Tovalieri: "Ho pianto per Protti e per il Bari. Avrei potuto essere come Totti"

Il cobra non è un serpente Ma un pensiero frequente Che diventa indecente Era il 1980, ma mai Donatella Rettore avrebbe immaginato che una decina di anni dopo un altro 'Cobra' sarebbe diventato un pensiero frequente. Stavolta per i difensori di Serie A e Serie B. Sandro Tovalieri è stato uno dei massimi esponenti di quello che viene definito 'calcio di provincia': scuola Roma, agli ordini del 'Barone' Liedholm ma una carriera - da più di 150 reti - spesa tra Ancona, Arezzo, Genova, Bergamo, Avellino, Cagliari e, soprattutto, Bari. Dove ai gol del 'Cobra' seguiva sempre il 'trenino' con Igor Protti e Miguel Guerrero, in una delle esultanze simbolo degli anni in cui il calcio italiano era il più bello del mondo. Oggi dal calcio si è preso una pausa, almeno da quello giocato per concentrarsi sulla scoperta di giovani talenti, per dare una mano al movimento italiano "che non se la passa tanto bene". Forse non lo sarà per tanti difensori, ma per un numero ancora più grandi di tifosi e appassionati, il 'Cobra' Tovalieri è, ancora, un pensiero frequente. Che rapporto ha avuto con la Roma da bambino? “Sono nato e cresciuto a Pomezia. I colori giallorossi sono stati parte di me fin da piccolo. Ti lascio immaginare l’orgoglio e l’emozione per me e la mia famiglia quando sono stato chiamato nelle giovanili a 11 anni, anche se allora tutti pensavamo fosse solo un sogno quello di arrivare a giocare a certi livelli. Ho iniziato a fare tutta la trafila: arrivato agli allievi nazionali la mia vita stava lentamente cominciando a diventare quel sogno, figurarsi quando sono stato portato da Liedholm in panchina nell’anno dello scudetto. Indossare la maglia di cui sei tifoso fin da bambino è un’emozione bellissima”. Si dice che il ‘Barone’ la tenesse in grande considerazione. “Mi fece allenare qualche mese con la prima squadra, facevo su e giù dagli allievi nazionali. Avevo 16 anni, ero un ‘pischelletto’ che si allenava con grandi campioni. Liedholm parlava bene di me, intravedeva delle qualità. Tant’è che mi convocò per un Roma-Genoa, finito 2-0: era l’anno dello scudetto, c’era stata un’epidemia influenzale e mancavano sei o sette giocatori. Andai in panchina davanti a 85mila spettatori. Fu incredibile, molto emozionante. In quel momento ho capito che con tanti sforzi e tanti sacrifici il calcio sarebbe potuto diventare la mia professione e non più solo un sogno che avevo da bambino”. Va in Serie B, un anno a Pescara e uno ad Arezzo, per farsi le ossa. Poi torna alla Roma per la stagione 1985/86, in cui va vicinissimo allo scudetto. “In quell’anno abbiamo fatto un campionato bellissimo, una rincorsa fantastica alla Juventus, recuperando otto punti. Quando li abbiamo agganciati a due giornate dalla fine il calendario era anche a nostro favore. Purtroppo siamo incappati in quella disgraziata partita contro il Lecce , che ha fatto svanire un sogno che settimana dopo settimana stava diventando realtà e che avremmo meritato. È stata credo la più grande delusione della mia vita calcistica, attenuata leggermente un mese dopo con la vittoria della Coppa Italia. Però vincere uno scudetto avrebbe avuto un altro sapore. Ricordo l'amarezza di ogni giocatore, dei più giovani e anche dei più esperti, con quei 90.000 tifosi che piangevano sugli spalti, nonostante ci applaudissero perché avevano capito che avevamo dato tutto in campo. Una partita iniziata male e finita nel peggiore dei modi, come nessuno si sarebbe aspettato”. Aveva 21 anni, era alla prima stagione di Serie A, stava iniziando a entrare nei meccanismi della squadra. Eppure decise di andare ad Avellino. “Quando sei così giovane ancora non ragioni con la calma che ci vuole in queste situazioni. A me interessava solo giocare. Nella mia testa a Roma c’erano tanti grandi campioni: Pruzzo era a fine carriera, di certo sarebbe arrivata un’altra punta di livello. A quell’età era complicato cercare di propormi come titolare in una città e in un club così importante. Il mio istinto mi spinse ad andare via da Roma: nella mia testa sarei andato a farmi le ossa per un paio di stagioni e poi sarei tornato a 23/24 anni, dopo aver dimostrato che potevo essere il centravanti dei giallorossi. Purtroppo le cose non sono andate come previsto. Non sono più rientrato alla Roma. Però sono contento comunque della piega che ha preso la mia carriera”. Dopo Avellino ha giocato tre anni ad Arezzo e due ad Ancona, dove fece parecchi gol. E poi il Bari. Che legame ha con la città e la tifoseria? “Devo dire che sono stato bene in tutte le città in cui ho giocato. Poi, da attaccante, se fai gol, diventi in automatico uno degli idoli dei tifosi. Come ad Ancona, che non aveva mai conquistato la promozione in Serie A e dove ancora mi ricordano con affetto. Poi ci sono quelle destinazioni che ti colpiscono in modo particolare, non solo sotto l’aspetto calcistico ma anche sotto quello affettivo: i tre anni a Bari sono stati i più importanti e i più belli della mia carriera, quelli dove ho espresso tutte le mie qualità, vincendo un campionato di B, e dove ho rischiato di vincere la classifica cannonieri in Serie A. La gente mi ha rispettato come calciatore e come uomo, a distanza di 30 anni ancora mi ricordano con piacere e non può che essere motivo di orgoglio, considerando il tempo e i calciatori che sono passati. Io, Igor Protti, Joao Paulo siamo rimasti nel cuore dei tifosi, ci invitano sempre allo stadio o alle feste della società. E se ho modo di andare, vado sempre con grande piacere”. In questi anni nasce anche il suo famoso soprannome: il ‘Cobra’. Come? “Nasce dai compagni di squadra, per gioco. Stavamo cercando di trovare un soprannome per tutti, in base alle caratteristiche di ognuno, e quando siamo arrivati a me abbiamo pensato subito ai serpenti, perché ero un attaccante velenoso in area di rigore. Il più letale di tutti è il cobra, e da lì è rimasto. Al punto tale che alla fine è diventato quasi il mio vero nome: Tovalieri era sparito, per tutti ormai ero ‘Cobra’ . Ancora oggi mi chiamano così. E tutto sommato ha portato bene”. È nato prima il ‘Cobra’ o il trenino? Quell’esultanza che faceva sognare i tifosi del Bari. “Siamo lì, sono arrivati praticamente nello stesso momento. Quando Guerrero arrivò a Bari portò la novità di questa esultanza: ci mettemmo anche un po’ per imparare a coordinarci. Ma la cosa più importante è aver complessivamente regalato tante emozioni ai tifosi. Sono stati anni belli e indimenticabili per tutti. Ancora oggi ai tifosi del Bari il trenino è un simbolo, guai a chi glielo tocca”. La sua ultima stagione a Bari è stata la 94/95, dove riesce a segnare 17 gol, in quello che è il campionato più prolifico della sua carriera. Come mai quell’estata passa all’Atalanta? “Non dipese da me. Io a Bari avrei messo le radici, addirittura ci avrei chiuso la carriera. Dopo quella stagione ero uno dei pochi con un cartellino appetibile per la Serie A e la società decise di fare cassa durante il calciomercato. Lasciai a malincuore perché non c’erano i presupposti per continuare, a quel punto fu giusto dividere le strade. Non ti nascondo di avere pianto con la mia famiglia quando siamo andati via. A Bari mi sentivo di casa, la gente mi adorava. Fu un momento molto difficile”. Nella seconda parte della carriera non ha più trovato quella stabilità, cambiando diverse squadre. “Io sono stato un girovago nella mia carriera. Ho conosciuto un po’ tutta l’Italia. Quanto arrivano le proposte giuste, per esempio la Sampdoria che nella stagione in cui mi sono trasferito faceva la Coppa Uefa, è difficile non accettare. Va bene così. L’importante è aver lasciato un segno in ogni città. Sapere che i tifosi ti hanno rispettato e ti hanno voluto bene perché hanno capito che ogni volta che scendevo in campo davo sempre il meglio. Alla fine ai tifosi interessa l’impegno e l’attaccamento alla maglia, quello non mi è mai mancato”. Prima di lasciare il calcio però ha fatto in tempo a centrare un’altra promozione in Serie A, la terza, con il Perugia. “Fu una promozione un po’ inaspettata. Sulla carta eravamo fortissimi però la squadra aveva iniziato male nella prima parte di stagione. Io arrivai con il mercato di riparazione insieme ad Alessandro Melli, contribuendo a fare una grande rimonta fino a vincere contro il Torino nello scontro diretto. Poi li abbiamo trovati nello spareggio per la promozione, in palio c’era l’ultimo posto per salire in Serie A. Ho segnato il rigore decisivo dopo l'1-1 dei regolamentari: ricordo l’emozione di andare a esultare sotto la curva, anche perché è stato un goal alla fine decisivo per riportare il Perugia in Serie A. La gente era impazzita, abbiamo fatto una festa pazzesca. Mi sono sentito il re della città”. Ha avuto una carriera molto lunga, ha giocato con tante squadre diverse. Guardando indietro cambierebbe qualcosa? “Nella vita si può sempre fare di più. Rimango comunque soddisfatto della mia carriera. Quando ho giocato io in Italia c’era il miglior calcio del mondo, non era per niente facile mettersi in evidenza con tutti i grandi campioni, italiani e stranieri, che c’erano. Figurarsi segnare 17 gol a Bari o 13 a Cagliari. Ho segnato a grandi portieri, mi sono smarcato da grandi difensori. Oggi forse sarebbe più semplice. L’unico rammarico è forse di non aver indossato la maglia della nazionale. Durante il periodo a Bari sono stato vicino a fare un provino con Arrigo Sacchi ma poi non se ne fece più nulla, c’erano troppi campioni davanti a me. Nemmeno Igor Protti, che l’anno dopo fu capocannoniere della Serie A con 24 reti, riuscì a fare un singolo allenamento con l’Italia per la concorrenza che c’era in quegli anni”. Gol a cui è più affezionato? E gol più bello? “Quello a cui sono più legato è il primo in Serie A, con la maglia della Roma: 1-1 contro il Napoli, sul tabellino dei marcatori io e Maradona. L’emozione di segnare nella stessa partita con il più grande di sempre è qualcosa di indescrivibile, la porterò con me per tutta la vita, compresi i suoi complimenti. Il più bello credo invece di averlo fatto in un Bari-Genova del 1994 finito 4 a 1: cross sul secondo palo, palla che si alza di 30 metri, io che mi coordino e calcio al volo nell’angolino, lasciando Tacconi immobile. Come mix di tecnica e coordinazione è il migliore. Anche se alla fine fare gol è sempre bello. Quella volta fece due gol anche Protti”. In che rapporti è oggi con Igor Protti? Avete condiviso il campo per tanto tempo. “È un fratello per me. Igor è stato una presenza importantissima dentro e fuori dal campo. Quando ho saputo dei suoi problemi di salute non ti nascondo di aver pianto, perché gli voglio bene veramente. Non siamo mai stati gelosi l’uno dei gol dell’altro, festeggiavamo insieme, ci interessava solo il Bari. Con lui ho trovato un compagno di squadra e anche un compagno di vita: abitavamo vicini, le nostre famiglie passavano tanto tempo insieme. Un rapporto bellissimo che mi tengo stretto per la vita. Spero che mi dica al più presto possibile che ha sconfitto quel brutto male che lo ha colpito. Gli voglio bene”. Finita la carriera da giocatore ha allenato per tanti anni nelle giovanili della Roma. Chi di quei ragazzi è arrivato fino in Serie A? “Tanti di loro: Lorenzo Pellegrini, che è addirittura capitano della Roma, Valerio Verre, Alessio Romagnoli, Elio Capradossi. Solo per citarne alcuni. L’obiettivo di chi allena nel settore giovanile è far crescere questi ragazzi, per dare loro la possibilità di arrivare a giocare ai massimi livelli. La cosa più bella però è sapere di averli formati anche come uomini, non solo come calciatori”. Ha in programma di tornare alla Roma in futuro? “Sono sempre nel mondo del calcio ma per il momento con un ruolo diverso. Da qualche tempo ho avviato un’agenzia di procure e consulenze, mi piace molto andare in giro a scoprire giovani talenti. Ho dato tanto a questo mondo, a 60 anni l’età avanza e ho le ultime cartucce da sparare . Certo, alla Roma non si può dire di no, come dice Claudio Ranieri. Alla fine Trigoria è qui a due passi…” A proposito di Claudio Ranieri. Le piace il nuovo corso tecnico con Gasperini in panchina? “Mi piace molto. Gasperini negli anni all’Atalanta ha dimostrato di essere una garanzia. Sono convinto che abbia le caratteristiche e le idee per fare bene, basta dargli tempo, a Roma non è facile vincere subito. Vedo una proprietà ambiziosa che sta cercando anche di inserire figure importanti nella società, penso al ritorno di Massara. Purtroppo il fairplay finanziario ha impedito di spendere a piacimento, però negli ultimi anni sono arrivati allenatori bravi e grandi campioni, come per esempio Lukaku e Dybala. Si farà anche lo stadio nuovo. Ci sono tutti i presupposti per aprire un ciclo importante. Per il momento l’obiettivo è tornare in Champions, poi per il futuro ci sarà modo di alzare l’asticella”. Lo scorso febbraio ha compiuto 60 anni. Come per tutte le cifre tonde, si può provare a fare un bilancio. Che carriera è stata? “È un bilancio positivo. Non direi ottimo ma più che discreto. Forse mi darei una chance in più con la Roma. Magari sarei rimasto a vita come ha fatto Totti. Ma con il senno del poi è troppo facile, magari non avrei giocato così tante partite e segnato tutti quei gol. Prendo tutto ciò che ho fatto di buono, soprattutto l’affetto dei tifosi che anche a 60 anni mi ricordano con piacere. Ora è il momento di guardare avanti e di cercare di fare qualcosa per i giovani, visto che fanno molta più fatica di un tempo a emergere e il calcio italiano non vive un buon momento. Certo, sarà molto difficile rivedere un Totti, un Del Piero, un Baggio”. E un Tovalieri quando lo rivederemo? “Oggi il calcio è cambiato. Di attaccanti da area di rigore, tipo me o Inzaghi, ce ne sono pochi. Si fa fatica a trovarne perché i ruoli si sono rivoluzionati: una volta il ‘9’ era solo un centravanti, oggi si spendono per fare i terzini o per aiutare i difensori centrali sulle palle alte. Lautaro Martinez, Immobile e Retegui sono dei cecchini sotto porta. Ogni tanto incappano in qualche errore, ma chi non li fa? Tra i nuovi mi ha ben impressionato Ferguson della Roma, spero riesca a far vedere anche in campionato quanto ha dimostrato in queste prime settimane”.

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Tovalieri: "Ho pianto per Protti e per il Bari. Avrei potuto essere come Totti"

Simone Dagani