Dietro la grande rimonta dei Dallas Mavericks - in corsa per i playoff dopo essere stati la peggior squadra NBA a fine novembre - c'è l'esplosione di Seth Curry, ora titolare per coach Rick Carlisle. E stufo di sentirsi definire sempre e soltanto "il fratello più piccolo di Steph"
Una partita con Memphis, una con Cleveland, due con Phoenix, un totale di 21 minuti in campo, 6 tiri presi, solo uno segnato. Ecco il riassunto delle prime due stagioni NBA di Seth Curry, uno che alle partenze false sembra quasi abbonato. Al college – ignorato dai grandi atenei, nonostante un’annata da senior liceale oltre i 22 punti, con 5 assist e 5 rimbalzi di media – aveva iniziato a Liberty (non certo un’università tra le più conosciute, nell’oscura Big South Conference) prima di fare il grande salto, scegliendo di trasferirsi a Duke. I Blue Devils che lo accolgono sono quelli campioni in carica dopo il trionfo del 2010, ma con lui in squadra, nel triennio successivo, non riescono mai neppure a centrare le Final Four NCAA. Motivo per cui al Draft 2013 nessuno fa il suo nome, nonostante un’annata da senior chiusa a 17.5 punti di media. Uno degli ultimi tagli in prestagione di Golden State (dopo una training camp al fianco di suo fratello Steph), la sua carriera da giocatore professionistica inizia quindi in D-League, sempre con gli Warriors ma a Santa Cruz. Ne mette 36 all’esordio assoluto ma gode di un momento di notorietà solo quando i media nazionali si accorgono che con lui in squadra gioca pure il fratellino di Klay Thompson, Mychal, facendo così del duo una copia sfortunata degli "Splash Brothers" in forza a Golden State. Bella storia da dare in pasto al grande pubblico, ma Seth è convinto di valere di più.
Re per un anno – Così, dopo due contratti da dieci giorni e altrettante partite in un anno – una con la maglia dei Memphis Grizzlies (il suo esordio nella NBA, il 5 gennaio 2014) e una con i Cavs – e altre due presenze con i Phoenix Suns la stagione successiva, il Curry più piccolo vede la sua carriera cambiare con l’approdo ai Sacramento Kings, che credono in lui offrendogli un biennale da due milioni di dollari garantiti. Nella capitale californiana, però, finisce per giocarci solo un anno, il primo previsto dall’accordo, al termine del quale sceglie di non esercitare la propria opzione ma mettersi sul mercato da free agent, forte delle sue 44 presenze in maglia Kings con quasi 7 punti a sera in meno di 16 minuti, con un ottimo 45% da tre punti. Su di lui scommettono i Dallas Mavericks, che hanno un backcourt affollato di nomi sicuramente più conosciuti (da Deron Williams a J.J. Barea passando per Devin Harris) ma anche dubbi sulla loro tenuta fisica. Dubbi fondati, a vedere le assenze di Barea (in campo solo 18 partite quest’anno), quelle di Williams prima del suo trasferimento ai Cavs (fuori per 16 gare) e tutto il primo mese passato in infermeria da Devin Harris per i problemi al piede. Cinica come poche leghe al mondo sanno essere, nella NBA è sempre di attualità il vecchio detto mors tua, vita mea e Seth Curry è solo l’ultimo esempio di giocatore capace di cogliere al volo l’occasione che gli si presenta.
Una progressione inarrestabile – Dopo qualche presenza sporadica in quintetto a inizio stagione e un paio di escursioni ai 23 punti, è dal 12 gennaio 2017 che l’annata di Seth Curry prende tutta un’altra piega. Da allora infatti coach Rick Carlisle lo rende uno dei suoi cinque titolari fissi e i Mavericks – che navigano sul fondo delle classifiche NBA con un record di 11 vinte a fronte di 27 sconfitte – ingranano le marce alte e vincono 13 delle ultime 21. Dal 29% scarso di successi si viaggia vicini al 62%, e la promozione in quintetto di quello che sempre meno viene liquidato come “il fratellino di Steph Curry” è un fattore importante nel successo di Dallas. “È un giocatore che ha molta fiducia in se stesso, è convinto di poter segnare contro qualsiasi avversario e ora questa stessa attitudine ce l’ho anch’io: ogni volta che lo vedo andare al tiro, sono convinto che il pallone finirà per entrare”, le parole del guru di casa Mavs, Dirk Nowitzki. “Ma Seth non sa solo tirare da fuori: sa come penetrare e quando si ritrova nel cuore delle difesa di fronte ai lunghi avversari ha un floater davvero pericoloso. È molto rapido, veloce, un aspetto del suo gioco che avevo sempre sottovalutato”. Una parola – sottovalutato – che oggi serve a definire il nuovo Curry, quello che viaggia a 16 punti a sera con il 47% da tre punti da quando è titolare dei Dallas Mavericks. Due partite fa, in trasferta nel Minnesota, è arrivato il suo massimo in carriera, la prima volta oltre quota 30 (13/17 dal campo per 31 punti) e nell’ultima gara disputata anche la soddisfazione di aver dominato per una volta la sfida a distanza contro Steph, con 5 triple (su 7) a segno in una serata da 29 punti contro l’incredibile 0/11 del fratello più famoso.
The Curry’s – Già nel lontano 2010, quando Steph non era certo un MVP e Seth neppure un giocatore NBA, la point guard degli Warriors diceva del suo fratello minore: “È uno dei migliori tiratori che io abbia mai visto”. Una certezza che gli veniva dall’aver visto Seth in tante partitelle estive reggere il confronto con giocatori NBA del calibro di Raymond Felton, Antawn Jamison o Gerald Wallace, ma anche dall’avergli sempre dato filo da torcere in estenuanti uno-contro-uno familiari disputati sul campo del Jewish Community Center di Charlotte. I due fratelli si sfidavano in 7 mini-partite, ognuna al meglio dei 7 punti. Era vietato chiamare i falli. Steph usciva spesso vincente, ma non sempre, perché a volte era anche Seth a vincere. Una sensazione che finalmente sta provando anche nella NBA.