Alle origini di Alessandro Buongiorno, intervista a Silvano Benedetti

Ricorda il primo giorno in cui ha conosciuto Alessandro Buongiorno? “La data esatta no, ma ricordo che aveva 7 anni, di quello sono certo. Il giorno che lo abbiamo accolto per il provino ci siamo accorti subito insieme all’allenatore che aveva delle qualità non indifferenti, tanto che dopo solo un allenamento sono andato a parlare con la famiglia per capire la disponibilità ad averlo in maglia granata”. La reazione? “Da parte sua un po’ di timore. Accade spesso nei bambini così piccoli: società nuova, compagni nuovi. Lui era affezionato al Barracuda, il suo club dell’epoca. Allora, per quanto noi cercassimo di mettere i giovani atleti a proprio agio, vedendo un pizzico di ‘resistenza’ ho preferito allentare la presa. Ho convinto la famiglia a portarlo per una prova di due settimane, ma senza impegno, non volevo mettere pressione al ragazzo. L’avremmo accolto solo se si fosse trovato bene, perché un bambino ha bisogno di un ambiente di un certo tipo. Da lì in poi non si è più staccato dal Torino”. Quali sono stati i segnali che le hanno fatto capire che Buongiorno aveva del potenziale? “Intanto la coordinazione. Se un atleta ha una buona gamba, una buona struttura, ce ne si accorge anche a quell’età. Questo vale per tutti. Nel suo caso ricordo la caparbietà con cui ha affrontato la seduta di allenamento: una qualità che non può essere insegnata da così piccoli, ce l’hai per natura. E poi anche le letture di gioco, sembra incredibile ma anche a 7 anni si riesce a capire chi ha la testa per comprendere il calcio e chi no. Poi è ovvio che non ci si può immaginare il livello a cui il ragazzo arriverà, ma questi sono stati dei segnali importanti che ci hanno fatto capire che aveva del potenziale”. Che bambino era Alessandro Buongiorno? “Molto educato, sempre rispettoso. Affidabile sia in campo sia fuori, non ci ha mai dato nessun problema. Nonostante la piccola età sapeva fare tutto quello che gli veniva chiesto da un punto di vista tecnico senza problemi. Sapeva giocare. Già a 7 anni aveva tutti i canoni di un professionista. Quando ha iniziato in quella rosa tra l’altro condivideva lo spogliatoio con Moise Kean”. A quei tempi aveva già manifestato la voglia di fare il difensore? “Sì e no. Come tutti i bambini aveva voglia di fare gol e si spingeva spesso in avanti sui calci d’angolo e sulle punizioni. A quell’età l’importante è divertirsi, il ruolo si definisce con il tempo. Però sì, per fisico e movenze anche a quell’età si poteva capire che sarebbe diventato un difensore”. Ha sempre mostrato attaccamento ai colori del Torino? “Penso di sì, non saprei dire se fosse tifoso anche di un'altra squadra, da bambini può succedere di simpatizzare per più club. Però poi quando entri dentro il mondo granata non puoi non rimanerne affascinato e innamorato. Lui non è stato da meno”. Nel suo sviluppo con le giovanili del Torino è sempre stato così forte o ha avuto un exploit a un certo punto? “Alessandro è sempre stato molto costante, ha sempre dimostrato di essere affidabile, una caratteristica che gli allenatori apprezzano. Il suo miglioramento è stato continuo stagione dopo stagione. Anche il quelle annate dopo è stato in prestito in Serie B, pur non essendo titolare inamovibile, ha saputo ritagliarsi il suo spazio grazie alla sua costanza”. Seguendolo durante gli anni delle giovanili se lo aspettava a questo livello? “Se devo essere sincero no, non fino a questo punto. Ero convinto sarebbe arrivato a diventare un professionista ma non fino a questo livello, non fino a uno scudetto. Invece mi ha sorpreso, proprio per quella sua costanza di cui dicevo prima. E comunque è un ragazzo di soli 25 anni, ha ancora buoni margini di miglioramento”. Il suo passaggio al Napoli invece era una cosa che, conoscendolo, poteva prevedere? “Prima c’era stato un interessamento dell’Atalanta, a gennaio del 2024, e ci eravamo sentiti. Poi quando in estate si parlava di Juventus e Napoli ero quasi sicuro al 100% della destinazione che avrebbe scelto. Intanto per le ambizioni del progetto di Antonio Conte, poi perché ero certo che un ragazzo con quei valori, per rispetto dei tifosi e per l’attaccamento al Torino e alla sua storia, difficilmente sarebbe andato alla Juve”.

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Simone Dagani