Call My Agent: com'è cambiato il procuratore nel calcio

C’era una volta il procuratore alla Mino Raiola, nato pizzaiolo e diventato punto di riferimento per l’atleta grazie a consigli di vita e pallone. Non è un caso che personaggi come lui siano emersi senza una vera e propria conoscenza della materia, ma basando il rapporto di fiducia con il giocatore su un feeling costruito a tavola o in un negozio: come Alessandro Lucci, oggi grande protagonista del mercato con la sua WSA, ieri ex commesso di lusso nelle boutique di Versace a Roma, dove si conquistò la stima e l’amicizia di Boksic, all’epoca stella della Lazio. Amicizia e credibilità, il confidente che diventa agente e a cui il giocatore declina ogni responsabilità del suo presente e futuro. Le trattative con i club si aprono e chiudono con una stretta di mano e magari lanciando un contratto in aria come Federico Pastorello e il famoso passaggio di Milito dal Real Saragozza al Genoa. La multimedialità ha stravolto tutto, l’agente si è trasformato in vere e proprie… agenzie, che hanno il compito di prendersi cura del calciatore in ogni aspetto della vita personale e professionale. Persino troppo. C’è il mental coach per aiutare lo sviluppo emotivo, il legale per sistemare ogni dettaglio dei vari contratti, il travel manager per organizzare viaggi e trasferimenti, prenotare voli e vacanze, trovare casa e scuola per i bambini nelle nuove città, il promotore finanziario per curare gli investimenti. E una serie di altre figure che si sostituiscono in tutto e per tutto alla figura del personaggio in questione, per scriverne i post su Instagram e controllare le domande delle interviste programmate. Più filtri e barriere che mai, sulla scia di club blindati nella loro comunicazione a senso unico, senza concessioni alla creatività e personalità di giocatori che assomigliano sempre più a robot telecomandati a distanza. Anche i ragazzini di tredici e quattordici anni, oggi, vogliono avere il procuratore. Le rispettive famiglie vengono travolte e influenzate da messaggini e progetti illusori di futuri dorati, altre fanno tutto da sole e sono persino disposte a pagare per vedere i propri figli giocare nei settori giovanili o nelle categorie di livello più basso. ‘Call my agent’, sì. Ma per fare carriera, a qualsiasi costo e senza pudori. Basta una panchina di troppo per scatenare le furie contro allenatori e responsabili o un video ben montato per creare il nuovo Yamal dai dribbling fantascientifici. Una cruda realtà, senza cura alcuna per valori e sacrifici, dove a farne le spese sono proprio gli stessi ragazzi, soprattutto quelli che hanno meno carattere e si rifugiano in alibi e scuse, nel peggiore dei casi addirittura finendo nel tunnel della depressione. Agli agenti o agenzie del futuro, un monito che viene dal cuore: aiutate i ragazzi, tirate fuori quel che padri e madri magari non riescono quando trovano davanti un muro di gomma, fateli crescere in un mondo di sani princìpi. La vostra è una missione, non siete solo una macchina da soldi e realtà virtuali. E se i giocatori vi chiameranno, lamentandosi per una tribuna ritenuta ingiusta o uno stipendio più basso rispetto al compagno di pari livello, non giustificateli senza motivo. Impegnatevi a tirar fuori la parte più nascosta di una personalità determinata a reagire. Vi ringrazieranno, senza lamentarsi più. E forse vi richiameranno solo per ricordarvi l’appuntamento in tv, dove danno quella serie sugli agenti dello spettacolo. Diventati una famiglia, proprio come la vostra.

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Gianluca Di Marzio