"Ora vi racconto perché è il cibo che spiega il calcio"
GossipL'INTERVISTA. L'inglese John Irving, dal 1977 a Torino (con la Juve nel cuore), in Pane e Football ripercorre la Storia di Italia e Inghilterra attraverso le rispettive tradizioni calcistiche & gastronomiche. E riserva un omaggio a Gianni Brera
di Alfredo Corallo
"Un giorno di primavera, mia madre alzò gli occhi dal giornale e disse a mio padre: 'George, senti questa notizia incredibile. Un tifoso ha scambiato la moglie per un abbonamento del Liverpool. Tu non faresti mai una cosa del genere, vero? 'Nemmeno per sogno. Tanto il campionato è già finito'". Pane e football (Slow Food Editore) è un intreccio di tradizione e sberleffo, ricordi di partite senza tempo e bevute colossali. La passione per il calcio tramandata da padre in figlio, personaggi leggendari e tragedie di grandi campioni annientati dagli eccessi. Bagna càuda e menù dei nuovi stadi a 5 stelle, le trasferte all'addiaccio e i ritiri al caldo di Dubai, i film di Ken Loach e il diario Mundial di Mario Soldati, i cappotti di cammello del Pepin Meazza e la megalomania leopardata di George Best.
John Irving, 56 anni, mescola gli ingredienti e li annusa con il palato e l'equilibrio storiografico di un gourmet, risultato di una laurea in Lingua e letteratura italiane all'Università di Edimburgo (con una tesi sullo scrittore urbinate Paolo Volponi) e di una permanenza tra Torino e Bra che risale ormai al 1977. Consulente editoriale per il movimento Slow Food collabora con diverse testate tra cui La Stampa, The Guardian e l'americana The Art of Eating. Adora l'arrosto di agnello con salsa alla menta e Yorkshire pudding, ma anche tagliatelle al ragù e cozze con patate al forno.
Mr Irving, inglese e tifoso del Carlisle United a Torino per amore... della Juventus. "La stessa differenza che corre tra un boccale di birra e un calice di Barolo d'annata". Parole sue.
"Il paragone vuole evocare il mio passaggio, da tifoso, dalla rozzezza alla raffinatezza. Una sorta di arrivismo in salsa calcistica. Assistere a una lotta nel fango al Brunton Park di Carlisle e assistere a una sfida di Coppa dei Campioni al Comunale non erano esattamente la stessa cosa".
Per capire i rapporti, non solo sportivi, tra Italia e Inghilterra, è necessario un accenno alla "battaglia di Highbury" del 1934. Pare che, visto il periodo, si andò oltre gli stereotipi di spaghetti, mandolino, birra e whisky.
"Semmai fu una partita 'vino contro birra' oppure 'olio contro burro', nel senso di scuola latina contro scuola anglosassone. Certo che fu investita di una valenza che andava al di là di un semplice incontro tra campioni del mondo e inventori del calcio, tra metodo e sistema. C'era chi la dipingeva addirittura come uno scontro tra fascismo e democrazia. Bruno Roghi su La Gazzetta dello Sport definì Highbury come "teatro di una guerra internazionale". In realtà, il ct degli azzurri, Vittorio Pozzo, era un anglofilo convinto, grande ammiratore del calcio inglese".
Pub & Football. Nel Regno Unito è un legame indissolubile. Oggi come ieri?
"Direi meno. Grandi club come il Manchester United e il Liverpool furono fondati da birrai. Ora alcuni sono gestiti da sceicchi miliardari che, essendo musulmani, presumibilmente non bevono. A differenza dei loro dipendenti, i calciatori, che a leggere i tabloid continuano a frequentare i locali e ad alzare il gomito, di tanto in tanto".
E furono proprio i suoi connazionali, oltre a fondare i primi club calcistici italiani, a "importare l'amore per la bottiglia". Da Kilpin a Gascoigne, la storia dei calciatori britannici in Serie A è segnata da brutte storie di alcolismo.
"Alcol, ma non solo. Di Ian Rush, prolifico goleador in patria ma un fallimento nella Juve, si diceva che avesse nostalgia dei fagioli in scatola 'Heinz'. Questione di cultura".
Lo stile di vita, la gestione alimentare di una squadra è sempre più una componente basilare nel calcio moderno.
"Sono sempre le differenze culturali a giocare un ruolo fondamentale. In passato, Jock Stein del Celtic era intrigato dai modi 'dittatoriali' del Mago Helenio Herrera, ma riteneva impossibile adottare metodi simili in Scozia dove regnava la cultura del bere. Fabio Capello ha faticato a far accettare i suoi metodi, giudicati troppo severi, ai giocatori della nazionale inglese. 'Trentacinque giorni senza patatine fritte!' si lamentò un dirigente dopo il ritiro del Mondiale sudafricano. Oggi, comunque, grazie alle innovazioni dietetiche di un francese, il tecnico dell'Arsenal Arsène Wenger, gli inglesi sono più attenti all'alimentazione. Sono finiti i tempi in cui, in viaggio per le trasferte, Brian Clough fermava il pullman al fish 'n chips shop per il pranzo".
Anche gli stadi si sono adeguati (in Italia, per la verità, solo lo Juventus Stadium). Più sicuri e confortevoli.
"E più sensibili alle esigenze delle rispettive comunità locali. Al Celtic Park di Glasgow, ad esempio, hanno perfezionato la ristorazione, impegnandosi in una missione sociale di sensibilizzazione volta a cambiare la cultura del fast food che da decenni mina la salute degli scozzesi, i britannici più colpiti da patologie legate alla dieta. Il tutto con la collaborazione di una esponente di Slow Food UK".
E i calciatori sono sempre più votati a investire in birrerie e ristoranti.
"I pub li hanno sempre aperti. A fine carriera l'hanno fatto tutti i 'Lisbon Lions', i giocatori del Celtic che hanno vinto la Coppa dei Campioni nel 1967 contro l'Inter. Tutti, cioè, tranne Jim Craig, il terzino destro, che faceva il dentista. Semmai, in Gran Bretagna c'è la nuova tendenza, già ben radicata in Italia, ad aprire ristoranti (vedi Gattuso e Zanetti, ndr). L'ex terzino dell'Arsenal, Lee Dixon, è entrato in società con Heston Blumenthal, una specie di Vissani inglese".
Gianni Brera, il più grande giornalista sportivo italiano, abbinò alcuni campioni a dei vini. Se la sentirebbe di fare lo stesso con Messi, Rooney, Ibrahimovic, Totti, Balotelli e Del Piero?
"Non sono un grande esperto di vini, ma ci provo. Messi per me è il più forte, quindi lo paragono a un grande Barolo, 'il vino dei re e il re dei vini'. Rooney non è un vino ma un whisky: un Highland Park, carattere, spontaneità, genuinità. Ibra invece è un cocktail, diciamo un Negroni: buono in piccole dosi ben calibrate. Totti è un buon Chianti: verace ma dotato di classe. Balotelli è un Beaujolais nouveau, per me imbevibile: non è ancora pronto... e forse non lo sarà mai. Del Piero, infine, era un Rosso Saverio dell'Isola del Giglio prodotto dalla famiglia Carfagna (il mio preferito). Ora, in Australia, è diventato una birra Foster's, rinfrescante a fine giornata".
"Un giorno di primavera, mia madre alzò gli occhi dal giornale e disse a mio padre: 'George, senti questa notizia incredibile. Un tifoso ha scambiato la moglie per un abbonamento del Liverpool. Tu non faresti mai una cosa del genere, vero? 'Nemmeno per sogno. Tanto il campionato è già finito'". Pane e football (Slow Food Editore) è un intreccio di tradizione e sberleffo, ricordi di partite senza tempo e bevute colossali. La passione per il calcio tramandata da padre in figlio, personaggi leggendari e tragedie di grandi campioni annientati dagli eccessi. Bagna càuda e menù dei nuovi stadi a 5 stelle, le trasferte all'addiaccio e i ritiri al caldo di Dubai, i film di Ken Loach e il diario Mundial di Mario Soldati, i cappotti di cammello del Pepin Meazza e la megalomania leopardata di George Best.
John Irving, 56 anni, mescola gli ingredienti e li annusa con il palato e l'equilibrio storiografico di un gourmet, risultato di una laurea in Lingua e letteratura italiane all'Università di Edimburgo (con una tesi sullo scrittore urbinate Paolo Volponi) e di una permanenza tra Torino e Bra che risale ormai al 1977. Consulente editoriale per il movimento Slow Food collabora con diverse testate tra cui La Stampa, The Guardian e l'americana The Art of Eating. Adora l'arrosto di agnello con salsa alla menta e Yorkshire pudding, ma anche tagliatelle al ragù e cozze con patate al forno.
Mr Irving, inglese e tifoso del Carlisle United a Torino per amore... della Juventus. "La stessa differenza che corre tra un boccale di birra e un calice di Barolo d'annata". Parole sue.
"Il paragone vuole evocare il mio passaggio, da tifoso, dalla rozzezza alla raffinatezza. Una sorta di arrivismo in salsa calcistica. Assistere a una lotta nel fango al Brunton Park di Carlisle e assistere a una sfida di Coppa dei Campioni al Comunale non erano esattamente la stessa cosa".
Per capire i rapporti, non solo sportivi, tra Italia e Inghilterra, è necessario un accenno alla "battaglia di Highbury" del 1934. Pare che, visto il periodo, si andò oltre gli stereotipi di spaghetti, mandolino, birra e whisky.
"Semmai fu una partita 'vino contro birra' oppure 'olio contro burro', nel senso di scuola latina contro scuola anglosassone. Certo che fu investita di una valenza che andava al di là di un semplice incontro tra campioni del mondo e inventori del calcio, tra metodo e sistema. C'era chi la dipingeva addirittura come uno scontro tra fascismo e democrazia. Bruno Roghi su La Gazzetta dello Sport definì Highbury come "teatro di una guerra internazionale". In realtà, il ct degli azzurri, Vittorio Pozzo, era un anglofilo convinto, grande ammiratore del calcio inglese".
Pub & Football. Nel Regno Unito è un legame indissolubile. Oggi come ieri?
"Direi meno. Grandi club come il Manchester United e il Liverpool furono fondati da birrai. Ora alcuni sono gestiti da sceicchi miliardari che, essendo musulmani, presumibilmente non bevono. A differenza dei loro dipendenti, i calciatori, che a leggere i tabloid continuano a frequentare i locali e ad alzare il gomito, di tanto in tanto".
E furono proprio i suoi connazionali, oltre a fondare i primi club calcistici italiani, a "importare l'amore per la bottiglia". Da Kilpin a Gascoigne, la storia dei calciatori britannici in Serie A è segnata da brutte storie di alcolismo.
"Alcol, ma non solo. Di Ian Rush, prolifico goleador in patria ma un fallimento nella Juve, si diceva che avesse nostalgia dei fagioli in scatola 'Heinz'. Questione di cultura".
Lo stile di vita, la gestione alimentare di una squadra è sempre più una componente basilare nel calcio moderno.
"Sono sempre le differenze culturali a giocare un ruolo fondamentale. In passato, Jock Stein del Celtic era intrigato dai modi 'dittatoriali' del Mago Helenio Herrera, ma riteneva impossibile adottare metodi simili in Scozia dove regnava la cultura del bere. Fabio Capello ha faticato a far accettare i suoi metodi, giudicati troppo severi, ai giocatori della nazionale inglese. 'Trentacinque giorni senza patatine fritte!' si lamentò un dirigente dopo il ritiro del Mondiale sudafricano. Oggi, comunque, grazie alle innovazioni dietetiche di un francese, il tecnico dell'Arsenal Arsène Wenger, gli inglesi sono più attenti all'alimentazione. Sono finiti i tempi in cui, in viaggio per le trasferte, Brian Clough fermava il pullman al fish 'n chips shop per il pranzo".
Anche gli stadi si sono adeguati (in Italia, per la verità, solo lo Juventus Stadium). Più sicuri e confortevoli.
"E più sensibili alle esigenze delle rispettive comunità locali. Al Celtic Park di Glasgow, ad esempio, hanno perfezionato la ristorazione, impegnandosi in una missione sociale di sensibilizzazione volta a cambiare la cultura del fast food che da decenni mina la salute degli scozzesi, i britannici più colpiti da patologie legate alla dieta. Il tutto con la collaborazione di una esponente di Slow Food UK".
E i calciatori sono sempre più votati a investire in birrerie e ristoranti.
"I pub li hanno sempre aperti. A fine carriera l'hanno fatto tutti i 'Lisbon Lions', i giocatori del Celtic che hanno vinto la Coppa dei Campioni nel 1967 contro l'Inter. Tutti, cioè, tranne Jim Craig, il terzino destro, che faceva il dentista. Semmai, in Gran Bretagna c'è la nuova tendenza, già ben radicata in Italia, ad aprire ristoranti (vedi Gattuso e Zanetti, ndr). L'ex terzino dell'Arsenal, Lee Dixon, è entrato in società con Heston Blumenthal, una specie di Vissani inglese".
Gianni Brera, il più grande giornalista sportivo italiano, abbinò alcuni campioni a dei vini. Se la sentirebbe di fare lo stesso con Messi, Rooney, Ibrahimovic, Totti, Balotelli e Del Piero?
"Non sono un grande esperto di vini, ma ci provo. Messi per me è il più forte, quindi lo paragono a un grande Barolo, 'il vino dei re e il re dei vini'. Rooney non è un vino ma un whisky: un Highland Park, carattere, spontaneità, genuinità. Ibra invece è un cocktail, diciamo un Negroni: buono in piccole dosi ben calibrate. Totti è un buon Chianti: verace ma dotato di classe. Balotelli è un Beaujolais nouveau, per me imbevibile: non è ancora pronto... e forse non lo sarà mai. Del Piero, infine, era un Rosso Saverio dell'Isola del Giglio prodotto dalla famiglia Carfagna (il mio preferito). Ora, in Australia, è diventato una birra Foster's, rinfrescante a fine giornata".