Quando il ciclismo contava più dello scudetto del Milan

Ciclismo
Fiorenzo Magni (foto getty)
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Fiorenzo Magni, vincitore di tre Giri d'Italia, professore per un giorno: ai ragazzi dell'Università di Milano ha raccontato come si viveva stretti tra Coppi e Bartali e della lezione che i due campioni gli hanno dato: “Mi hanno insegnato a perdere”

di Vanni Spinella

Acqua e noccioli di prugna: c'erano una volta il ciclismo e i suoi trucchetti. A svelarli, Fiorenzo Magni, campionissimo che tra il 1948 e il 1955 strappò ben tre Giri d'Italia a Coppi e Bartali, guadagnandosi l'etichetta di “terzo incomodo” del ciclismo italiano. Novantadue anni, ma chi lo direbbe mai, e un repertorio di aneddoti da lasciare senza fiato la platea di giovanissimi universitari accorsi per ascoltarlo al Master in Sport Management dell'università Bicocca di Milano.
Tema della “lezione”, il ciclismo ai tempi di Coppi e Bartali; e Magni, che più volte si è trovato stretto tra i due, ha l'arduo compito di spiegare come si facesse a farsi largo. “L'Italia era divisa in bartaliani e coppiani. E il ciclismo era il primo sport, nel nostro Paese”, racconta Magni. “Conservo ancora una 'Gazzetta dello Sport' del 1951: in prima pagina, titolone a nove colonne che celebrava il vincitore del Giro. Poi, sotto, in un angolino, l'articolo sul Milan campione d'Italia”.

Altri tempi: senza il calcio a rubare la scena, c'era “solo” da superare quei fenomeni di Coppi e Bartali, per guadagnarsi un titolo, di giornale e in bacheca. Mica semplice. “Non ce n'erano molti più bravi di me”, continua Magni, “ma Coppi e Bartali sì. Sulle strade, 8 cartelli su 10 erano per loro. E se oggi conta l'auditel, un tempo c'era il popolo. Cinquanta e cinquanta, si diceva fossero le percentuali con cui si divideva. Io dico 55% Bartali, che era religiosissimo, e la cosa influiva parecchio”.
Fiero del suo 0%, o di quelle briciole che gli lasciano quei due, Magni non ha rimpianti, solo parole d'affetto, come si usa tra sportivi veri: “Il fatto di gareggiare con Coppi e Bartali è stato per me una lezione fantastica: mi hanno insegnato a perdere. E non sapete quante volte capita, nella vita. Mi sono accorto di una cosa, al termine della mia carriera: vinci quando devi perdere e perdi quando devi vincere. Alla fine si torna sempre in parità”.

Il “terzo incomodo” (“che però ogni tanto graffiava”, precisa lui) ricorda tutto, tranne una cosa. Gli chiedono di raccontare del Tour del 1950, che abbandonò insieme a tutta la comitiva italiana quando era in maglia gialla, per solidarietà nei confronti di Bartali aggredito da alcuni spettatori francesi. Lui mostra i fogli che ha sul tavolo e risponde “Non l'ho messo nei miei appunti...”.
Poi però ricomincia, rievocando grandi sfide, fughe epiche, salite sfiancanti. “Alla fine di una di queste – racconta – una volta trovo mia moglie, che mi seguiva spesso durante le corse. Mi fa: 'Quei due là son già passati e non erano neanche sudati'. Io però sapevo quando potevo permettermi di attaccarli”. E qui si torna all'acqua e alle prugne.

“Bartali non soffriva né il caldo né il freddo né la sete; quando era stanco, però, pedalava facendo uno strano movimento con la gamba destra, e io lo capivo subito. Coppi invece si tradiva con l'acqua: ne beveva a litri, se la buttava addosso, arrivava a bagnarsi persino gli scarpini, se era in crisi. Io invece mi mettevo in bocca un nocciolo di prugna e succhiavo quello: quante volte è stato la mia salvezza!”. Altro che carne al clenbuterolo.