Il GP della Malesia, da Shah Alam a Sepang: un posto che non mi piace più

Tredici anni fa - era il 23 ottobre 2011 - sul circuito di Sepang in Malesia durante il secondo giro della MotoGP se ne andava mentre viveva il suo sogno Marco Simoncelli. Una volta si correva a Shah Alam, un circuitino con pochissime infrastrutture in una cittadina presso Kuala. Ci siamo andati dal 1991 al 1997 compresi. Era un concentrato di team, piloti, hospitality che praticamente stavano in piccoli garage in una stradina dietro ai box. Era tutto più intimo, vicino, meno faraonico. C’era l’essenziale e niente più. In 250 hanno vinto quasi soltanto piloti italiani: Luca Cadalora nel ’91 e ’92, Nobuatsu Aoki nel ’93 e poi quattro volte di fila Max Biaggi, che era il vero e proprio dominatore della pista malese. Una pista piuttosto corta dove tutti ricorderanno la foto di Gino Borsoi che sta per colpire un cobra col ginocchio. Era un posto abbastanza selvaggio visto che di gare se ne disputavano proprio poche. Allora la città era appena all’inizio del suo folle sviluppo: c’era un ‘Hard Rock Cafè’ del figlio del Sultano appassionato di moto e di musica, poi poco altro: qualche ristorante, qualche bar, qualche shopping center. Poi la città ha cominciato a diventare quasi irriconoscibile da un anno all’altro: gli operai lavoravano 24 ore al giorno, senza feste né soste, grattacieli spuntavano dovunque, tutto era nuovo e scintillante. Così hanno costruito anche il circuito di Sepang, dove si corre adesso: un’opera mastodontica, con infrastrutture super, enormi tribune coperte, box che sembrano porticcioli coperti con uffici, stanzette, cucina, spazi per sponsor e ospiti, una sala stampa enorme e sempre gelata , parchi, pista per go-kart… Insomma, un’esagerazione come l’aeroporto: il vecchio era piccolo e brutto, vero, ma quello che hanno costruito è stato per anni premiato come il miglior aeroporto del mondo e in effetti probabilmente lo è: c’è la costruzione principale che ospita arrivi, partenze, check-in eccetera, poi un trenino automatico porta i passeggeri in quello che si potrebbe definire il mozzo di un’enorme ruota da cui partono i raggi che sono le file di gate. Bello, funzionale e soprattutto dove in pochissimo tempo arrivi in qualsiasi punto. Prima dell’incidente di Marco Simoncelli quello di Malesia era un Gran Premio che mi piaceva molto. Per un sacco di motivi. Innanzitutto il clima: amo il caldo, godo a vestirmi leggero e ad avere la possibilità –come lì, in Qatar, a Rio- di fare dei gran bagni in piscina. Gli hotel sono - come spesso in Oriente - molto belli. Si mangia bene, basta avere un po’ di apertura mentale e comunque a Kuala Lumpur ci sono almeno un paio di ottimi ristoranti italiani oltre a quelli cinesi, francesi, tailandesi, vietnamiti… In Malesia c’è poi tutta la frutta tropicale che immagini e anche quella che non immaginavi esistesse. Kuala è una città incasinata come tutte quelle asiatiche, ma un po’ più vivibile della media. C’è un ottimo servizio di treno tra l’aeroporto, che è vicino al circuito e la ‘Sentral Station’. Sì, proprio ‘sentral’ con la s, perché in Malesia molte parole inglesi sono scritte esattamente come si pronunciano: ‘teksi’, ‘ambulans’, ‘sos’ per salsa e via così. Per noi è buono anche il fatto che comunque il malese sia scritto usando il nostro alfabeto, insomma si legge. In città si riesce a muoversi, molto lentamente, anche in ‘teksi’, ma la linea di metropolitana sopraelevata è fantastica e guardare tutto quel casino immane di auto, camioncini, autobus, motorini, pedoni la sotto ti fa intimamente godere finché non tocca a te infilartici. Per anni ha contagiato anche me, ma poi se potevo la evitavo. Sto parlando della Chinatown di Kuala, il regno del falso più grande che abbia mai visto: negozi, bancarelle, una fila continua di venditori di scarpe, maglie, valige, borse, cuffie, film, cd, dvd, telefonini e soprattutto orologi falsi. Falsissimi. Un po’ ti diverti, un po’ ci vai per ridere, poi basta. Anche perché se ti beccano qui da noi son casini e non da ridere. In compenso ci sono un sacco, una sfilza, un’infinità di centri commerciali dove si trova di tutto, originale. Mai visti tanti negozi della stessa griffe come a Kuala: qualsiasi marchio vi venga in mente c’è: quasi sempre sono negozi vuoti. La Malesia è un Paese ospitale, con un popolo misto e gentile, tollerante. Insomma c’è di tutto, tante culture mescolate. Kuala è una città cosmopolita, modernissima, molto molto consumista, ma le sacche di povertà sono enormi, anche se in periferia. La piazza dove torreggiano le due gemelle Petronas è bella, affascinante, anche se si tratta di un inno al cemento, all’acciaio e al cristallo, mescolati per esprimere i sogni di grandezza di un Paese e della sua compagnia petrolifera. Il centro commerciale all’interno delle due Torri è il sogno di chi può permettersi una carta di credito senza limiti: è un inno al lusso, ma ovviamente anche alla qualità. E ci si mangia pure bene. La sera è animata, più dell’immaginabile. C’è di tutto, anche le discoteche molto equivoche, dove c’è sempre musica occidentale, un casino di gente, soprattutto stranieri, ragazze di tutto il sud-est asiatico piuttosto disponibili e l’alcool si consuma a fiumi. A Kuala c’è anche uno strano zoo pieno di uccelli e nelle vicinanze c’è il famosissimo tempio indù di Batu con le sue migliaia di scimmie, i suoi oltre 270 gradini, la statua enorme del dio della guerra Murugan, le caverne piene di tempietti e quelle invece zeppe di pipistrelli . È comunque un’esperienza interessante e fuori dal comune. Le Batu Caves sono delle grotte calcaree enormi e il tutto è particolarmente suggestivo. Shah Alam era meno comodo da raggiungere, ma altrettanto ospitale l’hotel nei pressi del circuito: lì c’era addirittura una piscina olimpionica ed era situato in una cittadina ovviamente in costante e velocissima crescita. Allora andare a Kuala era più difficile, si doveva percorrere un pezzo di autostrada per poi infilarsi nel classico casino orientale. Oggi invece attaccato, unito all’aeroporto KLIA da una sorta di arteria sopraelevata, c’è l’hotel dove puoi arrivare senza uscire all’aria, spingendo il tuo carrello dal recupero bagagli fino in camera. È un hotel bellissimo, con ristoranti, piscina, palestra e nove piani di camere. Lì la cosa bella è che c’è una buona metà del paddock, perlomeno la metà più ricca, e puoi chiacchierare con chiunque nell’immensa hall o nel grande ristorante self-service dove si fa anche colazione. I Gran Premi fuori Europa hanno la caratteristica di rendere tutti un po’ più aperti: non ci sono alla sera le hospitality, né i motor home, ci si incontra di più, la pressione è minore, come meno sono i giornalisti che seguono. Il paddock diventa più piccolo, più intimo, più amichevole anche se moltissimi a sera prendono il trenino e vanno a Kuala per cenare, per cambiare un po’ ambiente, per andare in un ristorante particolare. Il Sepang International Circuit ha come marchio ‘SIC’. Appunto. La pista dove Marco ha vinto il suo mondiale in 250, la pista dove per la prima volta è stato il più veloce della MotoGP , la pista dov’è morto. Un posto che non mi piace più.

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