Berzin: l'ex Zar del Giro che ha preferito le quattro ruote
CiclismoL’INTERVISTA. Il russo dominò l’edizione del 1994, battendo campioni del calibro di Indurain e Pantani. Negli anni seguenti poche soddisfazioni e l’apertura di un famoso autosalone sulle colline dell’Oltrepò Pavese: “Devo tanto all’Italia”. GUARDA LE FOTO
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di CLAUDIO BARBIERI
da Bosnasco (Pavia)
Quando arriviamo nell’autosalone di Bosnasco, piccola frazione incastonata tra le colline dell’Oltrepò Pavese, Evgenij Berzin è in officina ad ammirare una delle sue ‘creature’. Un signore ci accoglie e lo chiama: “Genio, vegna chi”, in rigoroso dialetto locale. Lui, Genio, arriva con il solito caschetto biondo e degli occhi di ghiaccio che solo uno nato sul confine tra l’ex Unione Sovietica e la Finlandia può avere. Ci accoglie nel suo ufficio, la sua seconda casa, in cui non mancano riferimenti alla vittoria nel Giro d’Italia del 1994 e ai due giorni in maglia gialla nel Tour de France del 1996.
La chiacchierata è interrotta da qualche telefonata e anche da una postina, con cui scherza sulle bollette da pagare. “Quando arrivi, c’è sempre da spendere i soldi”, le dice con un inedito accento russo-pavese. Berzin, uno dei talenti più puri degli ultimi vent’anni, ha raccolto poco rispetto alle sue capacità: un Giro, una Liegi-Bastogne-Liegi, qualche corsa minore e due ori ai Mondiali di inseguimento. Ma tanto basta per farlo entrare di diritto nella storia del ciclismo non da semplice meteora, ma da protagonista in un gruppo che contava gente del calibro di Pantani, Indurain, Armstrong, Chiappucci e Bugno.
Partiamo da quel magico 1994. Arrivava dalla vittoria alla Liegi, prese la maglia rosa subito e la tenne 19 giorni. Una corsa al limite della perfezione.
“E’ sempre difficile vincere indossando per tanti giorni la maglia rosa. Ero giovane e il mio unico pensiero era quello di pedalare. Avevo una squadra importante, da Argentin a Riis, e i giornalisti dicevano che avrei perso la maglia dopo tre giorni. Invece ho battuto un mostro come Indurain a cronometro e ho tenuto gli scatti di Pantani. Ricordo la tensione dell’ultimo giorno: avevo paura di cadere”.
Aveva 24 anni quando trionfò: troppo pochi per vincere il Giro?
“Probabilmente sì. A quell’età una vittoria così ti cambia tutto. All’inizio è arrivata la fama, la televisione. Mi riconoscevano per strada e al supermercato. E poi avevo tanti impegni promozionali. Tutte queste cose ti fanno perdere molto dal punto di vista fisico”.
Baratterebbe la sua vittoria al Giro con un Tour de France?
“Assolutamente no. Il Tour è importante, ma ho un legame speciale con l’Italia e per questo scelgo sempre la Corsa Rosa. Vivo in Oltrepò da anni ormai, devo dire grazie anche a questi luoghi se ho vinto nella mia carriera”.
Si è ritrovato in gruppo con alcuni mostri sacri del pedale: Indurain, Armstrong e Pantani. Che ricordi ha di loro?
“Indurain è stato il più forte di sempre. Nel 1994 mi fece i complimenti a denti stretti, perchè non si aspettava di essere battuto. Armstrong è il classico americano gasato. Ha conquistato il Mondiale a sorpresa, poi, dopo la malattia, è diventato una leggenda. Il doping? I controlli c’erano e lui non è mai risultato positivo. Pantani all'inizio non era così forte: esplose solo nel 1994”.
A proposito di doping. Riuscirà mai il ciclismo a scrollarsi di dosso questa ombra?
“Io penso che bisogna condannare i colpevoli, ma non si può utilizzare le inchieste per farsi pubblicità. Questo capita ai giudici, agli avvocati, alle agenzie antidoping. Se ci sono le prove, è giusto dare la sanzione. Altrimenti mi sembra che questo carrozzone sia in piedi soprattutto per la montagna di soldi che ci gira intorno”.
Dopo aver abbandonato l’attività nel 2000, ha deciso di lasciare il gruppo. Come spiega questa scelta?
“Semplicemente ho scelto la mia attività. Se stai nel ciclismo non puoi essere anche un imprenditore. Ho avuto qualche offerta in passato ma ho sempre declinato: ho sempre preferito portare avanti la mia attività”.
Non può sottrarsi ad un pronostico sul Giro che sta per cominciare…
“Ci sono i migliori, ma credo che la sfida sarà quella pronosticata da tutti tra Nibali e Contador. Il siciliano secondo me non è al massimo della forma, lo spagnolo nelle corse a tappe è il migliore, ma non sempre vince il più forte. Il caso della bistecca mangiata al Tour? In Spagna l’antidoping non è così severo come in Italia. Comunque a questi due servirà l’aiuto della squadra. Senza i compagni non si va da nessuna parte”.
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La chiacchierata è interrotta da qualche telefonata e anche da una postina, con cui scherza sulle bollette da pagare. “Quando arrivi, c’è sempre da spendere i soldi”, le dice con un inedito accento russo-pavese. Berzin, uno dei talenti più puri degli ultimi vent’anni, ha raccolto poco rispetto alle sue capacità: un Giro, una Liegi-Bastogne-Liegi, qualche corsa minore e due ori ai Mondiali di inseguimento. Ma tanto basta per farlo entrare di diritto nella storia del ciclismo non da semplice meteora, ma da protagonista in un gruppo che contava gente del calibro di Pantani, Indurain, Armstrong, Chiappucci e Bugno.
Partiamo da quel magico 1994. Arrivava dalla vittoria alla Liegi, prese la maglia rosa subito e la tenne 19 giorni. Una corsa al limite della perfezione.
“E’ sempre difficile vincere indossando per tanti giorni la maglia rosa. Ero giovane e il mio unico pensiero era quello di pedalare. Avevo una squadra importante, da Argentin a Riis, e i giornalisti dicevano che avrei perso la maglia dopo tre giorni. Invece ho battuto un mostro come Indurain a cronometro e ho tenuto gli scatti di Pantani. Ricordo la tensione dell’ultimo giorno: avevo paura di cadere”.
Aveva 24 anni quando trionfò: troppo pochi per vincere il Giro?
“Probabilmente sì. A quell’età una vittoria così ti cambia tutto. All’inizio è arrivata la fama, la televisione. Mi riconoscevano per strada e al supermercato. E poi avevo tanti impegni promozionali. Tutte queste cose ti fanno perdere molto dal punto di vista fisico”.
Baratterebbe la sua vittoria al Giro con un Tour de France?
“Assolutamente no. Il Tour è importante, ma ho un legame speciale con l’Italia e per questo scelgo sempre la Corsa Rosa. Vivo in Oltrepò da anni ormai, devo dire grazie anche a questi luoghi se ho vinto nella mia carriera”.
Si è ritrovato in gruppo con alcuni mostri sacri del pedale: Indurain, Armstrong e Pantani. Che ricordi ha di loro?
“Indurain è stato il più forte di sempre. Nel 1994 mi fece i complimenti a denti stretti, perchè non si aspettava di essere battuto. Armstrong è il classico americano gasato. Ha conquistato il Mondiale a sorpresa, poi, dopo la malattia, è diventato una leggenda. Il doping? I controlli c’erano e lui non è mai risultato positivo. Pantani all'inizio non era così forte: esplose solo nel 1994”.
A proposito di doping. Riuscirà mai il ciclismo a scrollarsi di dosso questa ombra?
“Io penso che bisogna condannare i colpevoli, ma non si può utilizzare le inchieste per farsi pubblicità. Questo capita ai giudici, agli avvocati, alle agenzie antidoping. Se ci sono le prove, è giusto dare la sanzione. Altrimenti mi sembra che questo carrozzone sia in piedi soprattutto per la montagna di soldi che ci gira intorno”.
Dopo aver abbandonato l’attività nel 2000, ha deciso di lasciare il gruppo. Come spiega questa scelta?
“Semplicemente ho scelto la mia attività. Se stai nel ciclismo non puoi essere anche un imprenditore. Ho avuto qualche offerta in passato ma ho sempre declinato: ho sempre preferito portare avanti la mia attività”.
Non può sottrarsi ad un pronostico sul Giro che sta per cominciare…
“Ci sono i migliori, ma credo che la sfida sarà quella pronosticata da tutti tra Nibali e Contador. Il siciliano secondo me non è al massimo della forma, lo spagnolo nelle corse a tappe è il migliore, ma non sempre vince il più forte. Il caso della bistecca mangiata al Tour? In Spagna l’antidoping non è così severo come in Italia. Comunque a questi due servirà l’aiuto della squadra. Senza i compagni non si va da nessuna parte”.
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