Una gioia italiana in un Tour de France di marziani

113 tappe, 6 anni e i giorni nemmeno li contiamo. Tanto abbiamo dovuto aspettare affinché un italiano tornasse a vincere una tappa al Tour de France. L’ultimo era stato Vincenzo Nibali, il 27 luglio 2019, alla ventesima, la Albertville-Val Thorens. Ed eccolo allora, lo squillo azzurro: ha la faccia di un ragazzone friulano, per certi versi ancora acerbo ma con grandi margini di crescita tecnica e caratteriale . Si chiama Jonathan Milan, detto ‘Il Toro di Buja’. L’ambizione, sua e del suo team era indossare la prima maglia gialla, con una Grand Départ adatta ai velocisti come lui. A Lille, però, Milan e i suoi erano stati sorpresi nei ventagli scatenati in testa al gruppo, con Jasper Philipsen trionfatore finale. Il vento, specie alla Grande Boucle, talvolta è inesorabile quanto in una regata. Poi a Dunkerque il secondo posto, battuto al fotofinish da uno dei fenomeni dello sprint, Tim Merlier. Il Tour de France è l’università del ciclismo, qui gli errori si pagano più che in altre corse, su queste strade si acquistano le stelle di generali delle due ruote, sul campo di battaglia dove non sono ammesse distrazioni e nessun dettaglio può essere trascurato. È a Laval, finale dell’8ª tappa, che finalmente possiamo esultare: volata sontuosa e vittoria limpida, è Milan l’uomo che interrompe il lungo e desolante digiuno tricolore sulle strade di Francia. C’è un dettaglio da mettere in evidenza: Jonathan per un attimo quasi si ferma perché capisce che non è quello il momento di sprigionare tutti i suoi cavalli . Jonathan aspetta quel tanto che basta, un paio di secondi, e rilancia. Dicevamo dell’attenzione ai dettagli. Milan a Laval li ha curati tutti, frutto anche di un lavoro e di un ritiro specifico fatto quest’anno proprio per prepararsi agli sprint d’Oltralpe. Ce lo aveva raccontato il suo general manager, Luca Guercilena. Ci aveva spiegato, in esclusiva a Sky Sport, tutti gli aspetti su cui avevano lavorato in preparazione al Tour: il posizionamento in gruppo in vista della volata, la posizione della testa e la concentrazione su dove indirizzare lo sguardo, un ritiro specifico programmato per non farsi trovare impreparato. Perché anche le volate, al Tour, sono diverse rispetto a quelle delle altre corse. Non gli è riuscito il bis, nella 9ª tappa, con arrivo a Chateauroux, la ‘Cavendish City’, e per gli stessi dettagli che invece il giorno prima gli avevano consentito la vittoria; ma Jonny è in maglia verde e la corsa ha ancora opportunità per lui. La vittoria di Jonathan, poi, acquista un significato ancora maggiore scorrendo i nomi dei vincitori di tappa fin qui: Philipsen, van der Poel, Pogačar, Evenepoel , Merlier, Simon Yates ... Solo fenomeni, di quelli veri, quei marziani che stanno riscrivendo le regole del ciclismo. In mezzo a loro anche Milan. E Ben Healy, che anche solo per aver immaginato l’azione nella sesta frazione con arrivo a Vire Normandie merita un posto d’onore alla tavola dei grandi di questo Tour. Un posto tra i big confermato e consacrato dalla splendida fuga che nella 10ª tappa gli ha consentito di godersi il giorno di riposo indossando per la prima volta la maglia gialla, 38 anni dopo l’ultimo irlandese, un certo Stephen Roche, oltre alla bianca di miglior giovane. Una maillot jaune meritata e splendente come i girasoli dei campi che hanno accompagnato questo inizio di Grande Boucle. Healy è un combattivo puro, per voglia di attaccare è come un Chiappucci 4.0 con forse una maggiore capacità di cogliere l’attimo, di essere più efficace nel finalizzare le sue a volte folli azioni. Diciamolo, tra di noi, persone innamorate del ciclismo e anche orgogliose della nostra tradizione: il Tour de France fa sembrare il Giro d’Italia forse ancora più piccolo di quanto sia, per i grossi nomi, le strade, gli arrivi e le continue scaramucce, gli imprevisti, le difficoltà della corsa e di conseguenza la sua spettacolarità, al di là dei percorsi. Perché solo al Tour e solo uno come van der Poel può pensare di andare in fuga al km 0, nella nona tappa, la Chinon-Châteauroux, totalmente pianeggiante, in pratica una frazione di trasferimento e senza asperità di rilievo, e venire ripreso a meno di un km dal traguardo dopo 173 di fuga, a 50.013 km/h di media , insieme con Jonas Rickaert, suo amico e compagno alla Alpecin-Deceuninck. Una ‘delusione’ che però lo ha fatto entrare nei cuori della gente persino più della tappa vinta e della maglia gialla indossata per quattro giorni. Perché da quelle parti, il nord della Francia, tra formaggi stagionati e bicchieri di rosso o di champagne, tra castelli da fiaba e campi di girasoli, si apprezza talvolta più l’azione che il risultato. E van der Poel sa benissimo cosa significhi: suo nonno era Raymond Poulidor, ‘Poupou’, l’eterno secondo dietro al rivale Jacques Anquetil ma forse anche il corridore più amato di sempre dall’altra parte delle Alpi. Solo al Tour, tra i nomi dei trionfatori di giornata, puoi contare nelle prime dieci tappe corridori dal palmarès impressionante: 3 campioni del mondo, una ventina di classiche monumento, grandi giri, medaglie olimpiche. Una Grande Boucle, finora, semplicemente di marziani, di fuoriclasse. Fatta di attacchi, contropiede, rilanci senza un minimo di tregua. Gli uomini di classifica mai possono risparmiarsi, si controllano, restano a ruota l’uno all’altro perché basta un soffio di vento per scompaginare la corsa . Si va dunque al riposo aspettando i Pirenei terribili e forse per qualcuno già sentenzianti, con l’illusione di un equilibrio. La Visma | Lease a Bike di Jonas Vingegaard ha svolto finora un incessante e impeccabile lavoro per mettere sotto pressione Pogačar e la sua UAE Emirates-XRG. Un continuo fiato sul collo degno del miglior Gegenpressing di Jürgen Klopp. Vanno applauditi perché se c’è la minima occasione di saggiare le gambe dello sloveno i ‘Calabroni’ ci provano, che sia con Sepp Kuss, Matteo Jorgenson o Simon Yates. Vingegaard resta attaccato alle ruote del barone rampante Pogačar. Evenepoel ci regala lampi di classe a cronometro ma in salita, quella vera, non ha ancora la capacità di reggere, nonostante il coraggio di provare a scattare nella 10ª tappa in faccia al ‘Re Sole’ Taddeo, che sin qui ha imposto la sua inesorabile legge. Il danese ha una squadra più forte rispetto a quella di ‘Pogi’, che ha anche perso uno dei suoi scudieri più preziosi, João Almeida, costretto al ritiro per una costola fratturata nella caduta alla 7ª tappa . Il 14 luglio non è stata Rivoluzione, Tadej si è comportato più da ‘girondino’ restauratore, ha lasciato – probabilmente anche volentieri – che un giovane e combattivo britannico naturalizzato irlandese di nome Ben Healy gli strappasse la maglia gialla. Niente premiazioni, niente interviste e niente impegni. Giorno di riposo pieno e poi via, una tappa di passaggio prima delle salite pirenaiche. Gianni Mura scriveva che nei Pirenei le vipere sono più cattive. Talvolta anche le salite, specie con la sempre temibile canicule. Alcune certezze però ci sono: il più forte è Pogačar. La squadra più attrezzata è la Visma | Lease a Bike di Vingegaard, diretta da ‘cardinali’ neerlandesi capaci di strategie alla Richelieu. In mezzo, tante incognite e sorprese possibili, da Evenepoel a Roglič . Ma in cima ci arriva solo uno, quello con la cilindrata più potente e le gambe più resistenti. Al momento, passata la festa nazionale e per come sono andati questi dieci giorni, non tira aria di Révolution. Né si vedono moschettieri. A parte quei due. I soliti due.

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Una gioia italiana in un Tour de France di marziani

Alberto Pontara