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I Monstars del futuro sono già tra noi

NBA

Dario Vismara

Da sinistra a destra: Towns, Antetokounmpo, Embiid, Ingram e Porzingis: i Monstars di un futuro già tra noi [illustrazione di DAVIDE BARCO]
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A vent'anni da Space Jam, cinque giocatori incarnano come mai nessuno prima il prototipo dei giocatori mostruosi del futuro. Sono Giannis Antetokounmpo, Brandon Ingram, Kristaps Porzingis, Karl-Anthony Towns e Joel Embiid: con loro la pallacanestro entra una nuova fase

Cercando la parola “freak” sul dizionario, la prima definizione che si trova è la seguente: “Termine introdotto negli anni Settanta per indicare chi, specialmente tra i giovani, rifiutava apertamente le ideologie, adottando comportamenti anticonvenzionali e anticonformistici”. Allo stesso modo, la parola “freak” indica anche quelli che noi in italiano chiameremmo “fenomeni da baraccone”, quelli dei freak show, spettacoli itineranti di metà Ottocento-inizio Novecento che mostravano persone dall’aspetto insolito e inconsueto – qualcuno di molto alto, magari, o dalle capacità e abilità estreme – in grado di scioccare le persone accorse a vederli. Trovare dei nuovi “fenomeni da baraccone” per risollevare le sorti del loro decadente parco divertimenti era anche l’obiettivo degli alieni di Space Jam, film di culto del 1996 con protagonista Michael Jordan e i personaggi dei Looney Toons. Chiunque sia cresciuto negli anni ’90 sa come si sviluppa la trama: Bugs Bunny e soci riescono a convincere i piccoli mostriciattoli alieni che una partita di pallacanestro sia il modo giusto per giocarsi la propria libertà, convinti che la loro scarsa altezza sarebbe stata facile da superare su un campo da basket. Solo che gli alieni riescono a impadronirsi del talento di cinque giocatori NBA — Charles Barkley, Patrick Ewing, Larry Johnson, Shawn Bradley e Muggsy Bogues — trasformandosi negli abnormi Monstars e costringendo i personaggi dei cartoni animati a chiedere aiuto a Michael Jordan. Il resto della storia lo sapete già, ma fermiamoci un attimo al concetto di Monstars. Se potessimo dare un consiglio agli sceneggiatori dell’annunciato Space Jam 2, i cinque giocatori che vi presentiamo in questo pezzo sarebbero perfetti per ricoprire i ruoli di Monstars 2.0. Forse non diventeranno forti come i cinque del film originale e nemmeno riusciranno a ripetere le loro imprese nella NBA, ma sicuramente si calano perfettamente nelle caratteristiche dei “freak” — non solo nelle dimensioni spropositate, ma anche nella portata anticonvenzionale del loro gioco. Non più “fenomeni da baraccone” ma semplicemente fenomeni, in grado di imporsi come figure di riferimento con cui avremo a che fare per i prossimi dieci anni di NBA. Per questo conviene imparare a conoscerli in fretta.

 

GIANNIS ANTETOKOUNMPO | MILWAUKEE BUCKS

 

Se dovessimo racchiudere il gioco di Giannis Antetokounmpo in dieci secondi, con ogni probabilità ricorreremmo a questa giocata, esibita nella sua miglior partita disputata finora in NBA, quella di tre settimane fa contro i Cleveland Cavaliers.

In appena 10 secondi c’è tutto: la capacità di coprire il campo orizzontalmente quando ruota su Tristan Thompson; la velocità di mani nel rubargli il pallone; l’immediata partenza per creare transizione e attaccare in campo aperto; l’irreale coordinazione per superare la chiusura di Kyrie Irving sulla linea laterale; e infine l’atletismo per finire al ferro. Il tutto impiegando solo quattro palleggi per coprire 25 metri di campo, grazie a un corpo che ormai è vicino ai 213 centimetri e ha superato i 100 chili. Una mole che, in un’altra epoca, lo avrebbe costretto a giocare stabilmente nei pressi del ferro.

Uno strano playmaker – Invece Antetokounmpo — sempre che un talento del genere possa essere rinchiuso nella definizione di un ruolo — è a tutti gli effetti una point guard. O meglio, è questo il ruolo che gli è stato affidato sul finire della scorsa stagione e nel quale verrà sviluppato nei prossimi anni, affidandogli il più possibile il pallone nelle mani già dall’inizio dell’azione. “The Greek Freak” (freak, non a caso) infatti è al suo meglio quando può creare transizione: se la difesa recupera il pallone, che sia con un recupero o con un rimbalzo, consegnargli immediatamente la palla è la miglior soluzione possibile per stappare come una Magnum di champagne il suo potenziale distruttivo in campo aperto. Quando mette in moto il suo motore da 213 centimetri, non esiste un avversario che possa frapporsi fra lui e il canestro, anche perché ha un controllo del corpo lanciato in velocità semplicemente irreale: se si sta troppo fermi, basta un Euro-step per vedersi aggirati; se si prova a scivolare insieme a lui, alza il pallone e con un Hot-step è già al ferro; se si mandano difensori in aiuto, vede il campo da talmente in alto che diventa persino semplice servire un compagno meglio piazzato. Ancor prima delle doti atletiche da freak, è proprio la capacità di passare il pallone quella che ha convinto Jason Kidd — dall’alto dei suoi 12.091 assist in carriera, secondo nella storia NBA — a mettergli il pallone tra le mani e lasciare che creasse per sé e per gli altri. “Abbiamo appena incominciato a vedere dove ci può portare”, ha dichiarato in un pezzo su Espn l’allenatore dei Bucks. “Per ora ha dimostrato che può giocare tanto con la palla in mano, ma verrà un momento in cui cercheremo di alzare l’asticella per vedere che cosa è in grado di fare”.

Istinti & consapevolezza – È proprio questa la cosa che più fa spavento del 22enne (ventiduenne!) greco: ha ancora enormi margini di miglioramento. Nonostante nessuno nella storia della NBA abbia mai tenuto le cifre che sta registrando in questa stagione (23 punti, 9 rimbalzi, 6 assist, 2 recuperi e 2 stoppate di media), ci sono ancora tantissimi aspetti del gioco in cui sembra fare la prima cosa che gli viene in mente. Difetto che peraltro ha ammesso lui stesso, con la consueta ingenuità che lo ha reso un personaggio popolarissimo: “Onestamente, non sempre penso a come fare certe cose, è solo istinto. Vedo il passaggio giusto e lo faccio. Ho sempre fatto così”. Pensate adesso a cosa potrebbe diventare se iniziasse a comprendere davvero cosa succede intorno a lui e a prevedere quello che accadrà in campo — tutte cose che per adesso si vedono solo in brevi lampi di assoluta onnipotenza,  ma che con il tempo, l’esperienza e un po’ di fortuna diventeranno abitudine. Quello che lo rende realmente speciale, però, è l’impatto distruttivo che riesce ad avere anche nella metà campo difensiva. Già adesso è una forza della natura inarrestabile, specialmente quando può arrivare in aiuto dal lato debole e estendere tutti i 221 centimetri delle sue braccia, come in questa occasione in cui stoppa non una ma due volte Aaron Gordon, che a tempo perso sarebbe uno dei migliori schiacciatori NBA. Quando gli avversari incontrano Antetokounmpo negli ultimi tre metri di campo tirano mediamente il 13% peggio rispetto a quanto fanno normalmente — il miglior dato di tutta la lega, compresi i centri intimidatori che di mestiere farebbero proprio quello.

A un tiro di distanza dalla consacrazione – L’aspetto del gioco su cui girerà tutta la carriera di Antetokounmpo è però il tiro in sospensione, che al momento rappresenta il suo più grande tallone d’Achille. Non essendo un tiratore naturale — anche perché avere sensibilità nei polpastrelli quando la tua mano è larga 30 centimetri è tutt’altro che facile — tende a pensare troppo quando è costretto alla conclusione dall’arco, difficoltà ben testimoniata dal 25% da tre che sta tenendo in questa stagione e ai problemi emersi nel crearsi un tiro in isolamento, dove tende a buttare troppo indietro le spalle perdendo equilibrio. Ma la meccanica di tiro non è irrecuperabile ed è già oggetto di attento lavoro in palestra: il 52% di percentuale effettiva che sta tenendo sulle conclusioni “wide open” (ovverosia col difensore lontano almeno due metri) è sotto questo punto di vista molto incoraggiante. Al suo quarto anno nella lega, Giannis Antetokounmpo ha già fatto vedere tanto di quello che sa fare, ma ancora di più ha fatto intravedere: in questo momento non esiste un progetto tanto affascinante quanto quello del prototipo di point guard del futuro sbarcato a Milwaukee nell’estate del 2013.

 

BRANDON INGRAM | LOS ANGELES LAKERS

 

Se Antetokounmpo ha già mostrato tanto, il rookie Brandon Ingram deve ancora far vedere a pieno di cosa è capace, ma da quel poco che si è intravisto possiede le stigmate del grande giocatore. Fino ad ora i Los Angeles Lakers — che lo hanno scelto alla numero 2 dello scorso Draft dopo un’ottima annata di college a Duke — lo hanno inserito lentamente, facendolo uscire dalla panchina per la maggior parte delle partite e concedendogli 27 minuti di media. Soprattuto, l’allenatore Luke Walton ha deciso di affidargli poche responsabilità offensive in quanto a realizzazione, anche perché insieme a Ingram dalla panchina si alzano Lou Williams e Jordan Clarkson. Proprio la presenza di due guardie con punti nelle mani rende interessante lo sviluppo di Ingram, che come Antetokounmpo molto spesso si ritrova a gestire il pallone proprio dall’inizio dell’azione, ricoprendo un ruolo “à la Iguodala” mentre Williams e Clarkson corrono sui blocchi “à la Splash Brothers”. D'altronde, fino alla scorsa stagione Luke Walton sedeva proprio sulla panchina dei Golden State Warriors.

Transizione college-pro — Quella di far “bagnare i piedi” ai rookie affidandogli delle responsabilità nella costruzione dell’azione è una delle consuetudini degli allenatori per fare in modo che si abituino in fretta alla velocità della NBA — forse l’aspetto più difficile da affrontare per una matricola nella transizione dal college al professionismo. Come ci si poteva facilmente immaginare, Ingram fino ad ora ha incontrato delle difficoltà, in particolare quando si tratta di gestire il pallone nel pick and roll (con 0.46 punti per possesso è il peggiore dell’intera NBA, anche se è in miglioramento e ha fatto intravedere buone doti nel servire il rollante) e nell’andare in transizione. Se il primo dato è giustificabile per la mancanza di esperienza tra i pro, il secondo espone forse il dubbio più grande sul suo gioco, quello legato all’atletismo.

Più tiratore che atleta – Ingram infatti possiede un corpo che colpisce prima di tutto per il suo aspetto quasi scheletrico, con braccia e gambe magrissime che lo rendono simile a una mantide di 206 centimetri. Questo lo rende un atleta molto fluido ma anche poco esplosivo, e fino a questo momento sta incontrando grosse difficoltà nel reggere i contatti e nel concludere al ferro proprio per una mancanza strutturale di forza, oltre che di quel po’ di malizia necessaria nel proteggere il pallone, cosa che lo porta a subire più stoppate (19) che a effettuare schiacciate (solo 5). Tutte lacune perfettamente normali per un’ala della sua età (ha appena compiuto 19 anni) e col suo fisico, destinate probabilmente a migliorare col tempo, anche perché i Lakers nel suo caso hanno deciso di impostare un programma di irrobustimento sul lungo periodo per non andare a rovinare le cose che Ingram fa già egregiamente, come la perfetta meccanica di tiro. Nonostante i numeri non lo confortino — sotto il 40% di percentuale effettiva, solo il 30% da tre — ogni tiro scoccato dal numero 14 dei Lakers dà l’impressione che il pallone sia destinato a trovare il fondo della retina. Il movimento di caricamento è fluido e rapidissimo e, considerando l’altezza da cui parte la conclusione grazie ai 221 centimetri di apertura alare, quando sale è virtualmente inarrestabile, cosa che fa ben sperare per il suo sviluppo come tiratore d’élite sugli scarichi. Già adesso, nonostante le note difficoltà, Ingram è un tiratore piedi-per-terra ben sopra la media (1.08 punti per possesso, 70° percentile) e la possibilità di tirare sulla testa di chiunque è intrigante per un futuro sviluppo da giocatore in post basso, situazione nella quale Ingram tiene già medie interessanti (1 punto per possesso, 80° percentile). Perché quando puoi tirare e segnare sopra le braccia in piena estensione di Anthony Davis, vuol dire che Madre Natura ti ha dotato di qualcosa di speciale.

Durant o chi? – Il motivo per cui Ingram è stato scelto così in alto, però, sono le doti da realizzatore di alto livello, che possono renderlo il punto focale di un attacco visto la sua potenziale immarcabilità. È inevitabile che in un eventuale paragone il primo nome sulla bocca di tutti — per conformazione fisica e doti di tiro — sia quello di Kevin Durant. Ingram ha oggi meno responsabilità realizzative rispetto al primo Durant, che nella sua annata da rookie a Seattle poteva prendere e sbagliare quanti tiri voleva; è confortante però vedere come anche KD avesse tirato solo col 28% da tre in quella stagione, e i viaggi in lunetta (un altro dei problemi di Ingram visto che si procura pochi liberi, innamorandosi fin troppo del jumper) fossero all’incirca gli stessi se aggiustati al diverso volume di tiro. Questo non significa che Brandon Ingram raggiungerà il livello di Durant né che sia lo stesso identico giocatore (anche perché non sappiamo quanto possa essere decisivo anche nella metà campo difensiva), ma solo che le possibilità che diventi un campione del calibro degli altri quattro Monstars sono ancora perfettamente intatte.

 

KRISTAPS PORZINGIS | NEW YORK KNICKS

 

Quando Kristaps Porzingis si è presentato al Draft del 2015, aveva tutto l’aspetto di un bust. Ne aveva le fattezze — bianco pallido, magrissimo, quasi goffo nel suo modo di porsi — e il pedigree — visto che di lunghi europei scelti così in alto in grado di diventare giocatori-franchigia ce ne sono stati davvero pochi nella storia. Anzi, diciamoci la verità, ce n’è stato solamente uno: Dirk Nowitzki.

 

Impossibile da marcare – Come Nowitzki, la presenza di Kristaps Porzingis pone dei dilemmi tattici alle difese avversarie che sono di difficile soluzione. Per prima cosa le sue doti di tiro, unite all’altezza vertiginosa, lo rendono non solo potenzialmente ma effettivamente immarcabile: uno dei dati più straordinari di questo suo inizio di stagione ci dice che quando riceve e tira coi piedi per terra, per lui non fa differenza essere marcato o smarcato, perché segna comunque con la medesima efficienza (è nel 60° percentile in entrambi i casi). Una statistica confermata anche dall’occhio, visto che quando si prende certe conclusioni non c’è veramente nulla che si possa fare per fermarlo. Un semplice pick and pop centrale che lo coinvolge è una situazione di gioco che impone automaticamente una scelta scomoda alla difesa avversaria. Se lo si lascia libero seguendo il piccolo, riceve e spara sopra la testa di chiunque senza farsi troppi problemi (80° percentile in quelle situazioni), ma allo stesso tempo è abbastanza intelligente da riconoscere lo spazio e buttarsi a canestro. Se si prova il recupero in closeout, possiede una sorprendente capacità di mettere palla per terra e di mettersi in ritmo con il palleggio (1.04 punti per possesso, 85° percentile) grazie a dei fondamentali incredibilmente rifiniti considerando la stazza. Se la difesa infine decide di cambiare, ha un tale vantaggio di centimetri contro un esterno da far risultare il matchup quasi comico, e il suo rendimento è già eccellente quando gioca in post basso e può svitarsi sulla spalla sinistra. Auguri a chiunque volesse avventurarsi a contestare il tiro lassù da dove parte, a quasi tre metri di altezza.

Atleta e difensore – Quello che lo differenzia e lo rende potenzialmente ancora più intrigante rispetto a una leggenda come Nowitzki è il sottovalutatissimo atletismo del suo gioco. Mentre Dirk al suo massimo possedeva una fluidità nei movimenti irreale che gli permetteva di crearsi un tiro in qualsiasi situazione, Porzingis è un atleta pazzesco che oggi dà l’impressione di essere notevolmente più grosso (e per certi versi anche più alto!) rispetto alla sua annata da rookie. Questo gli permette giocate che non gli riuscivano a un anno fa: questa stagione ad esempio ha già chiuso 14 giochi da tre punti in 25 partite, mentre nel primo anno erano stati solamente 13 in 72 (e anche la sua percentuale di tiro nell’ultimo metro di campo è salita del 15%). Soprattutto, è l’impatto difensivo a renderlo un giocatore generazionale. Già adesso gli avversari contro di lui al ferro tirano con l’11% in meno rispetto a quanto fanno normalmente, dato che racconta di quanto possa essere terrificante la visione delle sue braccia sotto canestro, ancor più del grezzo 1.8 che registra alla voce “stoppate a partita”. Quello su cui fa più fatica è la capacità di cambiare sui piccoli dopo il pick and roll, perché rimanere davanti alle point guard che infestano i campi della NBA è difficile già per i giocatori di 1.90, figuriamoci per uno di 2.20 che necessariamente paga un deficit di rapidità nel muovere i piedi. Per la combinazione di tutte queste caratteristiche Kristaps Porzingis viene definito “The Unicorn”, un animale mitologico che tutte le squadre vorrebbero avere ma che in pochi possono dire di avere visto. Un giocatore del genere passa una volta ogni tanto, e considerati il mercato in cui gioca e i margini di miglioramento — in isolamento può ancora lavorare molto, così come nell’adattarsi a cosa gli propone la difesa sviluppando contro-movimenti per diventare immarcabile — è destinato a diventare una dei volti più riconoscibili di tutta la NBA.

 

KARL-ANTHONY TOWNS | MINNESOTA TIMBERWOLVES

 

 

La partita dello scorso 30 novembre rischia di diventare, in retrospettiva, una delle gare più interessanti della stagione. A prima vista poteva sembrare una semplice sfida di regular season tra New York Knicks e Minnesota Timberwolves, ma in realtà si è trasformato nel primo incontro di un certo peso tra Kristaps Porzingis e Karl-Anthony Towns. Il lungo dei Knicks si è preso la vittoria dopo una prestazione da 29 punti e 8 rimbalzi, ma è stato il secondo a far registrare una prestazione monstre da 47 punti e 18 rimbalzi. In quella partita si è potuto vedere tutto l’immenso arsenale del rookie dell’anno 2015, un matchup nightmare di 213 centimetri capace di segnare da ogni punto del campo e in grado di punire qualsiasi difesa con la stessa efficacia. È la completezza il tratto distintivo del suo gioco: Towns è un lungo vero, grosso, atletico, forte fisicamente, veloce e dotato di mani sinfoniche. Se accoppiato con un lungo più leggero, ha movimenti in post basso e tocco nei pressi del ferro per mangiargli in testa, oltre alla capacità di spostare l’avversario per cercare il contatto e mettersi in ritmo; quando ne ha davanti uno più lento, lo porta lontano da canestro e lo punisce con un jumper minimalista (i piedi quasi non lasciano terra quando fa partire il tiro) oppure ubriacandolo con palleggi velocissimi e un campionario di step-back da guardia purissima.

Sulle orme di Garnett – A tutto questo unisce una ferocia rara per un giocatore della sua età (21 anni appena compiuti), evidente dal modo in cui si avventa sulle palle vaganti, cerca di schiacciare in testa agli avversari e allo stesso tempo non si dà mai per vinto, cercando di mettere in campo un’intensità quasi Garnettiana. Rispetto al numero 21 che ha fatto la storia dei T’Wolves, con cui ha condiviso lo spogliatoio nella scorsa stagione, Towns non ha né l’impatto difensivo né le sue doti di playmaking occulto, ma in entrambi gli aspetti il domenicano ha già fatto intravedere capacità intriganti. Se riuscisse ad aggiungere questi due elementi al suo gioco diventerebbe definitivamente un giocatore senza difetti, condizione che per certi versi è ancora migliore che l’avere uno o due “superpoteri” ad accompagnare delle mancanze che possono essere sfruttate dagli avversari. Paradossalmente però, avere a disposizione tutto questo ben di Dio non aiuta Towns nelle scelte: sapendo fare bene tutto, non è sempre facile per uno come lui scegliere la cosa migliore da fare in ogni situazione.

Margini di miglioramento – Per quello che è il suo carattere, poi, Towns sente il peso di essere il leader di una squadra che prima dell’inizio della stagione era attesa a battagliare per un posto ai playoff e che ora si ritrova nei bassifondi della Western Conference. Towns non è immune ai grossi problemi che i T’Wolves hanno incontrato nei secondi tempi di questo primo quarto di stagione: nei primi 24 minuti tira con il 55% di percentuale effettiva, dato che crolla sotto il 46% dopo l’intervallo, con la squadra che passa da un +6.8 di differenziale su 100 possessi (il sesto migliore della lega!) a un incomprensibile -13.1 (il peggiore in assoluto). Ciò nonostante, KAT è stato uno dei pochissimi a rimanere mentalmente in partita anche nei momenti più drammatici, cercando comunque di caricarsi la squadra sulle sue spalle – pur senza riuscirci sempre, cosa che fa aumentare la sua frustrazione e non lo fa giocare libero di testa. A oggi il numero 32 di Minnesota è un giocatore che è ancora al suo meglio quando viene azionato dai compagni e scatena tutta la sua potenza distruttiva attaccando il ferro (è uno dei migliori nel “roll” dopo il blocco), ma allo stesso tempo è eccellente nel riconoscere i compagni meglio piazzati e altruista nel servirli. Il repertorio è stato ben evidente nei primi tempi e quasi mai nei finali di partita, ma ci sono pochi dubbi che Towns sia un perenne candidato MVP della NBA. Il problema è capire come e quando succederà.

 

JOEL EMBIID | PHILADELPHIA 76ERS

 

 

Tra la narrativa che lo vuole Salvatore di quel Process ideato da Sam Hinkie e l’esilarante presenza sui social media, è facile perdere di vista quando Joel Embiid sia un giocatore veramente incredibile. I continui problemi ai piedi hanno fatto ritardare di due anni il suo debutto e ancora oggi lo limitano a un impiego inferiore ai 30 minuti a partita, ma il suo impatto è ben rappresentato dall’efficienza dei Philadelphia 76ers quando lui è in campo rispetto a quando non c’è. Nei 353 minuti da lui disputati finora i Sixers hanno un differenziale su 100 possessi di -0.7 — l’equivalente del 14° posto NBA, al momento occupato dagli Oklahoma City Thunder. Senza di lui il dato crolla a -11.4, vale a dire di gran lunga il peggiore di tutta la lega. Non che l’attacco dei Sixers sia particolarmente intrigante anche con Embiid in campo, sia chiaro, ma è comunque meglio rispetto a quanto si vede quando lui non c’è. La situazione è quasi imbarazzante: sin dalla primissima partita Philadelphia ha iniziato a dare palla in post basso a Embiid in maniera quasi ossessiva, affidandosi totalmente al proprio rookie. E lui ha iniziato a produrre punti fondamentali per tenere in piedi una squadra dal talento a dir poco scarseggiante, caricandosi sulle spalle l’intero peso del Process e facendolo diventare addirittura il suo soprannome.

Gioie & dolori – Il centro camerunense è secondo in tutta la NBA per possessi in post basso, sette a partita nonostante il minutaggio ridotto a 23.5 minuti. I risultati, ovviamente, non sono stati necessariamente immediati: Embiid produce punti nel 40% dei suoi possessi in post, soprattutto per l’eccellente capacità di cercare i contatti e procurarsi i tiri liberi (ne tira sei a partita, che converte col 77%) ed è a suo agio quando viene lasciato uno-contro-uno e ha il tempo di scatenare il suo arsenale di movimenti e contro-movimenti (0.963 punti per possesso, 54° percentile). Va invece in enorme difficoltà quando la difesa ha il tempo per adeguarsi su di lui, buttando via più di un pallone su tre quando raddoppiato, facendo lievitare il suo dato di palle perse all’astronomica quota di 3.7 a partita (sarebbe 5° nella NBA se si qualificasse coi minuti).

Post e tiro da tre – Se il gioco in post rappresenta la gran parte dell’arsenale offensivo di Embiid — e già questo è in controtendenza rispetto all’attuale NBA che va sempre più piccola, il che paradossalmente lo rende quasi anticonvezionale nella sua convenzionalità da “centro vero” — è tutto il resto del gioco a renderlo particolarmente moderno e generazionale. Innanzitutto è uno dei migliori lunghi da pick and roll dell’intera NBA, situazione nella quale sfiora il 70% di percentuale effettiva e subisce fallo in un possesso su cinque, tanto rollando verso il ferro (95° percentile) quanto allontanandosi per il tiro (semplicemente il migliore in assoluto). Dalla sua mattonella preferita – la tripla frontale – tira con il 47%, dato che lo posizionerebbe nella top-10 della lega (anche qui, se solo avesse i minuti sufficienti a qualificarsi). La cosa interessante sarà osservare come trasformerà la minaccia del tiro da fuori in opportunità per sbloccare altre parti del suo gioco, come ha mostrato in questo incredibile sottomano realizzato contro gli Atlanta Hawks.

Mostruoso – Ma l’attacco rappresenta solo la metà del suo gioco, perché nella sua area Embiid ha una presenza tale da permettere ai Sixers di passare dall’essere quasi la miglior difesa della NBA (100 punti su 100 possessi) a quasi la peggiore (108.3): praticamente la differenza tra il giorno e la notte. In effetti quando Embiid si trova nel pitturato per proteggere il ferro gli avversari tirano col 10.7% in meno rispetto a quanto fanno normalmente, vedendosi rispediti al mittente due palloni e mezzo a partita, quasi il 10% dei tiri da due tentati mentre Embiid è in campo — sarebbe leader NBA anche in questo parametro. Ricapitolando: Embiid è un giocatore di post basso in grado di tenere in piedi un attacco, può punire le difese che lo lasciano libero dall’arco, subisce una valanga di falli e allo stesso tempo è una tale àncora difensiva da rendere quella che senza di lui è la peggior difesa NBA in una delle migliori. Se non è mostruoso questo – considerando che ha iniziato a giocare a pallacanestro da poco più di sei anni e in NBA da poco più di un mese – davvero non sappiamo cosa lo possa essere.