L'Inter di Inzaghi e quella del Trap

l'editoriale
Massimo Corcione

Massimo Corcione

Il significato del 20° scudetto dell'Inter e i paragoni fra la squadra di Simone Inzaghi e quella dei record di Giovanni Trapattoni.

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E se ora si aprisse un’era a strisce nere e azzurre? La suggestione che possa cominciare un ciclo vincente all’Inter l’hanno vissuta spesso, l’ultima volta quando sembrava averlo aperto Conte, dopo l’interminabile serie di vittorie targate Juventus. Allora fu l’allenatore a dimostrare di non credere con convinzione all’ipotesi di un dominio interista, come era successo con Mourinho la notte stessa della conquista del Triplete, nel 2010. Si chiuse a Madrid una sequenza comunque eccezionale di cinque titoli nazionali che saranno ricordati come conquiste del leader Moratti, ma con due guide tecniche: Mancini prima e Mourinho poi. Il primo scudetto arrivò per sentenza e il dettaglio toglie un po’ di fascino al titolo che resta però assolutamente legittimo.

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Ma questa vittoria, datata 2024, evoca paragoni più remoti, immagini che affondano nel passato. Il riferimento lo ha fatto a Sky Sport24, aspettando il derby, Fabio Monti, cantore delle imprese interiste per il Corriere della Sera e ora osservatore interessato. Sicuramente un punto di riferimento: “Io ricordo con piacere quella squadra del 1989, soprattutto per il rapporto che riuscivamo a tenere con i protagonisti”, e mentre Monti parlava da piazza Duomo riaffiorano le sagome di Matthaus e Brehme nei viali di Appiano: le urlate in dialetto lombardo del Trap; i silenzi di Bergomi; il godimento da tifoso di Zenga

Quelle poche parole di Fabio hanno riportato indietro nel tempo di trentacinque anni: presidente era Pellegrini che si fidava delle perizie da calligrafa della moglie quanto delle relazioni dei suoi scouting-man. Quella formazione che non potevi non ricordare (sedici titolari, lontanissimi dalle folle che scendono in campo oggi) era stata costruita personalmente dall’allenatore: Trapattoni aveva convinto Matthaus e Berti ad accettare le proposte di ingaggio, facendosi garante del progetto. 

Il destino dell'Inter del Trap

Solo due sconfitte in tutta la stagione, appena diciannove gol subiti, undici lunghezze di vantaggio sul Napoli di Maradona, record assoluto di punti: cifre che raccontano di un trionfo, quasi mai salutato da un’uscita dallo stadio di tifosi pienamente soddisfatti. Fu questo il destino dell’Inter: Trapattoni, molto prima di Allegri, invano tentò di spiegare che il fine del gioco era vincere più partite degli avversari. Nei regolamenti non erano previste altre prescrizioni. Ma (come per Allegri con i tifosi della Juventus) le giustificazioni non furono mai accettate dai puristi, sedotti dallo spettacolo che con frequenza molto più puntuale regalavano, in Italia e specialmente all’estero, i dirimpettai milanisti. 

Il trio tedesco e quello olandese

L’interpretazione più accettata riduceva la differenza alla mentalità che divideva il mini blocco tedesco dal trio olandese; la santificazione di Sacchi era ancora agli inizi, il numero degli scettici resisteva aggrappato a vecchi luoghi comuni legati all’italianità del gioco predicato da Trap. Nell’Inter di quest’anno si guarda al passato unicamente quando si parla di Inzaghi, italianissimo allenatore che in campo ha sempre giocato per fare gol. Eppoi, l’interista ci sta a soffrire, come se la genetica lo imponesse. Nostalgia a parte, l’Inter del nuovo secolo diverte di più: Lautaro e Thuram hanno minore propensione a comprendere gli affanni degli altri. Dio perdona, loro no. La festa può cominciare, lo scudetto numero 20 è servito.