La carriera meravigliosa e sottovalutata di Jenson Button

"È il momento giusto per smettere. Correre richiede molto impegno: viaggi, preparazione, carico mentale, e ora voglio dedicare quelle energie altrove. I miei figli stanno crescendo in fretta e non voglio perdermi quei momenti. Non ho alcun rimpianto. Ho fatto tutto quello che volevo fare nella mia carriera e anche di più. Non ho la sensazione di aver lasciato nulla sul tavolo. Sono soddisfatto di ciò che ho realizzato…”. Così Jenson Button dopo l'ultima gara della sua carriera, comunicando ufficialmente la sua decisione di appendere al chiodo i guanti da pilota al termine della 8 Ore del Bahrain nella quale si è classificato 16° al volante di una Cadillac. Come sempre ostentando una voce pacata e un sorriso aperto nei confronti dell’interlocutore, ma questa volta tradito dagli occhi luccicanti di chi sa che sta chiudendo alle proprie spalle una porta apertasi ben 37 anni fa grazie alla passione di papà John, scomparso nel 2014, ex pilota di rallycross, che finché il destino glielo ha concesso lo ha accompagnato ovunque, sui circuiti di tutto il mondo, dando vita senza volerlo a una delle simbiosi più belle e autentiche del motorsport. John e Jenson erano sempre insieme, padre e figlio, tranne quando il ragazzo era in macchina, era con la fidanzata o a dormire. Quando incontravo John, nei dopocena passati tra le lounge bar dei grand hotel o dei locali più frequentati dalla numerosa famiglia della Formula 1, mi parlava solo di tre cose, rigorosamente in quest’ordine: Jenson, le birre e le belle donne. Ma l’argomento Jenson - come logico - finiva sempre per monopolizzare, tra una birra e l’altra, ogni discussione. Ne andava fiero, orgoglioso. Era il suo ragazzo che, una volta imparato a vincere a otto anni, non aveva più smesso. E pure se all’esame di guida - a 17 anni - era stato bocciato, a 29 era diventato campione del mondo. Grazie anche a quel go-kart regalatogli in una notte di Natale nel Somersetshire. Oggi Jenson, forse, avrebbe voluto ancora accanto a lui papà John in un altro momento chiave della sua vita. Come quando Jessica prese nel suo cuore il posto di Louise Griffiths. Invece, accanto a lui avrà la seconda moglie Brittny Ward e i suoi due figli che ha deciso di accompagnare come il padre fece con lui, molto più da vicino. Perché, a 45 anni, Jenson Alexander Lyons Button, dal 2010 nominato Membro dell’Ordine dell’Impero Britannico per meriti sportivi, personaggio pubblico al quale la sua città natale - Frome - ha reso gli onori, intitolato una strada e una passerella sul fiume ed è ingegnere honoris causa , ha deciso di voltare pagina. Una decisione coraggiosa, anche da ricchi, belli e famosi. Perché a essere vip non ci si abitua mai. Button è stato uno dei protagonisti assoluti della sua generazione, ritirandosi dalla Formula 1, dopo aver vinto 15 corse, ufficialmente nel 2016 dopo esserne diventato campione del mondo nel 2009 sulla Brawn GP, una delle più incredibili scommesse della storia della categoria. Forse non sarà ricordato come un grande, ma era sicuramente uno dei piloti più capaci e affidabili della sua epoca. Alla quale quella favola, di un team destinato a essere smantellato dopo il ritiro Honda e rimesso in piedi dopo l’acquisto simbolico a una sterlina da parte di Ross Brawn, ha dato immortalità. Seguirono sei vittorie nelle prime sette gare e - nonostante un evidente cedimento di prestazioni nella seconda parte della stagione - una rimonta straordinaria in Brasile gli consegnò una corona iridata che nessuno mai potrà più strappargli via. Poi, Button ebbe il coraggio di passare in McLaren e affrontare ad armi pari senza paura Lewis Hamilton, cavandosela più che bene e portando in tre anni una gran dote di punti alla squadra. Indimenticabile nel 2011 quel GP del Canada nel quale risalì dall’ultimo al primo posto negli ultimi trenta giri di una gara infinita. Jenson aveva sensibilità innate per i livelli di aderenza variabili. Di lui, il giornalista Mark Hughes ha scritto nell’anno della conquista del titolo mondiale: “Button ha una fantastica sensibilità per quanto riguarda la quantità di slancio che può essere immessa in curva e questo gli consente di essere minimo nei suoi input: in particolare, i suoi movimenti dello sterzo e dell'acceleratore tendono ad essere aggraziati e splendidamente coordinati”. Questo sul bagnato era un jolly nei confronti degli avversari quando la monoposto scivolava con l’anteriore più che con il posteriore. Il ‘superteam’ britannico con Hamilton rimane la cartina di tornasole delle qualità di Button che, nei tre anni, perse la sfida alle qualifiche ma realizzò 15 punti in più di Lewis. Jenson aveva sempre affermato di considerarsi essenzialmente un ‘pilota da corsa’, non soltanto un pilota di Formula 1. È stata anche questa profonda convinzione a farlo avvicinare, una volta abbandonato il ‘circus’ ad altre categorie, come l'endurance di Le Mans, le Supercar, l'Extreme E e il Rallycross. Di quella certezza che lo ha animato per tanti anni ha dato prova vincendo nel 2018 il titolo nella competitiva serie giapponese Super GT. Ma non ha disdegnato DTM e Nascar, Imsa e il Wec nelle ultime due stagioni. E di sicuro, sono pronto ad accettare scommesse, lo rivedremo prima o poi in pista in qualche gara al volante delle auto d’epoca della sua collezione privata. Prova ne siano le ripetute iscrizioni e le partecipazioni a eventi e raduni come il Goodwood Revival. Nella sua seconda vita Jenson tornerà di sicuro a fare l’opinionista, ma avrà di certo anche molto più tempo da trascorrere con la sua giovane famiglia. E ne avrà per ripercorrere con la memoria i flash di una lunga carriera iniziata alla Williams e alla Benetton poi Renault, ma frenata dalle scarse ambizioni di due scuderie decisamente poco competitive; di rivivere quel brutto stop del 2008 subìto nel bel mezzo della crisi finanziaria globale dalla Honda prima che la magìa della Brawn GP motorizzata da Mercedes gli regalasse il tetto del mondo. E poi i duelli in McLaren con Hamilton e Fernando Alonso, partendo sempre da underdog, ma forte di quello splendido biglietto da visita esibito in F1 quando diventò - nel 2000 - il più giovane pilota di sempre a conquistare punti nel Gran Premio del Brasile, prima di venire sostituito a Grove da un certo Juan Pablo Montoya. Fra le sue perle rimangono senza dubbio una vittoria impronosticabile in Ungheria su una Honda e una vittoria schiacciante a Spa nel 2012 alla guida di una McLaren. Eppure quel 2009 non fu tutto rose e fiori, pur culminando nel titolo iridato: “Arrivai al punto in cui la pressione me la mettevo addosso da solo”. Beh, adesso basta pressioni, anche se “oggi la gestirei cento volte meglio, mentre vedo piloti che arrivano in F1 e si aspettano grandi cose e al primo problema vanno subito giù di morale… ma capisco che sia molto difficile per i giovani nel motorsport… è molto facile per loro fare un anno di sport ed essere messi da parte. E poi? È finita, game over. dove si va? È molto difficile rialzarsi da quel punto". Button, anche da giovane ha faticato contro i primi compagni di squadra più esperti. È accaduto con Ralf Schumacher e Giancarlo Fisichella. Meno, molto meno con Rubens Barrichello e Takuma Sato, battuti. Il vero testa a testa, come detto, è stato con Lewis Hamilton. I due, poi, non erano proprio amici, anzi tutt’altro. Con una certa sorpresa, Jenson subì invece la sfrontatezza di Sergio Perez, battendo invece nei duelli interni al box Kevin Magnussen e Alonso. Un gran curriculum per una storia d’amore iniziata presto, con la vittoria al debutto a otto anni, la conquista del campionato cadetto kart a undici, dominando tutte e 34 le gare previste e di fatto conquistando l’europeo di Super A nel 1997. Poi, a bordo di una F3 ecco subito due test in F1 con McLaren e Prost, quindi il primo contratto con la Williams per sostituire Alex Zanardi. A venti anni Jenson fu il terzo più giovane debuttante nella storia del campionato di F1. Una carriera sempre da protagonista, non senza momenti no e plateali attestazioni di sfiducia. In Renault, Flavio Briatore, visibilmente esausto per i suoi risultati poco brillanti, lo definì ‘urbi et orbi’ un ‘paracarro’. In BAR Honda, accanto a Jacques Villeneuve, Jenson in effetti faticò non poco a ritrovarsi. Un declino temporaneo, per fortuna, molto diverso da quello che invece portò al ritiro del 2016 e poi, eccezionalmente al GP di Montecarlo 2017 - suo ultimo evento in F1 - al posto di Alonso, impegnato a Indianapolis nella Indy500. Jenson, ancora in orbita McLaren, obbedisce alla chiamata, ma la sua gara finisce dopo 57 giri contro la Sauber di Pascal Wehrlein. Una delusione prontamente compensata dalla vittoria nel campionato Super GT insieme al Team Kunimitsu, dove Jenson arrivò l’anno dopo forte di un curriculum in F1 di 306 GP, 15 vittorie, 8 pole, 8 giri veloci, 50 podi e un titolo mondiale, più 4 gare nel Mondiale Endurance con SMP Racing. Corsi e ricorsi storici, senza scomodare per questo il filosofo Giambattista Vico, poi lo riporteranno nel 2021, a venti anni dal debutto, proprio in Williams in qualità di super consulente. Mentre diventerà socio della storica carrozzeria luxury “Radford”. In Bahrain si ora è concluso un lungo capitolo di una avventura davvero emozionante e molto affascinante di Jenson Button. Di sicuro lo accoglieranno sempre come un beniamino e non correrà più il rischio che lo assaltino e gli puntino contro una pistola e una mitraglietta come accadde quella volta in Brasile, quindici anni fa a Interlagos, quando il suo autista forse gli evitò un rapimento o una rapina accelerando a tavoletta nel bel mezzo del traffico di São Paulo, lungo la trafficatissima Marginal Tietê, passando fra sei macchine e speronandole come in una scena da film, davanti allo sguardo atterrito di Jenson, di suo padre John, del fisioterapista Mikey Collier e del manager Richard Goddard. E benedetta Mercedes Classe B blindata che assorbì gli impatti… Lui che aveva vinto l’Ayrton Senna Memorial Cup nel 1997 sui kart, fino ad allora dal Brasile aveva ricevuto fino ben altre sensazioni. Aveva sconfitto Bruno Junqueira nello shoot out che gli aveva aperto le porte della F1, era diventato il più giovane driver a punti in F1 proprio sul circuito paulista, aveva avuto Rubens Barrichello come scudiero nella lunga cavalcata trionfale verso il mondiale… Curiosa la vita. Ma da qui in avanti il pilota che dovette attendere 113 GP per vincere avrà tutto il tempo di raccontare la sua carriera ai figli e ripercorrerla senza fretta. Con la stessa calma che ispira il deserto. “Mi è sempre piaciuto il Bahrain, il posto ideale per chiudere la mia carriera da professionista. Forse tornerò qualche volta con una delle mie auto d’epoca. Adoro l’aspetto meccanico, fare punta e tacco, cambiare marcia, senza aerodinamica. Mi sono davvero divertito nel Wec, ma la mia vita è diventata troppo frenetica e non lo trovo più giusto. I miei figli hanno 4 e 6 anni e a star via una settimana si perde quel che non si può più recuperare. Ho già perso molto negli ultimi due anni. Sapevo che sarebbe successo, ma non sono disposto a ripeterlo ancora… ”. Il casco nero con le corna gialle che gli disegnò papa John per spaventare gli altri bambini, ora può andare in soffitta.

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Lucio Rizzica