Per Scott Dixon l’età è solamente un numero

Sono passati 25 anni da quando, nel pieno dello scontro tra Cart e Indy Racing League, il mondo delle ruote scoperte americane ha accolto con grandi aspettative un velocissimo ventenne di origini neozelandesi, volto che di lì a poco avrebbe alzato l’asticella delle gare a stelle e strisce. Scott Dixon non ha impiegato molto tempo a vincere, anzi, alla terza gara della carriera ha messo il timbro sul primo successo trionfando a Nazareth nel 2001. Da quel 6 maggio sono passati 24 anni, ma la storia non è cambiata e domenica scorsa il numero di vittorie ha toccato quota 59, abbinate peraltro ai 6 titoli conquistati a partire dal 2003. Non sono molti gli atleti in attività capaci di vantare una carriera tanto longeva quanto gloriosa come quella di 'Iceman', soprannome che deriva dalla metodologia analitica con cui approccia e studia da sempre le gare, punto di forza che ha spesso piegato la concorrenza. La maggior parte degli storici avversari diretti ha appeso il casco al chiodo, molti per scelta altri per necessità, mentre Dixon sta continuando a correre senza accusare l’età che, a questo punto, rappresenta un mero numero. L’acuto di domenica scorsa in Ohio, dovuto anche all’errore di Alex Palou, ha permesso al 44enne neozelandese di raggiungere la 21esima stagione consecutiva con almeno una vittoria, una parentesi temporale decisamente estesa che fa capire quanto Dixon sia stato capace di adattarsi ai numerosi cambiamenti nel corso della carriera. In più di due decenni il pupillo di Chip Ganassi Racing ha guidato e vinto gareggiando con ogni tipologia di monoposto, dalla Cart di inizio millennio all’attuale IndyCar con aeroscreen e motori ibridi, passando sia per i complicati telai Panoz/G-Force sia per tutte le generazioni Dallara. Ad ogni modifica regolamentare è puntualmente corrisposta la presenza di Dixon nei piani alti della classifica e anche quando la serie ha iniziato ad accogliere le nuove generazioni lui ha risposto presente. Non era così scontato, anzi, perché da qualche anno a questa parte la IndyCar ha cambiato fisionomia ed è diventata un’opzione più che concreta per molti giovani e veloci piloti. La griglia si è rinverdita e tanti esperti hanno fatto fatica a tenere il passo. Anche Dixon ha avuto delle fisiologiche difficoltà, tant’è che prima di tornare sul gradino più alto del podio in Ohio ha dovuto aspettare più di un anno poiché, almeno inizialmente, l’ibrido è risultato un po’ indigesto. È servito giusto in po’ di tempo per ambientarsi, poi il resto è venuto da sé, lavorando sottotraccia come sempre fatto. Fa pensare anche che dei 27 piloti in griglia sei non fossero ancora nati quando Dixon vinceva la prima gara in carriera. Forse è proprio questa la statistica più sbalorditiva perché raffigura a pieno la longevità di una carriera che da quando è decollata ha avuto solo rari cali, spesso coincidenti con delle difficoltà tecniche legate a monoposto poco competitive come le Panoz del triennio 2004-2006. Nello stesso periodo Dixon ha avuto anche modo di avvicinarsi alla Formula 1, svolgendo nel 2004 dei test con una Williams in cerca di un pilota per il dopo Montoya, già accasatosi in McLaren per il 2005. La porta della F1 è però rimasta chiusa, ma Dixon ha sempre detto di aver ritrovato nelle corse americane la propria dimensione, una sensazione cresciuta a dismisura una volta portata a casa anche quella 500 Miglia di Indianapolis del 2008 che ogni anno tenta di bissare. Tra pochi giorni Dixon compirà 45 anni e, sebbene il settimo titolo della carriera rappresenti ora come ora una possibilità remota visto il potenziale di Alex Palou, è ormai chiaro che la fame agonistica non si plachi nemmeno di fronte allo scorrere del tempo. Questo Chip Ganassi lo ha capito e tanto basta per continuare a dargli fiducia nonostante la folta schiera di freschi e competitivi volti arrivati anche dal paddock della F1.

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Per Scott Dixon l’età è solamente un numero

Matteo Pittaccio