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NBA: Da Jordan a Harden, il segreto degli occhiali

NBA

I Rockets hanno da poco iniziato a usare occhiali con luci stroboscopiche per allenare i propri giocatori. Un modo diverso per migliorare le proprie abilità, brevettato in maniera quasi “casuale” da Michael Jordan più di 20 anni fa

Gli Houston Rockets sono ormai da anni una delle squadre più all’avanguardia nel mondo NBA in quanto ad analisi dei dati e tecnologie applicate al basket. Una società che ha fatto dell’utilizzo dei numeri il suo credo, tanto in partita quanto in palestra. I texani infatti ormai da anni tracciano tutto ciò che accade durante gli allenamenti attraverso dei rilevatori con cui viene equipaggiato tutto il roster. Battito cardiaco, heatmap, velocità, accelerazioni: tutto viene scansionato e analizzato al fine sia di migliorare le prestazioni degli atleti oltre che a ridurre al minimo la possibilità di infortunio. L'ultimo metodo brevettato in casa Rockets è quello di far scendere i giocatori in campo con dei particolari occhiali “stroboscopici”, ossia con all’interno una luce che in maniera intermittente rende parziale la visuale del giocatore che li indossa. A questo poi vengono uniti esercizi di coordinazione, come ad esempio il palleggiare con una mano mentre si tenta di prendere una pallina da tennis con l’altra. Sì, sembra il circo, ma questo tipo di training ha una motivazione molto più logica di quanto l’apparenza lasci immaginare. Una spiegazione che risale addirittura ai primi anni ’90.

Il segreto di Michael Jordan - Michael Jordan infatti, durante la sua lunga esperienza da giocatore con la maglia dei Chicago Bulls, chiedeva spesso al suo trainer Tim Grover di allenarsi indossando degli occhiali da sole. Perché? Scherzando diceva che così sarebbe riuscito a evitare di essere accecato quando si ritrovava in lunetta o mentre prendeva un qualsiasi tiro sul parquet. I flash dei fotografi infatti ogni volta che toccava palla il numero 23 si moltiplicavano come per incanto; difficile resistere alla tentazione di immortale le sue gesta. Non solo lui ne era infastidito, ma anche coach Phil Jackson spesso si lamentava dei flash. Non perché mettessero in difficoltà la sua stella, ma semplicemente perché rendevano impossibile la vita agli arbitri nel giudicare la regolarità dell'azione ogni volta che Jordan prendeva un tiro. Difficile capire l’entità di un contatto quando pochi istanti dopo si veniva spesso accecati da luci provenienti da ogni direzione. Uno dei “nemici” dichiarati dell’allora coach dei Bulls era Andrew Bernstain, pioniere della fotografia che fece installare sui soffitti delle arene NBA delle luci stroboscopiche che grazie a un controllo a distanza, permettevano di illuminare i momenti chiave del match e di catturare delle istantanee entrate di diritto nella storia del Gioco. “Quando Phil era seduto in panchina eravamo veri e propri nemici, poi per fortuna le cose sono migliorate”, commenta Bernstain che anni dopo ha scritto a quattro mani proprio assieme a Jackson la biografia del coach undici volte campione NBA.

Luci da DJ per replicare i flash - Tim Grover quindi doveva pur inventarsi qualcosa per rendere allenabile una situazione di gioco così particolare. È per questo motivo che decise di chiamare alcuni noti DJ di Chicago a cui chiese in prestito le attrezzature, piazzando negli angoli della palestra le luci presenti sulle loro consolle, inondando così di lampi intermittenti le sessioni di tiro non solo di Jordan, ma anche dei vari Juwan Howard, Kendall Gill e Michael Finley, ragazzi di Chicago che sfruttarono l’opportunità. Una soluzione che piacque così tanto a Jordan da convincerlo di portarsi dietro con sé l’attrezzatura anche durante le trasferte, prima che Grover scoprisse dell’esistenza dei “Strobe Spex”, dei veri e propri occhiali che mettevano a dura la prova la possibilità di visione del campo, ma che a detta dello stesso Jordan permettevano di avere una visione rallentata e più nitida di ciò che accadeva attorno a lui mentre li indossava; un beneficio di gran lunga superiore rispetto alla sola tolleranza dei flash dei fotografi.

Da Curry a Leonard, tutti pazzi per gli occhiali - Un aneddoto venuto fuori grazie all'approfondimento a riguardo pubblicato da Tom Heberstroh su ESPN. Ignoto anche ai produttori degli occhiali stessi, che dopo anni si misero in contatto proprio con Grover e ne vennero a conoscenza. “Quel prodotto è stato prodotto dal mio laboratorio ed è stato utilizzato da uno dei più grandi atleti di tutti i tempi – racconta uno dei responsabili del progetto -; perché non ne ho saputo niente per anni?”. Alla fine quindi, soltanto dopo il 2011, sono stati brevettati nuovamente come attrezzatura di supporto all’allenamento dei professionisti, utilizzati già nell’estate del 2015 da Steph Curry. “Questi non sono dei semplici esercizi di ballhandling – raccontò Brandon Payne, invitato nello studio prepartita di una gara degli Warriors della passata stagione -, ma sono dei metodi per migliorare la connessione neuromuscolare. L’obiettivo è quello di migliorare la capacità di reazione di qualche centesimo di secondo, il tempo che in alcuni casi ti permette o meno di prendere un tiro”. La cura del dettaglio che spesso fa la differenza. “Questo è il modo in cui si riesce a passare da 286 a 402 triple segnate in una singola stagione”. Un invito raccolto durante l’ultima offseason anche da Kawhi Leonard. “È come se la palla si muovesse con lo slow-motion”, spiega il numero 2 degli Spurs, diventato un giocatore totalmente diverso e molto più completo anche grazie a quel tipo di training. “Così come vengono fatti degli allenamenti per esercitare la resistenza fisica, questo allena la resistenza celebrale”. Un metodo adesso utilizzato anche dagli Houston Rockets; di certo non gli ultimi a voler sfruttare un’innovazione scoperta un po’ per caso dal più grande di tutti.