prezzo per l’acquisizione dei biglietti di ingresso. E negli Stati Uniti NBA, NHL, MLS e NFL ne stanno già ventilando l’aumento a causa dei nuovi costi delle forniture di materiali e attrezzature. Allo stesso modo tutte le Leghe sportive, di qualsiasi nazionalità, commercializzano anche all’estero il loro prodotto, che poi diventa fruibile grazie ad abbonamenti proposti da svariate piattaforme. Non è ancora chiaro se questo tipo di servizio verrà mai sottoposto a dazi e in che misura. Ma va da sé che un’inflazione generalizzata e la conseguente perdita di potere di acquisto dei salari potrebbe spostare il limite di spesa nei singoli bilanci familiari, costringendo a scelte che ovviamente tenderanno a privilegiare i beni di prima necessità, escludendone altri. Sì, perché sin qui abbiamo tenuto ferma una variabile concentrandoci solo sull’altra. E cioè ci siamo focalizzati sui possibili effetti dei dazi rispetto ai prezzi di merci e servizi, tenendo ferma la capacità di spesa dei suoi potenziali acquirenti. E, come hanno fatto osservare alcuni economisti americani, per molte fasce sociali gli aumenti potrebbero essere contenuti e assorbiti senza troppi drammi. Ma se il loro potere di acquisto dovesse contrarsi significativamente, allora la misura di quegli stessi aumenti potrebbe diventare eccessiva e tutt’altro che colmabile. La Lega Serie A, per esempio, vende i diritti del nostro campionato anche negli States, ma se oltre oceano il costo degli abbonamenti Tv diventasse troppo alto per effetto di dazi diretti o indiretti, i nuovi contratti con i broadcaster americani verrebbero rivisti al ribasso, riducendo gli introiti della stessa Lega e dunque della sua capacità di redistribuzione alle società che ne fanno parte. Connesso a tutto questo esiste una dimensione geopolitica che non può essere sottovalutata e che accresce le difficoltà anche in ottica sportiva. Tra i Paesi colpiti dai dazi non fa eccezione il Canada, che rappresenta una vera potenza nella produzione di attrezzature per l’hockey su ghiaccio. Basti pensare, giusto per dare l’idea della dimensione di questo business, che la sola Roustan Hockey dell’Ontario ogni anno esporta più di 100.000 bastoni negli States, pari al 40% del suo fatturato, messo ora a forte rischio dall’applicazione di una tassa del 25%. Ma a questo fattore, che dal punto di vista commerciale assimila le aziende canadesi a quelle di ogni altra parte del mondo, occorre aggiungerne un altro, e cioè l’irritazione di un intero popolo per le reiterate provocazioni del Presidente Usa che a ha prefigurato l’annessione del Canada come 51esimo Stato americano. E le reazioni più significative si sono registrate proprio a margine di eventi sportivi, visto che alla NBA e alla NHL partecipano molte franchigie canadesi. A Ottawa, Toronto e Vancouver l’inno statunitense è stato sonoramente fischiato, accendendo una rivalità che ormai non è più semplicemente sportiva. Senza contare che le stesse franchigie stanno seguendo con ansia l’evolversi della situazione perché se i dazi finiranno per deprimere il valore del dollaro canadese rispetto a quello americano gli stipendi di tutti i giocatori diventeranno un salasso insostenibile. Insomma, il mondo dello sport canadese è profondamente segnato dai recenti rapporti con il potente vicino, in termini commerciali, economici e sociali. Una situazione simile a quella del Messico, messo all’angolo da Trump non solo per ragioni di import/export, ma anche per la delicata e complessa questione legata all’immigrazione clandestina. E con quali Stati gli Usa organizzeranno i prossimi Mondiali di calcio nel 2026? Proprio con Canada e Messico. Circostanza che imporrebbe una collaborazione solida e serena su molti versanti, tra i quali la sicurezza, la libera circolazione dei tanti turisti/tifosi che durante la manifestazione passeranno da un Paese all’altro, la pianificazione commerciale e le sponsorizzazioni. E che invece metterà allo stesso tavolo Stati che ora si guardano con diffidenza e insofferenza. Quanto alle sponsorizzazioni per un evento di tale portata occorre registrare le prime perplesse riflessioni, come quelle di John Zerafa, importante manager già coinvolto nell’organizzazione delle Olimpiadi di Londra 2012 e che si occupa della strategia comunicativa di molti eventi sportivi planetari: “Perché mai uno sponsor dovrebbe investire milioni di sterline se diventasse proibitivo vendere in America?”. Considerazioni che potrebbero essere replicate ai piani alti della Hyunday, azienda sudcoreana che recentemente aveva raggiunto un accordo con la FIFA per i Mondiali 2026 e per il Mondiale per club della prossima estate, evento cui parteciperanno tra gli altri anche Inter e Juventus. O magari per la stessa Budweiser, birra che viene prodotta in larga parte negli States ma il cui marchio appartiene alla Anheuser-Busch InBev, multinazionale nata dalla fusione tra un colosso americano e un altro europeo ma con sede in Belgio. Come verrebbe trattato quel prodotto? Come americano o come europeo? Sarebbe sottoposto a dazi come le altre birre europee o no? E’ vero che i maggiori sponsor ufficiali dei Mondiali americani o sono a stelle e strisce come la Bank of America o le multinazionali delle patatine, o sono colossi dei Paesi del Golfo come la Qatar Airways, guarda caso esclusi sin dall’inizio dalla politica protezionistica americana. E tuttavia l’incertezza e l’imprevedibilità rispetto ai comportamenti di Trump, repentini e contraddittori, potrebbero incidere eccome sul quadro complessivo di un evento così trasversale e globale. Senza dimenticare che un poco più in là, nel 2028, ci saranno le Olimpiadi di Los Angeles, altro scenario da allestire tra mille possibili turbolenze. Malgrado la tregua annunciata dallo stesso Presidente che aveva scatenato l’offensiva, restano dunque sul tappeto molte preoccupazioni di carattere commerciale, finanziario, politico e sociale che potrebbero minare non solo l’economia mondiale, ma anche quel soft power americano che negli ultimi 80 anni ha abbracciato l’intero mondo occidentale imprimendo nelle varie generazioni dapprima la gratitudine per la liberazione dal nazi-fascismo, poi la fascinazione per il sogno americano esportato in mille forme culturali , infine l’ammirazione per de escalation militare e diplomatica che portò al crollo del muro di Berlino. La trasformazione degli Usa da paradigma di democrazia liberale a autocrazia sovranista potrebbe costituire un epocale iato storico, riaccendendo quel sentimento anti-americano che lo sport rifletterebbe come un fedele specchio. I primi effetti sono già emersi in Canada, ma che reazione avrà il pubblico americano alla prossima Ryder Cup o ai prossimi Mondiali di calcio ospitati in casa loro? E quali capacità attrattive avrà l’attività dell’Ufficio per la diplomazia sportiva creato dalla Farnesina per promuovere il turismo e il relativo indotto economico attraverso la promozione dell’eccellenza italiana nel mondo dello sport? Tutte domande che restano sospese in attesa che il polverone sollevato da Donald Trump si sedimenti lasciando intravvedere il futuro. Non resta che sperare che la soluzione paradossale non sia rappresentata dalla strategia che Benigni e Troisi ipotizzavano nel loro capolavoro comico: probabilmente non servirà fare un viaggio nel tempo per diventare “i fermatori di Cristoforo Colombo” ostacolando la partenza della Nina, della Pinta e della Santa Maria. Magari sarà sufficiente aggrapparsi ai valori di inclusione e collaborazione che sia in politica che in economia hanno storicamente generato benefici globali. E di cui, al netto degli eccessi del tifo, si è sempre nutrito il mondo dello sport.

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Alessandro Biolchi