Marc Marquez ha vinto la sua sfida più personale

Allora: diciassette vittorie su ventidue partenze tra sprint e Gran Premi. Undici sprint e undici gare. Ripetiamo: Marc Márquez ne ha vinte diciassette su ventidue. Fermiamoci qui. Perché il punto è questo: non è un algoritmo, non è la moto di un altro pianeta. È lui. Più forte degli altri, in sella alla Ducati, che tra tutte le moto in pista è la più riuscita. Punto. Un po’ di scorno in giro c’è. Si sente. L’amaro di chi non ce la fa o teme di annoiarsi, contro la gioia sfrontata che pervade Marc ogni volta che mette le ruote in pista. Accade da quando Ducati, scarificando anche dirigenti in disaccordo con Dall’Igna – timorosi di sembrare ingrati con Bagnaia e di distruggere equilibri costruiti con fatica – gli ha messo in mano il gioiello rosso. E la storia è questa: gli altri si consumano tra test, prove e dati. Lui no. Primo giro, primo turno, è già davanti. Secondo giro idem. Terzo pure. Poi lo perdi di vista fino alla domenica pomeriggio, quando lo ritrovi vincitore, saltellante nel box, circondato da gente che fino a un anno fa saltellava per Bagnaia. E Pecco sta in un angolo, rispettoso. Non per astio, ma perché la sua casa è stata invasa da uno che non ha colpe, e per cui in Ducati ora vanno tutti matti. C’è di buono che i piloti, quasi tutti, sono leali. I fatti li mettono in tasca, anche quando fanno male. Cercano giustificazioni sul momento, ma poi digeriscono e rilanciano. Bagnaia fa bene a voler ritrovare il sé stesso dello scorso anno, e tutti in griglia fanno bene a pensare di poterlo battere. Entrare in pista battuti in partenza è vietato per mestiere. Ma davanti a Marquez si migliora solo partendo da un principio: lui è imprendibile, e la domanda è “come faccio a prenderlo?”. La risposta magari non arriverà mai, ma la testa non si arrende. Il problema extra di Pecco è che, prima di arrivare a Marc, deve superare pure Alex. Marc l’aveva messo in conto, Alex no: è un imprevisto in mezzo a questioni tecniche e motivazionali non da poco. Il pubblico pretende piloti d’acciaio, senza anime, psiche, cupezze. Funzioni? Sei un fenomeno. Non funzioni? Sei sopravvalutato. Eh, calma: quelli che oggi si misurano con Marquez si misurano con uno dei più forti della storia. Senza rassegnazione, ma con realismo. Bezzecchi è più libero: non fa paragoni, non si lamenta. Ma a Bezzecchi non hanno messo Marquez nel box. La storia che rischiava di fermarsi La vera notizia è che Marquez ha vinto la sua sfida più personale. Uno che in carriera ha generato genio e qualche esempio non virtuoso, oggi ne regala uno esaltante: rinascere si può. Un messaggio anche per chi, fuori dalle piste, vede solo buio e speranze fratturate. Marc ha litigato con sé stesso, ha sofferto. Non è più il ragazzino di gomma che tirava giù la moto per cercare il limite come se fosse invulnerabile. Ha vinto otto mondiali, ma poteva anche essersi fermato lì. L’elenco è noto: braccio rotto malamente a Jerez 2020, quattro operazioni , infezione con rischio al nervo radiale, ricostruzione e riposizionamento dell’omero, mesi di fisioterapia per imparare di nuovo a sollevare prima un bicchiere e poi una moto. E in mezzo pure una Honda che, senza di lui, aveva smesso di funzionare. Se riparti da lì, con la stessa qualità di prima, non te la godi? Marquez se la gode. Corre gestendo, in equilibrio tra il rischio di distrarsi con un ritmo gara troppo controllato e la vecchia foga eccessiva. Sta nel mezzo, si controlla e controlla gli altri. Vince. Tutto. L’indizio di Valencia Quando decise di lasciare Honda, fu un terremoto. Undici anni di fedeltà, sei titoli MotoGP e valanghe di vittorie, mollati di colpo. Qualcuno parlò di scelta comoda, ma lui sapeva che restare in Honda significava vegetare a metà classifica. Marc, come Rossi, non è nato per arrivare ottavo. Valencia, inverno 2023. Primo test Ducati Gresini. Esce, rientra, toglie il casco e si apre in un sorriso che vale più di mille parole. Ha trovato LA moto. LA marca. La sua strada per tornare in cima passava di lì. Nessun dubbio, nessun rimpianto. La Ducati non era la Honda: più pesante in inserimento, più rotonda in percorrenza, più fisica. Per uno che guidava tutto di istinto davanti e di traverso, era come chiedere a un jazzista di suonare Bach. Ha imparato anche questo. Si è riprogrammato: più pulito, più rotondo, meno istintivo. Il divertimento ora è nei distacchi che infligge, non nelle manovre spettacolari. E quando Marc si diverte, sono guai per tutti. Ma non è più il Márquez del 2019: niente provocazioni, niente litigi, niente scorrettezze. Il massimo che fa è collaborare con Alex quando serve, e non è vietato. Stimolo o scusa? Marquez deve essere uno stimolo, non una scusa. In uno sport dove la tecnologia livella e il margine umano si assottiglia, lui è la prova che il fattore pilota conta ancora. Non si compra, non si insegna. È roba che hai dentro. Marc oggi è testa e velocità pura. E ora che è ripartito, gli altri, dopo qualche mugugno, dovrebbero prenderlo come metro. Il livello lo fissa lui. E se vuoi batterlo, quella è la meta. Anche se non lo fosse mai.

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Marc Marquez ha vinto la sua sfida più personale

Guido Meda