Inter, lo scudetto della seconda stella nato dall'amicizia e dal gruppo

stella di gruppo
Alessandro Bonan

Alessandro Bonan

Una squadra in cui non domina l'ego dei singoli ma il gruppo: una caratteristica che l'Inter di Inzaghi ha messo in mostra in ogni partita della stagione. Un gruppo basato sull'amicizia e sull'altruismo, sull'obiettivo comune prima di quelli personali e individuali

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L’amicizia è come un rivolo d’acqua che s’infrange sulle mani, è difficile da trattenere, sfugge sempre tra le dita. E’ un sentimento caratterizzato dall’amore e dal rispetto reciproco, impulsi che nascono, si consolidano ma spesso muoiono anche improvvisamente. In una squadra di calcio, l’amicizia dovrebbe essere importante, anzi fondamentale, eppure ci sono stati esempi nella storia di questo sport in cui la dissonanza, perfino l’avversione tra uomini con la stessa maglia ha portato alla conquista di un traguardo prestigioso come lo scudetto. Viene in mente la mitica Lazio del 1974, grande e maledetta, come l’abbiamo raccontata su Sky. E forse altre volte sarà accaduto: gruppi vincenti, divisi in fazioni, di cui non abbiamo mai conosciuto la vera natura, rimasta nascosta sotto il velo nemmeno troppo sottile dell’ipocrisia. 

approfondimento

Su Sky la miniserie sulla Lazio del 1974

Il calcio totale

L’Inter che è arrivata a conquistare il tricolore però non ci induce al rischio di equivocare, la sua natura interiore è chiara e si manifesta attraverso l’architettura del gioco che ha sempre giocato. Perché come diceva un grande filosofo, parecchio frainteso su certi argomenti, “l’amicizia è nella realizzazione di sé mentre si collabora alla realizzazione dell’altro”. E questo meraviglioso pensiero si sintetizza nel modo in cui la squadra di Inzaghi si è sempre mossa sul campo, srotolando azioni come una pergamena che si dispiega, partendo dalla difesa all’attacco, in linee verticali, frutto di una indubitabile sincroniaAiuti continui, sovrapposizioni fisiche e del pensiero, altruismo totale, come un prisma di specchi dove ognuno si rifletta nell’altro e affermi se stesso senza pronunciare mai la parola io. Tradotto in lingua, calcio totale, nel quale l’egocentrismo è solo un attimo di evasione, l’eccezione che appartiene alla regola. 

L'amicizia che non si vede

Ecco perché è giusto parlare dei fratelli Thuraro, Thuram e Lautaro. Sempre a caccia uno dell’altro, mossi insieme da una radice di compatibilità solitamente appannaggio della genetica. Ecco perché Barella ha costantemente presenziato l’ovunque, come un aggregante prezioso, in grado di offrire consistenza a tutto il centrocampo. Ecco perché Inzaghi è riuscito a unificare due righe distanti, quella di destra e quella di sinistra, con Dumfries o Darmian e Di Marco o Carlos Augusto, con lanci perentori e diretti, ma potremmo chiamarli tagli, per come hanno ferito la resistenza degli avversari, sorpresi da tanta velocità nel ribaltare l’azione da un lato all’altro. Ecco perché Chalanoglu, piuttosto anonimo con addosso i colori dell’altra Milano, è sembrato quasi da subito più bello ed elegante, messo al centro della festa da un allenatore che evidentemente ne ha colto quasi da subito la predisposizione a correre soprattutto per tessere, anziché farlo per altri scopi. Ecco perché in difesa, pur cambiando spesso i protagonisti, spostati a volte come pedine della dama, l’Inter ha preso meno gol di tutti, comandati da un portiere che, ultimo arrivato, sembrava lì da sempre. Questa è l’amicizia che c’è ma non si vede, non gli abbracci dopo una rete segnata o una partita vinta, iconografia di facili passioni. Tralasciando le inevitabili e già riferite eccezioni, non esistono vittorie così grandi, senza sguardi sinceri, in grado di superare le timidezze, ridurre le distanze, e come una farfalla senza meta posarsi sopra il cuore delle persone. Perché è anche con il sentimento che si vince uno scudetto. E dove se ne andrebbe il cuore di un qualsiasi giocatore, se dentro una partita si ritrovasse a battere da solo, senza neanche il conforto di un amico?