Rambert: “Quella volta in cui Maradona mi chiese scusa”

Distanze. Di tempo, di spazio, pure di lingua. Ma Sebastián Rambert, detto ‘El Avioncito’ , come giocatore è sempre stato uno molto veloce. E la velocità le distanze le colma. “Magari in questo caso proviamo a parlare lentamente: tu in italiano, io in spagnolo”. E vediamo come va. Da quanto tempo manca dall’Italia? “Non tanto tempo, credo. . Era il 2004! Allenavo l’Arsenal Sarandí, la squadra con cui l’anno prima avevo smesso di giocare. Eravamo arrivati per giocare il Torneo di Viareggio. In rosa avevo un giovanissimo Papu Gomez. Aveva 16 anni, era poco più di un bambino. Poi l’ho girata un po’, l’Italia: Roma, Pisa... E ne ho approfittato per viaggiare anche un po’ per l’Europa, soprattutto in Francia: a Lione c’erano diversi miei ex compagni di squadra. Del vostro Paese conservo davvero un bel ricordo: ho sempre detto a mia moglie e mio figlio che se avessimo dovuto scegliere in Europa un luogo in cui vivere, sarebbe stata l’Italia. Come vita è stata il massimo: ottimo cibo, città meravigliose... Anche se come calcio non è stato il mio massimo” Eppure all’Inter era arrivato con grandi aspettative. Estate 1995, acquistato dall’Independiente e presentato come promessa insieme a un altro giovanissimo giocatore preso in Argentina: Javier Zanetti… “È vero. Ma a distanza di anni posso dire questo: sono arrivato all’Inter quando ero troppo giovane. Semplicemente, non ero pronto e ho patito il cambio. Il mio primo allenatore fu Ottavio Bianchi e mi chiedevo perché non giocavo molto. Non ci siamo mai confrontati a lungo, ma a posteriori, e nel ruolo che ho adesso, ho capito come anche per lui non fossi pronto. A volte gli allenatori si ritrovano dei giocatori che non si aspettano, come è capitato a me. Bianchi venne esonerato dopo 4 partite e arrivò Luis Suarez: era spagnolo, mi ha spiegato quanto fosse complessa la situazione. E poi è arrivato Hodgson: per la prima volta un allenatore inglese sedeva su quella panchina. Insomma, non avevo le condizioni migliori per poter crescere con calma: arrivavo anche da un infortunio al ginocchio per cui ero rimasto fuori per diversi mesi e mi sono trovato a dover imparare tutto, lontano da casa, in un momento non semplice per il club. Forse per essere più utile mi sarei dovuto ambientare in club più piccolo, o sarei dovuto arrivare dopo” Ma al di là di questo, a livello di gioco quali sono state le difficoltà principali? “Tutto quel calcio era diverso: intanto penso al catenaccio che era molto più usato rispetto a oggi. Le squadre si chiudevano molto di più, si faticava a trovare il gol. Il livello allora era più alto? Non credo. La Serie A continua a essere molto competitiva, ma il modo di giocare è totalmente diverso. In tutti i casi, credo di aver patito proprio un problema di spazio: ci potevano essere solo 16 giocatori a disposizione, la panchina era più corta e davanti avevo compagni come Ganz e Carboni. Però lo ribadisco: essere stato all’Inter è stato un rimpianto, ma non una scelta sbagliata. Mi ha fatto crescere tanto” L’impatto con l’Italia come è stato? “Molto difficile per tutti i motivi che ho raccontato. Però mi sono sentito in qualche modo a casa, soprattutto con i miei compagni di squadra. Ne cito uno in particolare: Davide Fontolan. Mi ha ospitato per trenta giorni, il tempo cioè per permettermi di trovare una sistemazione. Si stava separando dalla compagna, mi aveva detto che avrei potuto stare con lui tutto il tempo necessario. In nerazzurro ho vissuto sei mesi, poi sono andato in Spagna e sono tornato subito in Argentina. Adesso, con le nuove regole, forse in Europa sarei rimasto: ho il passaporto francese, il tesseramento sarebbe stato più semplice. Ma è andata così” A proposito di compagni. Che rapporto ha proprio con Zanetti? Per la storia dell’Inter, i vostri due cognomi restano comunque legati. “Io dico questo: in rosa avevo un compagno come Bergomi. Ecco, Javier è diventato quello che Bergomi è stato per noi. Che potesse fare questa carriera non me l’aspettavo, ma di certo se l’è meritato: non parlo solo dell’Inter, ma anche della Nazionale. Ha giocato tanti Mondiali, ha vinto tanto. È un grande, Javier, non è facile trovare un altro come lui. Ci siamo sentiti qualche mese fa, quando ero il vice di Berizzo nel Cile: ci siamo confrontati su Alexis Sanchez, volevamo capire come stesse. Non ci parliamo tanto, ma è sempre un piacere quando capita. Lui è un simbolo” Ecco, i simboli. Dopo l’esperienza all’Inter e al Saragozza, nell’estate del ‘96 ha fatto subito ritorno in Argentina per andare al Boca Junior. Tra i componenti della rosa leggiamo un nome: Diego Armando Maradona. “Non ci giro troppo intorno: è stato il compagno di squadra più forte con cui abbia giocato. Ho lavorato con giocatori incredibili: Roberto Carlos, Aimar, Saviola… Ma Diego è eterno. Non parlo solo dell’Argentina: per me è stato anche sinonimo di incredibile umiltà. Pensate, mi chiese scusa. Lui, Maradona, che chiede scusa a un giovane giocatore come ero io” Cosa era successo? “Era già tornato al Boca da un anno e aveva fatto intendere chiaramente di non voler più battere i rigori, perché ne aveva sbagliato qualcuno. Non si sentiva più adatto, non voleva. La nostra stagione non partì alla grande, tanto che ci fu un esonero: a gennaio arrivò Hector Veira, che mi nominò rigorista. Ora, mi ricordo che durante una partita alla Bombonera ce ne venne fischiato uno: mi presentai al dischetto, ma tutto il pubblico voleva che lo battesse Maradona. La pressione fece il resto: io calciai e il portiere parò. Arrivarono molti fischi, non fu facile da digerire. Ma l’episodio che mi fece molto piacere arrivò il giorno dopo, durante l’allenamento: Maradona mi si avvicinò per chiedermi scusa. ‘È l’ultima volta che ti ritroverai con questo peso addosso per causa mia’, mi disse. Mi resi conto di quanto fosse attento a questi dettagli, su come si potesse sentire un compagno di squadra per le sue azioni. Mi colpì molto” L’empatia è una delle caratteristiche più importanti che si chiedono a un allenatore. Che tipo di allenatore è Rambert? “Io lavoro da tre anni come secondo nello staff di Berizzo. Prima al Cile, ora al Club de León in Messico. Sapevo subito che avrei voluto intraprendere questa carriera: ho smesso con il calcio a 29 anni dopo otto operazioni chirurgiche al ginocchio. Troppe. Ho vissuto l’esperienza con le giovanili dell’Arsenal Sarandí, quindi sono stato nello staff di Ramon Diaz, un altro ex Inter che ora allena il Corinthians. Quindi ho lavorato con un mio ex compagno di squadra dell’Independiente, Daniel Garnero: ci siamo separati dopo l’esperienza nel Paraguay. Era la stagione 2023/2024: mi chiamò Berizzo, che mi chiese di unirmi a lui. Siamo molto coesi nello staff: penso per esempio all’altro vice, Ernesto Marcucci. Ognuno segue una sua area di competenza” Cosa vuol dire avere in rosa un giocatore come James Rodriguez? “Vuol dire lavorare con una persona di cui apprezzi subito le qualità. E capisci perché ha giocato nel Real Madrid, nell’Everton, nel Bayern Monaco. Insomma, capisci perché abbia giocato a livelli così alti. È il classico elemento che fa le cose prima ancora che un allenatore gliele chieda. Ha molta motivazione perché vuole stare bene per il prossimo Mondiale. Alla nostra squadra ha dato tantissima qualità e può essere anche un ottimo esempio per i più giovani” C’è un giovane che non fa parte del Club de León, ma dell’Independiente. Si chiama Tomás Rambert. “. Mio figlio purtroppo ha dovuto fermarsi prima della fine della stagione per un ematoma osseo all’altezza della schiena che è molto doloroso e debilitante. Era stato prestato al Los Andes ma è già tornato all’Independiente. Io ero un attaccante molto veloce, lui invece è molto più tecnico: può giocare su entrambe le fasce o addirittura come prima punta. Potrà anche segnare di più, se crescerà…” Ma secondo Sebastián Rambert, chi è l’attaccante più forte del mondo? “La domanda è difficilissima, anche perché per fortuna i campioni ci sono ed è bello vederli in campo. È chiaro: se si pensa a tecnica o a senso del gol, una delle risposte più scontate potrebbe essere Mbappé. Ma provo a pensarla da allenatore: per me è Julian Alvarez. Lo dico perché è completo, sa fare gol, ha qualità, ma anche una grande predisposizione per il sacrificio. Se Mbappé è da 10 per una serie di caratteristiche, magari è da 7 per altre. Julian è da 8 in tutte: non ha qualche qualità, le ha tutte in modo equamente distribuito Ma attenzione, questo non vuol dire che non prenderei Kylian al León. Sarebbe pronto? Sì, lui sì...”

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Valentino Della Casa