"Bologna è una regola": fuoriclasse, visionari, anarchici di talento

Bologna e il Bologna. Esistono città con un respiro solo. Succede, ed è questo il caso, quando un pallone rotola ovunque, negli umori popolari, tra le pieghe della storia. Quella del Bologna scintilla per la sua dimensione epica, tra figure mitizzate e vicende da romanzo, richiamo irresistibile per chi, tra gli artisti, anche dal calcio sceglie di farsi ispirare. Una storia che il Bologna di Saputo e Italiano sta coraggiosamente aggiornando. Un'impronta l'ha già lasciata. Nella contabilità dei trofei. E nella coscienza di una città la cui passione ha radici lontane. Karma Anche le città hanno un karma. Ce l'ha il centro di Bologna, con il suo colore rosso, le case di mattoni, la sua bellezza così poco spettacolare e invece tanto profonda nella sua quiete apparente. E il karma ce l'ha anche la sua squadra di calcio, che ha fatto tremare il mondo fino alla metà degli anni Sessanta, per poi restare consegnata in eterno a una foto di gruppo, in cui spicca la pelata lucida e infallibile di Ezio Pascutti Tratto da ‘Quel gran pezzo dell’Emilia. Un dribbling a Bologna’ di Edmondo Berselli Il karma di Bologna. Impasto di poesia e sostanza. Con i portici secolari, l'Università più antica, le mense popolari, gli spazi per l'infanzia, la partecipazione civile, l'attitudine all'accoglienza. È vero, Bologna è una regola, tatuata nel sentimento di chi la respira, di chi la racconta. Il karma del Bologna, l'intensità del suo romanzo. Dai sette scudetti alla recente, ritrovata nobiltà, con l'approdo in Champions firmato Motta, il successo in Coppa Italia con Vincenzo Italiano, primo squillo della sua gestione, segnale potente di un nuovo Rinascimento. Il fuoco dell'ambizione tenuto basso, sotto controllo, nessuna smania di dilatare gli orizzonti. Inseguendo il gioco, un modello sostenibile, la più intima connessione emozionale con la propria gente. Il cui senso di comunità insiste nell'imporsi ad ogni occasione. Oggi, come allora. Nel dolore, con il toccante pellegrinaggio a San Luca a sostegno di Mihajlovic in lotta, nell'orgoglio, con i fremiti selvaggi scatenati dall'ultimo trofeo. Bologna, un popolo, la stessa anima. Avventura gonfia di fierezza e colpi d'ingegno. In una terra, l'Emilia, di motori e musica, di cervelli al laser e campioni d'ironia, di sognatori e di creativi, di cucina grassa e italiani di classe. Nel calcio, Angelo Schiavio resta lassù, solitario, inarrivabile, perché lui è il Bologna, e non solo per i gol, oltre 250, e per gli scudetti, 4, negli anni in cui la sua squadra si esaltava anche in Europa. Una grandezza, la sua, figlia anche di una etica tanto semplice quanto rivoluzionaria. Nella sua lunga vita in rossoblù, Schiavio non chiese mai di essere pagato. Considerava l'attività familiare, marchio storico in città di abbigliamento e tessuti, la sua principale occupazione. “Fare il centravanti del Bologna – spiegava – è soltanto un onore”. E in base alle necessità di quello che riteneva il suo vero lavoro, pianificava la carriera di fuoriclasse part-time. E fu persino capace, nel '34, di diventare Campione del Mondo, sua la rete decisiva nei supplementari della finale con la Cecoslovacchia. Il ‘gol dello zoppo’, tramanda il mito, Schiavio lo realizzò da infortunato. Svenendo sull'erba a prodezza conclusa. La lista dei fuori categoria si allunga sino a Orsolini, passando per Pascutti e Biavati, Pagliuca e Signori, Bulgarelli e Baggio, e molti altri ancora. E col mitico Villa, nel pantheon, in rappresentanza dei grandi simboli proletari. Bologna è una regola, appunto, nessuno si senta escluso. E poi il karma di chi, in panchina, anche nel ricordo, insiste nel fare storia a sé. Come Fulvio Bernardini, in arte ‘Dottor Pedata’, libero pensatore e tattico sopraffino, teorico di un football solare come la sua natura, lo specchio del suo Bologna Campione d'Italia, la cui cifra estetica, raffinatissima, si rivelò regola implacabile, ma imposta a tutti col sorriso. Fulvio Il Bologna del '64 era la squadra della felicità. Metteva già allegria scandirne i primi nomi, Negrifurlanispavinato, incipit recitato tutto d'un fiato, come in altre celebri filastrocche del calcio, Sartiburgnichfacchetti e Zoffgentilecabrini. Quel Bologna giocava bene, molto bene, e non poteva essere diversamente con Bernardini in panchina. Ed era anche un gruppo ricco d'umanità. Allo stadio si andava per godere, non per picchiare i nemici. Era un altro mondo, era un altro calcio. Tratto da: ‘Non gioco più, me ne vado. La squadra della felicità’ di Gianni Mura Una recita, la sua, da primo della classe. Qualunque fosse la parte in commedia. E incendiata da una strepitosa aneddotica. Per dire, nella Nazionale di Pozzo, da regista arretrato, Fulvio Bernardini disponeva di un senso del gioco così sinfonico, sinistro felpato, soavità di tocco, da mettere in soggezione persino i compagni. Al punto da finire in tribuna, per decisione del Ct, sublime paradosso, per manifesta superiorità. Ma da giocatore lasciò il segno anche lontano dagli stadi. E non solo per la laurea in scienze economiche. Una volta, al volante, insultò il Duce, che viaggiava a bordo dell'auto che con una manovra incauta tamponò la sua nel traffico romano. “Criminale!”, lo apostrofò Mussolini dal finestrino. Del resto, Bernardini, era fatto così, l'arte della diplomazia non era il suo pane, a volte l'istinto ne pilotava slanci, e qualche rara ruvidezza. Beh, a salvargli carriera e patente, l’intercessione dell'amico Monzeglio, il terzino due volte Campione del Mondo e scudettato col Bologna nel '29, in quegli anni vicino al Duce, era il suo maestro di tennis. A calmare le acque un doppio da lui organizzato a Villa Torlonia, ma con Monzeglio sempre attento a frenare il feroce agonismo del compagno. Ma Bernardini è stato soprattutto uno dei più grandi tecnici italiani del dopoguerra. Affabulando, seduceva. Insegnando, persuadeva. E a Bologna realizzò il suo capolavoro, affidando ai tanti piedi buoni la sua visione progressista. Assieme alle numerose, sottili astuzie alla base dei successi. La più famosa resta quella nello spareggio scudetto con l'Inter. Il terzino Capra finta ala, con l'11 sulla schiena, al posto dell'infortunato Pascutti, e spedito in marcatura su Mariolino Corso. Intuizione destinata a sparigliare le carte, a indirizzare il match verso il 2-0 finale siglato da Fogli e Nielsen. Ecco, Bernardini è stato questo, e molto altro ancora. Anche il Ct che spianò la strada a Bearzot verso la gloria eterna, reclutando i migliori prospetti del calcio italiano, all'indomani dell'apocalisse azzurra nel Mondiale '74. Tra le sue virtù, lui che per primo fiutò la differenza di Meazza, anche quella di cogliere il talento al primo sguardo. Come ribadì nel modo più clamoroso nella sua avventura bolognese. Eredità preziosa per chi in quel solco avrebbe successivamente insistito. Vincenzo Le chiavi della città a Vincenzo Italiano? “Gli diamo tutto”, aveva garantito il sindaco di Bologna Matteo Lepore, mentre all'Olimpico la squadra alzava al cielo la Coppa Italia, interrompendo una carestia di trofei lunga mezzo secolo. Dallo scorso Maggio Italiano fa parte della Hall of Fame cittadina, con un patrimonio di gratitudine accumulato impossibile da sperperare. Anzi, tempo di perfezionare l'accento, di impadronirsi delle espressioni tipiche e potrà proclamare fiero: “A san bulgnais anca me”, ora son bolognese anch'io. Tratto da: ‘Il dizionario di Italiano di Enrico Brizzi Prima di Vincenzo Italiano, erano stati Fabbri e Pesaola a conquistare la Coppa Italia. Con lo spirito bohemien del Petisso a spettinare la Bologna del '74, dove una donna, prima nel paese, vinceva il concorso di vigile urbano e i trasporti pubblici, in certe fasce, diventavano gratuiti. Carezze, nel cuore degli anni di piombo. Trofeo alzato da capitan Bulgarelli, quasi al passo d'addio, dopo il successo ai rigori sul Palermo, con la battuta decisiva di Eraldo Pecci. Savoldi, il bomber, l'anno dopo sarebbe andato al Napoli per due miliardi, exploit di mercato tuttora spesso evocato. Con l’attesa per un'altra grande notte, destinata a durare più di cinquant'anni. È opinione diffusa che il Bologna sia diventato, nel gioco, nei comportamenti, riconosciuto modello di stile. Tanti aspetti lo certificano, al di là del decollo stagionale in chiaroscuro. E l'impressione è che Vincenzo Italiano riassuma in sé le migliori qualità di chi nel suo ruolo ha segnato la storia del club. E che lui riscrive secondo la sua visione. A colpire, nella sua biografia, è una sfumatura, marginale solo in apparenza. Il pallone chiamato “sua maestà” nella tesi al supercorso di Coverciano. Devozione coltivata da centrocampista di stampo classico, a vent'anni già governava la manovra del Verona, e amplificata da tecnico avanguardista, partito dal basso e arrivato in cima, con lo Spezia issato in A per la prima volta, e la Fiorentina convinta, a furia di finali raggiunte, della sua nuova credibilità internazionale. “In una squadra”, il suo mantra, “tutti devono sentirsi registi”, possesso, recupero costruzione, tutte responsabilità da condividere. Come modello il Barcellona, nella sua versione più nobile, originaria, quella figlia del magistero di Cruijff. L'archetipo del calciatore totale. E poi l'intensità, valore di riferimento, l'aggressione costante, strategia preferita, il coraggio, qualità imprescindibile. Usando il suo, nel dopo Motta, Italiano aveva cambiato il Bologna, non curandosi del diffuso scetticismo, ed elaborando il distacco di uomini importanti. E mai ha smesso di far crescere il gruppo sul piano individuale, usando l'empatia come password per accedere ovunque, soprattutto nelle teste dei suoi, anche dei più riottosi. Italiano vuole sempre flirtare con l'emozione, urgenza quasi fisica, quella che gli procura una giocata codificata o la gioia della gente in piazza. Per questo a tratti alza la voce, è accaduto contro il mercato lungo in eccesso. E insiste, a bordo campo, nello svelare semplicemente sé stesso, senza trucchi né maschere, la passione come motore di tutto, il mestiere vissuto in libertà. In fondo, l'anima del giocatore continua a pulsargli dentro. Lui che al primo gol in serie A pagò con l'espulsione l'eccessiva esultanza sotto la sua curva. Ora, ad accenderlo, è la relazione simbiotica col Bologna. Che si evolve, si struttura, a prescindere da tutto, anche dai risultati, a sua immagine e somiglianza. E con il gusto per l'imprevedibile, per l'effetto sorpresa, che qualcun altro, tra i bolognesi illustri, aveva elevato ad arte nel suo tempo, ispirato anche dalla grazia, dal mistero di Roberto Baggio. Lucio Lucio Dalla visse il successo con gioiosa visibilità, favorito anche dalla simbiosi con una città che sa essere affettuosa e avvolgente con i suoi artisti, ma altrettanto discreta. A Bologna Lucio era ovunque, in piazza, nei locali, allo stadio, tra la gente, e ovunque è rimasto, un gattone sui tetti, una voce sotto i portici, uno swing che risale i colli. Tratto da ‘Il venerdì. Ottanta voglia di quei due’ di Michele Serra Tredici anni fa, a San Petronio, per l'ultimo saluto, sembrò che la città intera lo tenesse in braccio. E che l'iscrizione sulla lapide, alla Certosa, i versi conclusivi di ‘Cara’ , uno dei suoi brani più amati, proprio a Bologna fosse rivolta. Dolci suggestioni, con Dalla giocano sempre a rincorrersi. Oggi, e per sempre, la sua voce rimbalza ovunque, Dall'Ara compreso, dove, idealmente, continua a fare il tifoso in tribuna, gli amici, ogni anno, rinnovano la tessera a suo nome. Gesto poetico, come lo era il legame con la città, con i suoi riferimenti, per dirla con Lucio, “lo stadio, il trotto, il resto del Carlino, le luci di San Luca”. Un immaginario, il suo, affollato da Nuvolari e Senna, Maradona e Valentino Rossi, assieme alle leggende della Virtus, il basket era il suo luccicante parco giochi, ma l'unica stagione bolognese di Roberto Baggio, 22 gol e ricami a pioggia, stregò Dalla, spingendolo a tuffarsi, la citazione è d'obbligo, nel suo “materasso di parole, sempre a portata di mano”. Non può stupire che uno come Baggio sia piovuto nelle canzoni, la cultura popolare anche di questo si alimenta, di poesie scritte con i piedi. E quando quelle del Codino si esaurirono, la nostalgia, a Bologna, non risparmiò nessuno. Figurarsi gli artisti, visto il comune territorio d'elezione. Chissà come Dalla vivrebbe oggi il nuovo ciclo bolognese, senza miti consacrati, con una squadra orchestra fondata sulla cooperazione, il pensiero collettivo, un'idea di modernità orgogliosamente rivendicata. Di certo Lucio, da jazzista, subirebbe il fascino di certe elettriche improvvisazioni. Quelle che sulle fasce trovano terreno fertilissimo. E che il Bologna, nella sua storia, ha sempre affidato a interpreti di grande livello. Vertigine pura, come le folgori di Dalla, come le sue meraviglie incise nella memoria popolare. Riccardo Stefano Benni è stato una buona ala destra. “Solo che allora – spiegava lo scrittore – i terzini non erano fluidificanti, ma desertificanti. Pesavo 60 chili, per metà del tempo mi facevano volare. Nel tempo restante segnavo”. Benni era magicamente leggero anche quando scriveva. Ora è volato via. E noi ci terremo stretti il calcio dei suoi libri. Piangono “il tennico”, l'esperto di pallone che studia la Gazzetta, il playboy che racconta balle, il nonno che sorride alla tv spenta e tutta la variegata umanità del suo meraviglioso Bar Sport. Tratto da ‘Il bel calcio di Benni’ di Luigi Garlando Il dribbling, arte ribelle, da calcio di strada, da estrosi di fascia, dentro c'è tutto, leggerezza del gesto, profumo d'inganno, elogio della fuga. Scartare, in fondo, è l'essenza del gioco. Farlo con classe, farlo sulle corsie, può diventare letteratura. E a Bologna da tempo lo sanno molto bene. Del resto, il dribbling, a garantirlo era Carmelo Bene, appartiene alla lista dei piaceri carnali. Cinquant'anni fa, nel settembre '75, appena due mesi prima della sua tragica fine, l'ala destra Pierpaolo Pasolini, grande tifoso del Bologna, giocava, nello stadio di San Benedetto del Tronto, la sua ultima partita. Fu quello anche il suo estremo tentativo di riprodurre alla perfezione il celebre ‘doppio passo’ alla Biavati, colpo complesso, diabolico, di cui Pasolini era ossessionato, ne riconosceva l'intrigante quota eversiva. Anche Stefano Benni sprintava all'ala, e come Pasolini si ingegnava attorno a funamboliche finezze. Partiva dalla linea laterale per costruire mondi fantastici. Benni armava la fantasia, usandola contro il potere. Fuggiva in dribbling, surfando su parole sempre nuove. Era quasi inafferrabile, tra paradossi grotteschi e neologismi beffardi. Quasi, appunto. E poi amava, assieme all'idolo Pascutti, anche Paride Tumburus, roccia di quel Bologna Campione, per la sua ostinata abnegazione. Giurava: “L'ho visto entrare su un centravanti e sullo slancio abbatterne altri due. Più che uno stopper, un bob”. Era quella la dimensione che lo affascinava. Benni graffiando, ipnotizzava. Attirandoci dove il suo genio decideva. Nel sovversivo campionato di Pallastrada o dentro lo zoo stralunato del suo mitico Bar Sport. Se il Bologna è diventato ‘Orsolandia’, e Riccardo il suo simbolo, è perché la sua bellezza è sempre sulla fascia che sceglie di svelarsi. E spesso in grande stile. Ad Orsolini basta poco per timbrare la sua diversità, una finta, un tacco, una sterzata, un controllo orientato, un sinistro affilato. Gode a dar fuoco all'istinto, per questo, a volte, dal nulla, affiorando anche da pause insolenti, inventa il numero che abbaglia, che fa crollare lo stadio. Il calcio di chi arriva dagli sterrati, dai cortili, tra vetri rotti e ginocchia sbucciate. E da una perentoria evoluzione, da solista sfrontato a rispettato capobranco. Ciò che oggi Orsolini rappresenta per il suo club, per la sua gente. Pasolini faceva il calciatore per difendere la fisicità della vita, Benni per cogliere, del gioco, del suo contorno, il lato più ironico, parodistico. Correvano sulla fascia, il loro defilato affaccio sul mondo. Lo stesso di Orsolini, in loro compagnia tra gli anarchici di talento. Che spesso, in varie forme, finiscono per segnare la storia. E anche in questo, Bologna è una regola.

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Giorgio Porrà