L’uomo dell’impossibile stupirà ancora

Nel calcio, nello sport in genere e anche nella vita c’è un solo modo per dimostrare di essere un vincente: vincere il più spesso possibile, a tutte le latitudini. Antonio Conte, leccese trapiantato nella Torino juventina, lo ha imparato presto da giocatore prima e quindi da allenatore, ma ha poi dimostrato di non resistere negli steccati che dividono il mondo in territori troppo angusti. Puoi essere riconosciuto come il più forte da piccoli, giganteschi dettagli: per esempio conquisti una promozione in serie A allenando da salentino ‘la Bari’, oppure se restituisci lo scudetto all’Inter dimenticando di essere stato tante volte dall’altra parte con la maglia bianconera. Ha pure conquistato la parte più chic del cuore londinese, dominando la Premier con il Chelsea o provando l’impresa impossibile con il Tottenham. Ma il vero miracolo è questo completato oggi all’ultima giornata: cancellare il campionato più brutto dell’era de Laurentiis e riportare il tricolore sulla maglia che per generazioni era stata un po’ la bandiera dell’altra Italia, l’alternativa ai soliti noti. Conte ha vinto il titolo italiano con la terza squadra: il Napoli, dopo l’Inter e dopo la Juventus. Nessuno era riuscito a collezionare un bottino più prezioso e variegato, ma l’ultima impresa è stata la meno scontata, la più bella e la più sofferta. Vincere nello stadio consacrato a Diego Maradona, il giocatore più forte di sempre, lascia un sapore diverso, più intenso. Qui il trionfo è celebrato come non accade da nessuna altra parte; prima che passasse l’Imperatore Diego ci avevano provato in tantissimi lungo un percorso di sessantuno anni costellato di occasioni sfiorate, di ricostruzioni fallite e di tantissime stagioni di assestamento. Fino ad allora, per custodire i trofei vinti nella sede di Piazza de’ Martiri, il salotto buono di Napoli, non era mai stata necessaria una stanza della gloria. Ora siamo arrivati a quattro scudetti. Meno della metà di quelli conquistati dal Genoa, giusto per rendere la misura delle proporzioni, ma i tempi sono cambiati, la svolta avvenne il 5 luglio del 1984, il giorno dello sbarco al San Paolo del Grande Argentino. Il suo immenso talento bastò a invertire la tendenza, ma non ancora a convincere anche i più grandi ad accettare la sfida napoletana. Non c’era riuscito Ferlaino a essere tanto ammaliatore, sicuramente non quanto è stato Aurelio de Laurentiis: con lui sono arrivati Benitez e Ancelotti, ma nessuno ha replicato le vittorie dell’era maradoniana firmate da Bianchi e Bigon, poi è stato Spalletti l’allenatore del terzo scudetto e Conte ora del quarto. La prima fila del merito è stata rispettata, anche se giustizia e valore avevano proposto la candidatura di Maurizio Sarri. La scorsa estate, dopo la stagione più disgraziata della ventennale gestione de Laurentiis, era stato scelto Conte per gestire un progetto tanto ambizioso da sfiorare la follia: investimenti mirati, tanta applicazione e assoluta autonomia. Una ricetta facile solo in apparenza: come condizione irrinunciabile l’allenatore ha posto l’isolamento della squadra. Tutti nel laboratorio di Castel Volturno, il centro sportivo dove ha fatto notizia soprattutto un’assenza prolungata: il presidente s’è visto pochissimo, e si è sentito ancora meno. È stata la vera sorpresa dell’anno, la mossa tattica studiata da Conte, il gol più imprevedibile segnato dal produttore finora abituato a trattare chi siede in panchina come un tempo faceva con i registi: discorsi alla pari fatti tra professionisti del cinema. Ma il calcio è un’altra cosa, non lo sostiene solo Conte, ma i suoi predecessori forse avevano una forza di resistenza inferiore. La differenza comunque s’è vista, e la leggenda sull’allenatore capace di ottenere anche l’impossibile ne esce ancora rafforzata. Ma non si fermerà qui, le sorprese continuano.

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