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Auguri Larry Bird, 60 anni da leggenda

NBA
Larry Bird durante la cerimonia dell'introduzione del Dream Team 1992 nella Hall Of Fame (Foto Getty)

Larry Bird compie 60 anni. Icona del basket Nba, è l'unico a essere riuscito in quarant'anni di carriera Nba a vincere sia nelle vesti di giocatore che da allenatore e da general manager

Sessant’anni dopo Larry Bird vive ancora in Indiana, non lontano da West Baden Springs, la città in cui è nato il 7 dicembre 1956. L’attuale presidente degli Indiana Pacers difficilmente avrebbe ipotizzato durante gli anni complessi della sua infanzia (padre suicida) di diventare un’icona del basket proprio nello stato in cui il legame con la palla a spicchi è più viscerale che altrove. Simbolo della rinascita dell’Nba negli anni Ottanta, il numero 33 dei Celtics è l’unico ad aver vinto sia il premio di miglior giocatore Nba che quelli di allenatore e manager dell’anno. Un’eccellenza, in ogni ruolo ricoperto all'interno della lega.

In campo – Per riuscirci ha dedicato gli ultimi quarant’anni della sua vita alla Nba. Sesta scelta assoluta al draft del 1978 dopo i tre passati a Indiana State, fin dal suo esordio nella lega insieme a Magic Johnson nel 1979, Bird è diventato il volto da copertina delle sfide fratricide tra Boston Celtics e Los Angeles Lakers degli anni Ottanta. Il numero 33 è stato per molti aspetti un precursore dello sviluppo attuale della pallacanestro, uno dei migliori realizzatori della storia Nba con i piedi oltre l'arco ben prima che il tiro da tre diventasse popolare e usatissimo, ma anche giocatore super completo capace di fare tutto in campo. I tre titoti e le decine di premi e riconoscimenti individuali raccolti sono arrivati anche grazie a queste caratteristiche, oltre che a un’etica del lavoro fuori dalla norma. “Correvo e mi allenavo ogni volta che potevo, anche prima dei match. Facevo cinque chilometri per riscaldarmi e poi scendevo in campo. Non ero mai stanco”, ricorda il diretto interessato, che ha pagato a caro prezzo le conseguenze di quanto chiesto al suo corpo negli anni. La sua schiena in particolare gli ha sempre creato dei grattacapi, costringendolo a una carriera più breve di quanto fosse lecito aspettarsi. “Al mio secondo anno nella lega, Artis Gilmore [ex-giocatore Nba, ndr] mi disse prima di un All-Star Game: ‘Sei davvero un ottimo giocatore, Larry. Diventerai uno dei grandi di questo sport. Ma se continui a scendere in campo con questa intensità, non durerai a lungo'. Gli risposi che non avrei potuto giocare in modo diverso: conoscevo solo quello”. 

In panchina – E nel suo personalissimo modo Bird ha interpretato anche il ruolo di coach. Dopo l'Olimpiade vinta con il Dream Team nel 1992 a Barcellona e il seguente ritiro dovuto agli ormai cronici problemi alla schiena, il tre volte Mvp non ha lasciato il mondo del basket né tantomeno la sua squadra, continuando a lavorare per cinque anni come assistente nel front office dei Boston Celtics. A offrigli una panchina però, nel 1997, sono gli Indiana Pacers, ai quali Bird non riesce a dire di no e verso i quali pone una sola clausola: “Allenerò per soli tre anni”. Detto, fatto - come sempre quando si parla di lui. Il triennio 1998-2000 regala al pubblico dell'Indiana cavalcate memorabili e un ciclo mai replicato in casa Pacers, chiuso con la finale Nba persa in sei gare contro i Lakers di Shaq e Kobe. Ancora loro, come se non potesse fare a meno di incrociare il proprio destino con quello dei gialloviola. Nonostante il successo ottenuto da allenatore, Bird resta però fedele ai suoi piani: lascia la panchina dei Pacers per un volontario esilio di tre anni lontano dai riflettori.

General manager – La voglia, però, è ancora tanta e l'inevitabile ritorno ai Pacers nel 2003 lo vede coinvolto nelle vesti di "President of Basketball Operation". Ruolo che nell’arco di un decennio gli permetterà di conquistare l’unica onorificenza individuale che gli mancava: il premio come miglior executive dell’anno nel 2012, dopo i sorprendenti risultati ottenuti dalla squadra fermata soltanto in semifinale di conference dagli Heat di LeBron James. Un coinvolgimento - quello nel suo ruolo dirigenziale - diretto, continuo, che non sembra venir meno con il passare degli anni. “Ricordo ancora le sensazioni che ho provato durante gara-7 delle finali di conference 2013 a Miami, una partita in cui non stavamo giocando bene. Ero lì che pensavo: ‘Quanto vorrei poter entrare in campo e dare una mano a Paul (George) e David (West)’”. In questi sessant'anni, per certi versi, nulla sembra essere cambiato. Tutto è rimasto come quando era lui a scendere sul parquet: “Avevo il desiderio di vincere ogni partita e nella mia testa ero convinto che l’unico modo per riuscirci fosse quello di essere sempre nella miglior condizione fisica”. Proprio come adesso che a correre in campo ci pensano gli altri. Lui, in fondo, non ha mai smesso di farlo. Buon compleanno Larry Legend