WonderPoel, la Roubaix c’est moi. Così l'olandese ha battuto re Pogacar

Era bastato un video postato su Instagram lo scorso 10 febbraio: Tadej Pogačar con il compagno di squadra Tim Wellens a provare il duro pavé della foresta di Arenberg, uno degli stadi a cielo aperto del ciclismo. Il luogo dove si accende ogni Parigi-Roubaix che si rispetti, per infiammare con due mesi di anticipo la Regina delle Classiche. Era stato il primo segnale di re Taddeo a tutti i suoi avversari, una manifestazione di interesse, l’annuncio di un’OPA sull’Inferno del Nord. Del resto, se Pogačar corre una gara lo fa per una ragione: vincerla. Poi c’erano state la Milano-Sanremo, vinta da Mathieu van der Poel su Filippo Ganna e lo sloveno, e il Fiandre con il pareggio dei conti e il trionfo del campione del mondo su Mads Pedersen e l’olandese. Questa Parigi-Roubaix era un po’ ‘la bella’ tra i due fenomeni del ciclismo contemporaneo. Dall’altra parte van der Poel non aveva alcuna intenzione di abdicare, con il sogno di vincere per la terza volta in fila nel velodromo di Roubaix. Impresa riuscita solo al francese Octave Lapize a inizio secolo scorso e, nell’era moderna, solo a Francesco Moser nel 1978, 1979 e 1980 . La contromanovra, l’opposizione all’OPA lanciata da Pogačar era scontata. Che corsa poteva mai uscire con tali premesse, se non un duello deciso magari da un episodio? E così è stato. Pronti-via, la classica fuga di giornata. Al primo dei 30 settori di pietre, ai -150 km, finiscono di fatto le speranze del nostro Pippo Ganna: foratura e uno sforzo troppo impegnativo per riportarsi subito sul gruppo dei migliori, e recuperare oltre un minuto di svantaggio. Uno sforzo che si sarebbe fatto sentire cinquanta km più avanti, quando la corsa è davvero entrata nel vivo. La barca Ineos-Grenadiers, dopo aver abbandonato l’America’s Cup, s’incaglia sulle implacabili pietre del Nord francese. Poi eccola, la foresta di Arenberg. Nome fiabesco che, senza il ciclismo e l’intuizione di Jean Stablinski , suggerita ad Albert Bouvet e da questi al patron Jacques Goddet, di inserirla dal 1968, sarebbe rimasto un non-luogo. Dal nome esotico ma essenzialmente anonimo. Qui, in questi 2400 metri di ciottoli malmessi ma custoditi da volontari appassionati e da deliziose caprette, succedono cose e, spesso, si decidono corse. Uscire davanti dalla foresta di Arenberg significa aver superato un bel tratto dell’Inferno del Nord, si può uscire a riveder non tanto le stelle quanto l’asfalto, che in questa corsa equivale al sollievo. Sì, perché 55,3 km di pavé sui 259,2 km totali, sono un girone dantesco. E valgono forse 100-150 km percorsi su una strada normale. Sfiancano articolazioni, schiena, piagano palmi e polpastrelli , fanno male, e tanto. Ed eccoli fuori dalla foresta, i protagonisti più attesi: Pogačar, che accelera subito, Pedersen, van der Poel e Philipsen, compagno dell’olandese alla Alpecin-Deceuninck. Lo sloveno applica testardamente la sua strategia: sparate continue e ripetute per sfiancare a uno a uno gli avversari. Una tattica sempre uguale a sé stessa e spesso efficace, far pagare dazio ai rivali chilometro dopo chilometro. Ma c’è chi ai dazi, giustamente, si oppone. Sono i due della Alpecin-Deceuninck e Pedersen, che gli restano incollati. Nel settore 16, Warlaing à Brillon, Pogačar attacca ancora e là, ai -71, finiscono i sogni di gloria di uno dei protagonisti: Pedersen fora l’anteriore e perde il treno. L’errore del migliore Non chiamiamoli colpi di scena, la Roubaix è una corsa a eliminazione, forare o cadere ne sono parte integrante. Vincere significa – anche – affrontare e domare la sorte, chi corre qui sa quali sono i rischi da correre e i conti da pagare. Senza sconti. A quel punto rimangono in tre: Pogačar, van der Poel e Philipsen. Poi restano solo lo sloveno rampante e l’olandese volante. Ai -38,1 km, quando sembra che ormai si andrà incontro al duello finale, Pogačar sbaglia. Sì, sbaglia anche il migliore, il più forte: curva nel settore 9 a Pont-Thibault à Ennevelin, lo sloveno forse calcola male, si prende un rischio di troppo e finisce a terra e perde secondi preziosi: sono 21, poi 18, poi scendono a 12, poi risalgono a 18-20. Per un attimo si ha la sensazione che Pogi possa fare come alle Strade Bianche: cadere, rialzarsi, recuperare e andare a vincere. Ma qui ha di fronte van der Poel, e ci sono pietre, non salite. In più Tadej cambia bici e perde altro tempo, e qui la gara si chiude perché i secondi diventano 50 e poi più di un minuto. Soprattutto se devi recuperare su un alieno tuo pari, come van der Poel, che anche in questa Parigi-Roubaix è stato un ‘Olandese volante’: nessuno come lui sa surfare sul pavé, sembra proprio il mitologico veliero che solca i mari più agitati senza mai affondare. Il suo modo di pedalare e di affrontare le asperità suscita ammirazione e meraviglia. Sembra come galleggiare sulle pietre, quasi non avvertisse le vibrazioni del suo corpo, la sua bici sembra scivolare quasi dolcemente invece di sbattere ripetutamente, come se le vele fossero spiegate. Mathieu fa anche in tempo a sperimentare l’idiozia di questo mondo: una mano nascosta ha la demenziale e criminale idea di lanciargli contro una borraccia, rischiando di farlo cadere e di ferirlo seriamente. Fuori del ciclismo questa racaille direbbero i francesi. Questo è per eccellenza lo sport in cui si applaudono tutti, non ci deve essere alcuna tolleranza per queste scene raccapriccianti e spaventose. Torniamo alla corsa, allo sport che è battaglia leale, senza esclusioni di colpi ma fatta con cavalleria e sano spirito di competizione. A Roubaix per fortuna VdP nel finale ci arriva, solitario e non triste, anzi. Taglia il traguardo e prende in braccio la sua bici: per lui è il terzo trionfo consecutivo all’Inferno del Nord. Pogačar arriva secondo a 1’18’’: era la sua prima Roubaix da professionista. Ci ha provato ma anche i re, a volte, perdono, sbagliano, fanno i conti con la necessità di maggiore esperienza. Siamo sicuri, non perché tifosi dello sloveno, non serve esserlo per ammirarlo, che farà tesoro di questa sua prima volta. E che tornerà per vincere, come farà con la Sanremo. Perché se c’è una dote che il campione del mondo ha dimostrato di avere è quella di fare tesoro di errori, rischi eccessivi, situazioni mal valutate, per diventare ancora più forte. Pedersen stavolta deve accontentarsi del terzo posto, e sapete come si è classificato Wout Van Aert? Ancora una volta quarto, ormai il vestito dell’eterno piazzato gli si è cucito addosso e lui sembra non aver più la forza di strapparselo di dosso e disegnarsene uno nuovo. In tutto questo, lo spettacolo ancora una volta è stato garantito. E Pogačar ci ha di nuovo messo del suo: è andato nel giardino di casa dell’amico rivale VdP, voleva batterlo anche a domicilio, ha acceso la corsa, l’ha onorata infiammandola, in un luogo d’altronde noto come Inferno del Nord. Mathieu gli ha risposto nell’unico modo in cui è capace di parlare sulle pietrose strade del nord francese: la Roubaix c’est moi. Ancora una volta ha dimostrato di essere WonderPoel: OPA respinta, l’Enfer resta il suo giardino privato, e di sua proprietà lo scettro, il blocco di pietra e il suo nome per la terza volta nelle docce del Velodromo. E ora punta al record di Tom Boonen e Roger De Vlaeminck: quattro successi alla Roubaix. E magari prendersi il diritto di avere anche per sé l’appellativo del ‘Gitano di Eeklo’: Monsieur Roubaix. Il sorriso francese, le certezze azzurre C’è un mal comune a noi italiani e ai francesi: da tanto tempo, nelle corse che contano, a tappe e nelle classiche, fatichiamo a toccare palla. A salvarci sono le nostre ragazze. Gli amici transalpini possono gioire perché dopo 28 anni vedono il loro tricolore sul più alto gradino del podio, noi possiamo tornare rinfrancati da una presenza corposa di nostre atlete nella top 10. Era dal 1997 che la Francia non portava a casa la Roubaix. L’eroina di giornata è una di quelle atlete per cui bisognerebbe scrivere pagine e pagine, per raccontarne la classe, la poliedricità, la tigna e il valore. Si chiama Pauline Ferrand-Prévôt e viene da Reims. Giusto per capire di chi stiamo parlando: dopo aver vinto i mondiali su strada nel 2014, ha optato per mountain bike e gravel e vinto mondiali a ripetizione, coronando la carriera con l’oro olimpico nel cross country a Parigi 2024. Dopo una decina d’anni è tornata a gareggiare ad alto livello anche su strada, e ora eccola lì, da sola, sul Carrefour de l’Arbre a macinare vantaggio e, secondo dopo secondo, ad arrivare in solitaria al velodromo. Un’azione frizzante e spettacolare come certi vini mica male che si producono dalle sue parti. La trentatreenne della Visma | Lease a Bike alza le braccia al cielo e diventa idolo di Francia più di quanto già non fosse dopo i Giochi di Parigi. Dietro di lei c’è tanta Italia, a partire da Letizia Borghesi che con una mossa intelligente, scaltra e di bravura anticipa fuoriclasse come le olandesi Lorena Wiebes e Marianne Vos e conquista un secondo posto davvero da applaudire. Ma non c’è solo Borghesi: Maria Giulia Confalonieri sesta, Elisa Balsamo nona e Chiara Consonni decima. Fossimo in Marco Velo, neo-Ct dell’Italia femminile su strada, avremmo stampato in faccia un gran bel sorriso. Possiamo dire la nostra in ogni corsa. Anche all’Inferno.

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