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NBA, la storia dietro le treccine di Jeremy Lin

NBA
Jeremy Lin con il nuovo look con i 'dread' (foto Getty)

La guardia dei Brooklyn Nets si è inventato l’ennesimo cambio di look passando a delle inedite treccine. La sua scelta però è stata molto più ponderata rispetto a quanto si possa pensare, e ha a che fare sulla questione razziale che sta dividendo gli Stati Uniti

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Lontani i fasti della “Linsanity”, nel corso degli ultimi cinque anni Jeremy Lin si è reinventato come competente guardia di riserva in NBA, specialmente nell’anno passato a Charlotte grazie al quale è riuscito a conquistare un biennale con i Brooklyn Nets, la sua attuale squadra. Proprio con la maglia degli Hornets, però, Lin ha iniziato a farsi conoscere per dei fantasiosi tagli di capelli: inizialmente l’idea era nata per gioco con il compagno Spencer Hawes, che decideva per lui quale taglio sfoggiare di partita in partita, ma con l’andare del tempo anche i tifosi hanno iniziato ad appassionarsi ai suoi (a volte azzardati) tentativi tricologici. Da ieri notte, però, qualcosa è cambiato: se vi è capitato di vedere sui social il nuovo look di Lin con i dread probabilmente avrete pensato “Ok, è totalmente impazzito”; e invece dietro a quella scelta c’è un ragionamento più lungo, raccontato su The Players’ Tribune in un articolo dal titolo “So… About My Hair”. “Quindi… ora ho i dread” ha cominciato Lin, “e probabilmente avete delle domande e dei commenti. Sono qui per ascoltarli tutti. Ma prima vorrei raccontarvi il mio percorso e di come ci sono arrivato”. Lin è quindi passato a spiegare come il continuo taglio di capelli fosse nato inizialmente solo come un divertimento per la sua famiglia e come modo per esprimersi liberamente, ma con il tempo ha cominciato a “fare rumore” e diverse persone hanno messo in discussione la sua capacità di giudizio, a partire dalla madre. Fin lì però nulla era riuscito a toccarlo veramente o a fargli cambiare idea, fino a quando l’idea di farsi le “treccine” non ha portato i suoi amici a chiedergli se fosse giusto appropriarsi di un simbolo della cultura afro-americana, lui che invece nel corso degli anni è diventato uno dei principali esempi del successo degli asiatici negli Stati Uniti e nel mondo.

Il problema dell’appropriazione culturale

“Sarò onesto: all’inizio non vedevo il collegamento tra i miei capelli e l’appropriazione culturale, ma da asiatico-americano, ne so qualcosa” ha spiegato Lin. “So cosa si prova quando la gente fa un torto alla mia cultura, quanto mi dia fastidio quando Hollywood relega gli asiatici a tirapiedi inutili, o peggio ancora quando pretende di raccontare storie asiatiche senza i veri protagonisti in gioco. Ho provato sulla mia pelle quanto sia brutto essere ridotti a stereotipi come Bruce Lee o ‘riso fritto con gamberetti’. È facile far passare quelle parole come semplici battute, ma una ad una finiscono per accumularsi e ti fanno sentire come se valessi meno degli altri, e che la tua voce valga meno di quella degli altri”. Questo ragionamento lo ha portato a farsi delle domande sui dread – che per la verità aveva già provato in forma minore a Charlotte grazie all’aiuto di Kemba Walker (che gli ha prestato una delle sue cuffiette, le do-rags, per non rovinarsi la capigliatura) – ma grazie al supporto di vari compagni come Rondae Hollis-Jefferson, Caris LeVert, D’Angelo Russell e DeMarre Carroll si è informato su come farlo nel concreto. È stato però solo dopo aver parlato con Savannah Hart, afro-americana che fa parte dello staff dei Nets che si è convinto a farlo grazie al suo suggerimento: se l’intenzione non era quella di essere sprezzanti nei confronti di un’altra cultura, quel cambio di look avrebbe potuto rappresentare un’occasione per imparare qualcosa di più sugli afro-americani. E così, dopo otto ore di parrucchiere, sia Lin che Hollis-Jefferson si sono fatti insieme le treccine.

L’importanza della conversazione

“Onestamente, potrei aver commesso un errore con questa scelta” ha infine scritto Lin nel suo pezzo. “Forse un giorno ci ripenserò e mi farò una risata, o forse lo troverò raccapricciante. Non ho una risposta. Ma spero che quello che abbiate imparato da questa storia è che non dico che tutti debbano sentirsi liberi di farsi i dread – o che un singolo gesto possa smorzare le vere incomprensioni che esistono nella nostra società sui temi della razza e della identità culturale. Questo processo è cominciato con i capelli, ma è diventato qualcosa di più per me. Sono davvero felice che i miei compagni e miei amici mi abbiano aiutato a parlare di questo argomento così difficile: nel corso degli anni con tutti questi cambi di look ho imparato che esiste una differenza tra ‘fregarsene di quello che dicono gli altri’ e cercare per davvero di indossare i panni di un altro. Le conversazioni che ho avuto non sono state particolarmente agevoli, e a volte so di non aver detto le cose giuste. Ma sono felice che ci siano state – perché da asiatico-americano so quanto sia raro che la gente mi chieda del mio retaggio culturale al di là del livello superficiale. Spero solo che questo sia un inizio e non una fine per avere maggior dialogo sulle nostre differenze: abbiamo bisogno di più empatia, più compassione e meno giudizio. Iniziamo adesso – unitevi a me”. In un periodo storico estremamente complesso come questo, anche un semplice cambio di look può aiutare a smorzare le differenze e iniziare una conversazione sul tema della divisione razziale negli Stati Uniti.