L'australiano dei Philadelphia 76ers è il candidato numero 1 al premio di Rookie dell'Anno, ma è anche molto di più: un giocatore destinato a rivoluzionare la NBA con il suo stile di gioco unico. Ecco il suo lungo percorso da "Down Under" fino ai campi della lega
“Pensavo che avrei giocato meglio, onestamente”.
Quando Ben Simmons pronuncia queste parole ha appena realizzato il suo massimo in carriera segnando 24 punti con 15 tiri, a cui ha aggiunto 9 assist e 7 rimbalzi in casa degli Houston Rockets, vendicando il buzzer beater di Eric Gordon al Wells Fargo Center.
Due giorni dopo sfiora la tripla doppia contro Atlanta, che arriverà invece nella successiva vittoria contro Indiana. È la seconda nelle prime nove partite della sua carriera: prima di lui ci era riuscito solo Oscar Robertson, in una pallacanestro ancora in bianco e nero. Quello che per molti sarebbe straordinario, per Ben Simmons è assolutamente normale.
“Non sono preoccupato dai giocatori che arrivano da questo Draft, mi preoccupo di quelli che stanno in cima”, così Simmons aveva risposto ad inizio stagione a chi gli chiedeva se si fosse sentito messo in secondo piano dalla nuova classe di rookie arrivata con tutti i riflettori puntati. Mentre le attese per questa infornata di talento, da Lonzo Ball fino a Jayson Tatum, erano alle stelle, il nome di Simmons era quasi passato di moda, centrifugato dall’ossessione per l’istante di un mondo che non aspetta nessuno.
Addirittura a Philadelphia il suo posto era stato occupato dalle storie di Instagram di Joel Embiid e dall’hype per Markelle Fultz, la nuova scintillante prima scelta assoluta per il quale i Sixers avevano rotto il salvadanaio certosinamente riempito di scelte dal vecchio GM Sam Hinkie. Agli occhi dei tifosi, Simmons era un giocatore forte, molto forte, ma al quale era difficile dare un vero valore. Solo l’australiano era completamente sicuro delle sue qualità: “Voglio entrare in campo e fare in modo che tutti si ricordino il mio nome, voglio andare in campo e ed essere sicuro che tutti parlino di me”.
Il nativo di Melbourne non si sbagliava. Il suo è stato indubitabilmente il nome che ha monopolizzato questo primo mese di stagione, ipotecando in meno di quindici partite il premio di Rookie dell’Anno e rendendo credibile una sua candidatura all’All-Star Game di Los Angeles. Nonostante un’agguerrita concorrenza, il numero 25 dei Sixers guida tutti i giocatori al primo anno per punti, rimbalzi e assistenze, trascinando la sua squadra per la prima volta sopra il record di 50% di vittorie dopo anni di profonda depressione. Philadelphia ha radunato il gruppo di teenager più cool dopo il cast di Stranger Things e ha chiesto a Simmons di essere la prima fonte di gioco per sé e per i compagni, un compito difficilissimo per qualsiasi individuo e praticamente impossibile per un rookie. Invece “Benny” lo sta interpretando con una naturalezza quasi fastidiosa per qualcuno che non aveva mai giocato in quel ruolo prima di arrivare tra i professionisti.
From Down Under
Nel 1996 Dave Simmons lasciava i Melbourne Tigers, con i quali tre anni prima si era laureato campione d’Australia, per i Newcastle Falcons; ma soprattutto, nel pieno della Cerimonia d’Apertura delle Olimpiadi di Atlanta, la moglie Julie dava alla luce il suo sesto figlio, Ben. Dave aveva lasciato il Bronx più di dieci anni prima per giocare a basket e la palla a spicchi lo aveva portato fino nel nuovissimo continente, ultima frontiera per chi non riusciva a sfondare in America. Più la sua carriera si avviava al tramonto però, più si dedicava ad allenare il suo ultimogenito che da subito dava l’impressione di essere portato per lo sport di famiglia.
Già in età prescolare il giovane Benny mostra le sue migliori qualità: il ball-handling e la capacità di arrivare al ferro a piacimento trovando spazi che nessun altro riesce a vedere. Più o meno.
Dopo un duro allenamento fatto in casa, a tredici anni papà Dave decide che è ora di lasciar ad altri l’educazione cestistica e iscrive il figlio alla Box Hill High School, vicino Melbourne. La differenza di livello tra Ben e i suoi nuovi compagni però è tale da rendere la sua presenza in Australia piuttosto breve: a quindici anni Simmons sale su un volo intercontinentale diretto in Florida. Abbandonato il poco competitivo circuito Aussie, ad aspettarlo ci sono le urla di Kevin Boyle, che da due decenni a Montverde sforna futuri professionisti NBA.
Come per il suo futuro compagno ai 76ers Joel Embiid, l’impatto non è dei migliori: l’anno da freshman a migliaia di chilometri da casa e dalla sua famiglia è traumatico per il giovane Ben, il cui unico supporto viene dalla sorella Emily, il solo componente della famiglia Simmons con base negli States. Ben però non molla, diventa una star a Montverde dominando anche il circuito AAU e per il suo anno da senior tutta la sua famiglia abbandona la Terra dei canguri trasferendosi ad Orlando. Gli Eagles conquistano il terzo titolo consecutivo, Simmons viene consacrato come il miglior giocatore della sua classe.
Fin da quando si era trasferito negli Stati Uniti, il sogno di Ben Simmons era quello di arrivare a giocare in NBA il prima possibile. L’aver frequentato una High School americana però non gli consentiva più di entrare nel Draft come International, come aveva fatto qualche anno prima il suo amico Dante Exum. Ben doveva spendere almeno una stagione da qualche parte prima di compiere i 19 anni necessari per dichiararsi eleggibile per il Draft e l’idea di tornare in Australia o giocare oltreoceano non era assolutamente percorribile. L’unica vera opzione rimaneva il college, secondo l’ormai celebre rituale dell’One&Done: un anno di università con la promessa, implicita ed esplicita, che la data di scadenza era ben nota a tutti quanti.
La controversa esperienza collegiale
Nel momento in cui diventa chiaro che per Ben l’esperienza collegiale sarebbe stata una sosta obbligata, tutti i coach NCAA si gettano in uno sfrenato recruiting come fossero gladiatori chiusi in un’arena costretti a combattere per la propria vita. Alla fine abbastanza incredibilmente la spunta Louisiana State University, una scuola conosciuta più che altro per il football che ha avuto il suo ultimo momento di gloria cestistica quando, più di 25 anni prima, a Baton Rouge si era posato l’enorme piedone di Shaquille O’Neal. All’epoca era in carica il vulcanico Dale Brown, uno che prima di Shaq cercò di reclutare Arvydas Sabonis scrivendo una lettera a Gorbaciov in piena Guerra Fredda.
Per il suo successore Johnny Jones riuscire a portare Ben Simmons a Baton Rouge si rivelerà un’impresa molto più facile, senza dover ricorrere ad ambasciatori stranieri o muovere testate nucleari. Il Gorbaciov questa volta rispondeva al nome di David Patrick, ex-compagno di squadra di Dave Simmons in Australia e padrino di battesimo di Ben. Una volta tornato in patria, David aveva aiutato molti talenti aussie ad andare a giocare in università USA, come ad esempio Patty Mills a Saint Mary’s, fino a guadagnarsi un posto stabile come assistente allenatore a LSU. A Ben, che da buon esule è stato sempre alla ricerca di un posto che avesse una dimensione domestica, il campus dei Tigers relativamente vicino ad Orlando, dove viveva la famiglia, sembrava la destinazione migliore: riusciva a coniugare quella home vibe, con l’oceano a due passi come nella sua Melbourne, ed allo stesso tempo restare ai margini della frenesia del College Basket e delle sue superpotenze. “Volevo andare in una squadra dove poter essere un underdog e creare una legacy, cose che non sono possibili a Duke o a Kentucky".
Simmons inizia il suo anno in purgatorio da uomo in missione, pronto a lasciare i palazzetti in fiamme dopo il suo passaggio, spargendo sale sulle macerie delle nobiltà collegiali. Dopo poche partite la sua iniziale ambizione sparisce pian piano che il resto dei suoi compagni non riesce a seguirlo in battaglia, abbandonandolo a combattere da solo contro squadre più complete, esperte, meglio allenate e, in definitiva, più squadre. Mentre Simmons fa registrare record su record per un freshman guidando i Tigers in ogni statistica, LSU scivola ai margini della SEC e rimane fuori dal bracket del torneo NCAA. Chiuderà con un record complessivo di 19-14 (solo 11-7 nella conference) nonostante gli sforzi di Simmons, che risulterà essere il migliore freshman della nazione e tra i cinque migliori giocatori dell’anno. Ma i suoi 19 punti, 11 rimbalzi e più di 4 assist a partita non gli bastano ad entrare di diritto nella corsa al Wooden Award: il suo GPA era così basso da renderlo ineleggibile.
Ben era tanto dominante in campo quanto assente nelle aule scolastiche. Il sistema collegiale prevede che se uno studente-atleta supera nel primo semestre con il punteggio di 1.8 GPA può automaticamente essere ammesso al semestre successivo. Ben dopo aver frequentato le lezioni per i primi sei mesi ha candidamente abbandonato i banchi per dedicarsi esclusivamente agli allenamenti. Essere eleggibile per l’anno successivo e prendere un diploma a LSU non rientrava nei suoi piani: l’anno successivo sarebbe stato già in NBA a guadagnare milioni di dollari mentre i suoi coetanei avrebbero continuato a faticare per mettere insieme i soldi per la cena.
Nel documentario prodotto da Showtime sulla sua vita, Simmons lancia accuse dirette all’ipocrisia che domina lo sport collegiale, le stesse che da decenni rimbalzano da università ad università e che hanno creato quel cortocircuito tra la facciata di immacolato dilettantismo e il retropalco pieno di tappeti sotto i quali nascondere la polvere. In “One & Done”, Simmons spiega la sua scelta radicale di rinunciare completamente alla sua istruzione per puntare a diventare il miglior giocatore possibile: “Devo usare ogni giorno che ho per allenarmi per l’NBA, non per studiare oceanografica”. Le ripercussioni arrivano, in forma di sanzioni disciplinari: coach Jones non lo fa partire titolare in alcune partite nella seconda metà della stagione, contribuendo a minare ancor di più il fragile equilibrio dello spogliatoio. LSU abbandona ogni sogno di partecipare al torneo NCAA quando si squaglia in semifinale di Conference contro Texas A&M: per Simmons è l’ultima partita in purgatorio. O almeno così crede.
L’NBA, finalmente
Simmons si dichiara ovviamente eleggibile per il Draft del 2016 e non ci sono dubbi che sia il miglior giocatore di quella classe. Adam Silver chiama il suo nome per primo, i tifosi dei Philadelphia 76ers assiepati dentro il Barclays Center esultano, e mai quanto in quella occasione i cartelloni inneggianti a Sam Hinkie erano azzeccati. Prima che Embiid mettesse per la prima volta piede su un campo NBA, prima che Saric varcasse l’Atlantico, prima che Okafor diventasse l’ombra di se stesso, Simmons era la grande speranza della Città dell’Amore Fraterno dopo anni di umiliazioni. Ma la maledizione delle prime scelte di Philly colpisce senza pietà e Simmons si rompe il piede in pre-season dopo aver regalato lampi di classe purissima durante la Summer League.
Per uno che voleva entrare in NBA direttamente dall’High School, rimanere un anno seduto in tribuna deve essere sembrato un castigo divino, quasi un peccato di hybris. Tra la mitomania di Embiid e la decisione di andare a prendere a tutti i costi Fultz con una mossa simbolica che di fatto chiudeva l’era del tanking, l’arrivo di Simmons era quasi stato scordato dai tifosi Sixers.
Dopo un anno in attesa di mostrare al mondo tutto il suo valore non c’è da stupirsi se Ben abbia iniziato questa nuova stagione come un tappo di champagne a Capodanno. Catapultato a gestire una squadra che doveva assolutamente invertire la tendenza degli anni precedenti, ha sorpreso tutti con la naturalezza e la sicurezza con la quale ha iniziato la sua campagna da rookie in un ruolo che non aveva mai esplorato. Infatti, pur riconoscendone le soprannaturali capacità di lettura ed esecuzione, nessuno dei suoi allenatori liceali o di college gli aveva messo in mano le chiavi della squadra sin dall’inizio dell’azione. Mentre a LSU spesso era relegato in un ruolo di “playmaking-4” che non gli consentiva di dominare tecnicamente e fisicamente la partita sin dalla rimessa, a Philadelphia Brett Brown non ha avuto paura ad affidargli da subito il ruolo nominale di playmaker e il ruolo ufficiale di leader.
Che giocatore è Ben Simmons
L’impatto di Simmons con l’NBA è stato impressionante. Le due triple doppie nelle prime nove partite come Oscar Robertson e i record abbattuti come tessere del domino raccontano solo in parte il maremoto che il ragazzo di Melbourne ha causato a Philadelphia e nella Lega. Se per la prima volta dal 2013 Philadelphia è una squadra con reali ambizioni di playoff, larga parte del merito è da attribuire a Simmons, forse non il giocatore più talentuoso a roster (c’è pur sempre la sagoma ingombrante di Embiid), ma sicuramente il giocatore più determinante, quello che coinvolge tutti i compagni mettendoli in condizione di esprimere il proprio valore.
Il primo passo verso la rinascita Sixers è stato proprio il riconoscere l’unicità di Ben Simmons, il cui talento non poteva andare ad inserirsi dentro un sistema preesistente ma doveva incarnare lui stesso il sistema. Come un codice sorgente da cui tutto dipende, Simmons per esprimersi al massimo del suo potenziale deve essere collocato al centro di un meccanismo disegnato a sua immagine e somiglianza. Philadelphia lo ha accontento circondandolo con tiratori affidabili, necessari per allargare un campo già sbilanciato dalla presenza di Embiid, e garantendogli lo spazio per attaccare costantemente il pitturato.
Nonostante sia il principale portatore di palla della squadra, la quasi totalità delle sue conclusioni arrivano in prossimità del ferro. In questa fase embrionale della sua carriera, Simmons non sa fare ancora molte cose, ma le cose che sa fare sono di altissima qualità ed ha una grande consapevolezza dei suoi mezzi e dei suoi limiti. Anche da queste scelte si intuisce la sua intelligenza in campo: difficilmente si intestardisce in situazioni di gioco che sa non essere nelle sue corde e sfrutta al massimo le sue caratteristiche migliori.
Come si può notare dalla mappa di tiro fornita da Chart Side, Simmons evita i tiri fuori dal pitturato come J.R. Smith disgusta le T-Shirt. Addirittura su un campione molto basso (15 possessi) è nel 3° percentile in situazioni di spot up. Ugh.
Già in sede di Draft era noto a tutti che il più grande limite di Simmons fosse il tiro da fuori. A LSU era estremamente riluttante a premere il grilletto dalla distanza, finendo la stagione con un abominevole 13/40, e anche tra i Pro due anni dopo i progressi sono stati minimi. La palla esce piatta, senza rotazione, con una grettezza che non ci aspetteremmo da quelle mani da pianista. Un mistero che ha dato ovviamente adito a fumose ipotesi di complotto e complicati intrighi internazionali.
La spiegazione alla sua inconsistente meccanica è molto più semplice: Simmons tira con la mano sbagliata. A sentire Kevin O’Connor di The Ringer, che ha perso il sonno per tracciare manualmente ogni tiro preso da Simmons dal college alla Summer League, il prodotto di LSU dovrebbe al più presto cambiare la mano con cui tira. Simmons scrive con la destra, mangia con la destra, chiude al ferro e da distanza ravvicinata sempre con la destra. L’unica cosa che fa con la sinistra è tirare in sospensione - ovverosia la cosa che fa peggio in assoluto. Ben ha iniziato ad usare la sinistra fin da bambino sotto suggerimento del padre e non ha mai modificato le sue abitudini, nonostante il palese disagio nei tiri in sospensione. Alla linea di tiro libero, che è un eccellente indicatore delle potenzialità di un tiratore, Simmons tira con la sinistra raggiungendo a malapena il 60%.
Osservando bene la gestualità di Simmons si nota come sia davvero ibrido nei movimenti: stacca da terra con il piede destro come farebbero i mancini, ma finisce quasi esclusivamente con la destra, anche quando sarebbe più consigliabile l’uso dell’altra mano; allo stesso tempo, per entrare nella meccanica di tiro dal palleggio tiene la palla sul lato destro del corpo per poi spostarla sulla sinistra. Anche nelle situazioni più istintive ricorre quasi esclusivamente alla sua mano destra, che dovrebbe, e qui il condizionale è d’obbligo, essere la sua mano debole.
Sempre secondo O’Connor, in tutti i tiri che non sono jump shot usa la destra in più dell’80% dei casi e lo fa mantenendo una percentuale di realizzazione più alta rispetto alle conclusioni mancine. Il coaching staff di Philadelphia per ora non ha provato a modificare la sua abitudine, ma dovrebbe intervenire al più presto perché questo misunderstanding sta limitando di molto le possibilità del futuro Rookie dell’Anno.
Diciamolo chiaramente: che sia destrorso o mancino, è altamente improbabile, se non impossibile, che Simmons diventi un tiratore affidabile da dietro l’arco, ma paradossalmente non è neanche così importante. Ogni giorno vediamo Steph Curry sparare dal logo di centrocampo palloni che bruciano le retine o James Harden prendersi complicatissimi step back dopo aver palleggiato ripetutamente tra le gambe. Tirare dal palleggio è una qualità importantissima nell’NBA attuale, ma non significa automaticamente che non si possa diventare una superstar senza essa: gli esempi di LeBron James e Giannis Antetokounmpo ce lo ricordano quotidianamente.
Come loro, anche Simmons possiede un talento universale che per definizione non deve necessariamente seguire le mode del momento. Deve però capire come tramutare le cose che fa molto bene in cose che fa benissimo. Finora tutte le squadre sono regolarmente passate sotto i blocchi, rintanandosi verso il ferro e sfidandolo a chiudere l’azione in arresto e tiro. Simmons non si è fatto però ingolosire da una soluzione che sa di non avere in faretra ed ha dimostrato una grande maturità nella selezione di tiro: in assenza di un tiro in sospensione affidabile, Simmons riesce comunque ad avere una percentuale dal campo superiore al 50% sfoggiando un arsenale di complicati push shot e sofisticati contorsionismi nei pressi del ferro.
Simmons ancora non sa usare il suo corpo per finire con più efficacia in traffico, scegliendo spesso l’eleganza rispetto alla forza bruta e cercando di aggirare il difensore invece di passarci sopra come un carroarmato. Non è un essere umano di dimensioni ridotte, anzi è molto più alto e potente di quanto si possa intuire dalle immagini televisive, ma a volte rinuncia ad usare i propri mezzi fisici, come se essere così atletici e così tecnici fosse un peccato capitale (un difetto che per certi versi aveva anche LeBron James a inizio carriera, ad esempio rifiutandosi di andare in post basso). Finito il periodo di adattamento ai ritmi e ai corpi NBA, Simmons dovrà imparare a massimizzare le sue prestazioni nel pitturato, anche a rischio di sporcarsi le mani.
Simmons cerca in tutti i modi di evitare Draymond Green: missione fallita.
Immagino che coach Brown lo costringerà a molti pomeriggi in sala video a guardare quei freak atletici di LeBron e Giannis, per capire come riescono a finire al ferro con oltre il 75%, dieci punti percentuali meglio di Ben. Ovviamente non si possono fare raffronti semplicistici tra due creature mitologiche ed un rookie ad inizio stagione, ma Simmons deve capire che usare meglio la parte superiore del corpo per andare a cercare lui il contatto, e non viceversa. Sono sicuro che già tra qualche mese vedremo più tiri presi con un palleggio in più verso il canestro piuttosto che innaturali torsioni per cercare la mano destra. Un talento con i suoi mezzi atletici e il suo incredibile tocco ha tutte le possibilità per essere più efficace perché la qualità delle sue conclusioni al ferro sarà il barometro che condizionerà la sua carriera NBA e ne deciderà il ceiling ancora più del suo tiro in sospensione.
Sul pick and roll 1-5 con Embiid, che in realtà è un 4-5 mascherato, ha tutto lo spazio per arrivare al ferro ma fa un palleggio in meno del dovuto e si accontenta di uno scomodo floater.
In questo momento è il terzo giocatore della lega per conclusioni al ferro, dietro due centri mostruosi come Drummond e Gobert. A differenza loro però Simmons arriva al ferro con il pallone, essendo anche il terzo giocatore per penetrazioni a partita con oltre 18, davanti ad illusionisti come James Harden o missili radiocomandati come John Wall e Russell Westbrook. Il tutto contro delle difese che hanno come unico scopo il negargli esattamente quella opzione. Dopo solo una manciata di partite Simmons è già nell’élite dell’NBA.
Ben Simmons il playmaker di 2.10
Nelle prime partite della stagione, pur lasciando a Ben la conduzione del pallone, Brown disegnava spesso uno schema che prevedeva un passaggio consegnato in punta con una guardia per liberare Simmons dalla pressione avversaria e iniziare il gioco d’attacco. Con il passare delle settimane Simmons ha preso più confidenza con il ritmo NBA e ha più libertà nel decidere le opzioni offensive da percorrere. In particolare è cresciuta la consapevolezza nell’usare il pick and roll per aprire il centro del campo, leggendo le varie soluzioni difensive adottate dalle squadre avversarie. In caso di pressione Simmons chiama il blocco più in alto sfruttando lo spazio tra lui e il canestro per guadagnare velocità, rendendo la rotazione dal lato debole un martirio più che un aiuto. Le sue capacità di palleggio unite alla potenza fisica gli consentono di crearsi un autostrada per il ferro sia che accetti o “rigetti” il blocco. Mettere Simmons nelle condizioni di attaccare frontalmente la difesa avendo soluzioni aperte per tiratori e taglianti è la priorità dell’attacco di Brett Brown: la statura del playmaker gli consente infatti di vedere e trovare angoli di passaggio non accessibili ad altri, specialmente quando l’intera difesa collassa per ostacolargli la strada verso il ferro.
Quando invece la difesa gli lascia spazio per evitare di venir bruciata, Simmons gioca il pick and roll molto più vicino a canestro, abbondantemente dentro l’arco, dove nonostante il difensore passi sotto, non ha lo spazio per recuperare su Simmons che può esplodere al ferro con un solo palleggio.
Il blocco è portato al gomito, così Simmons si trova a un palleggio dal ferro e può chiudere con la destra.
Embiid è un eccellente bloccante perché, oltre alla imponente figura sulla quale si incagliano i difensori, garantisce versatilità essendo sia efficace come sia tagliando a canestro che in allontanamento dietro la linea da tre punti.
Qui Simmons lo trova mettendoci anche quella sfrontatezza adolescenziale che non guasta mai.
Nonostante non abbia il range di tiro per allungare il pick and roll e creare la separazione necessaria per attaccare il mismatch, Simmons possiede già le altre qualità che rendono estremamente redditizio il suo lavoro da portatore di palla nei giochi a due. Se non si possiede la minaccia del palleggio-arresto-e-tiro, bisogna rimediare con un primo passo fulmineo, talmente esplosivo da rendere inefficace la difesa nonostante questa si aspetti esattamente quella mossa. È una qualità che ha reso letali sia James che Antetokounmpo e che anche Simmons sfrutta molto bene: il suo primo passo non è plastico come quello di Giannis o muscolare come quello di LeBron, ma è un giusto mix di atletismo, tecnica e fluidità. Possiede la rapidità e il dinamismo per lasciare sul posto tanto i lunghi che si avventurano sul perimetro quanto le guardie che gli vengono accoppiate normalmente, grazie ad una sviluppata capacità di attaccare il piede debole del difensore. Il fatto che riesca a battere il diretto avversario anche quando quest’ultimo passa dietro il blocco renderà i pick and roll di Simmons devastanti anche non dovesse sviluppare mai un palleggio-arresto-e-tiro mortifero.
Creare vantaggi nel basket contemporaneo è fondamentale perché permette di giocare in anticipo sull’avversario, prevedendo le sue mosse e adattandosi di conseguenza. Una partita a scacchi viventi che Simmons controlla già come un Kasparov di due metri e dieci: una volta preso il vantaggio, Ben sa come gestirlo o aumentarlo attraverso la sua visione stereoscopica che sorveglia il campo alla ricerca dei possibili ricevitori. Un eccellente portatore di palla nei giochi a due deve saper eseguire con efficacia due tipi di passaggio: il passaggio nella tasca (il cosiddetto pocket pass) per il rollante e quello che ribalta il lato (il cosiddetto skip pass) verso i tiratori appostati sul perimetro; Simmons li utilizza entrambi come uno veterano nonostante giochi da playmaker da meno di due mesi, mostrando tempi di passaggio e di uscita del pallone che uccidono le rotazioni avversarie. Non a caso i Sixers perdono oltre 10 punti su 100 possessi di rating offensivo quando Simmons esce dal campo.
La sua altezza gli permette di vedere sopra le difese e trovare il ribaltamento con passaggi crackati dalla corteccia cerebrale di LeBron. All’apparenza possono sembrare passaggi elementari, ma sono accessibili solo a giocatori che riescono a sintetizzare atletismo, capacità di lettura e sensibilità nei polpastrelli ai massimi livelli e alla massima velocità. Simmons gioca sempre a testa alta, sapendo già dove destinare il pallone ancora prima che gli arrivi in mano e nonostante sia capace di passaggi spettacolari, spesso sceglie la soluzione più semplice e redditizia.
Il passaggio per Covington sembra frutto della casualità, invece Simmons sa già che troverà il tiratore dietro l’arco mentre la palla è contesa a terra, quasi come un mediano di mischia pulisce la palla per giocarla alla mano.
Le qualità di passatore di Simmons vengono esaltate in transizione, dove può esibire sia la sua conduzione del pallone sia il suo atletismo per finire al ferro con gli effetti speciali. In campo aperto può sprigionare la sua fantasia, trovando i taglianti o rimorchi con grande precisione e, soprattutto, evitando di forzare la giocata. Una volta che acquisisce velocità, provare a fermarlo diventa davvero impossibile. Ci sono pochi giocatori al mondo con la sua coordinazione nello spazio capaci di mangiarsi il campo in tre palleggi e allo stesso tempo di non staccare mai lo sguardo da ciò che gli succede intorno.
Lo spirito di Andre Miller non ha mai lasciato lo Utah.
Ogni giocatore che viene premiato per ogni movimento corretto o per un taglio al momento giusto, tenderà a rifarlo all’azione successiva. Con questo semplice ma sempre efficace postulato della pallacanestro si può sintetizzare l’effetto-Simmons: i compagni sono felici di giocare con lui perché riesce a renderli meglio di come sono, e tutti vogliamo essere meglio di come siamo. Simmons è l’amico fico che ti presta la giacca giusta al primo appuntamento, ti aggiusta il taglio e ti lascia il seminterrato quando ci sono i tuoi a casa.
Il suo esempio ha trasformato i Sixers in un gruppo che ama giocare insieme, si diverte e si passa la palla come gli Spurs (ok, non proprio come gli Spurs), cosa non assurda se pensiamo che Brett Brown è stato assistente di Gregg Popovich per più di un decennio. Philadelphia è la seconda squadra per percentuale di canestri assistiti a partita, dietro solo agli imprendibili Golden State Warriors, la prima in numero di passaggi a partita e tra le prime cinque per numero di possessi giocati. Brown la chiama “la regola dello 0.5”, ovvero si ha mezzo secondo per decidere se passare, tirare o palleggiare quando si riceve la palla. È una tecnica che gli Spurs hanno elevato al Nirvana durante le Finals del 2014 e che a Philadelphia ha trovato il Padawan eletto. Il piano offensivo dei Sixers è disegnato per mettere Simmons in condizione di ricevere più volte possibile la palla in movimento, quando può sfruttare la sua esplosività e fluidità per battere il marcatore diretto ed attaccare il canestro. Può farlo direttamente da rimbalzo difensivo, da palla rubata o in set a metà campo, con un semplice dai e vai in punta o come seconda opzione sulle uscite dai blocchi per Redick o Bayless.
O anche semplicemente andandosela a prendere anticipando la giocata avversaria e inchiodandola a due mani.
Per quanto sia produttivo Simmons con la palla in mano sarà interessante vederlo anche lontano dalla stessa quando tornerà disponibile Fultz dopo l’infortunio alla spalla. Il giocatore da Washington University è stato draftato dai Colangelo anche per le sue qualità lontano dal pallone, ma è in primis una combo guard che ama avere il comando delle operazioni: nella migliore delle ipotesi, i due potranno creare un duo dinamico, proiettato alla continua ricerca del ferro in cui le spaziature degli altri esterni saranno vitali.
Finora Simmons, ad esempio, è stato usato molto poco come rollante, anche perché i Sixers non hanno praticamente nessun altro che può portare palla, ma le sue doti fisiche lo renderebbero un grosso problema per le difese avversarie. Non dimentichiamoci che è sempre un 2 metri e 10 atletico che può rollare con grande fluidità fino al ferro e allo stesso tempo può diventare molto pericoloso negli short roll, girandosi e attaccando 4 contro 3 come fa Draymond Green quando Curry viene intrappolato da entrambi i difensori. Inoltre alcuni pick and roll possono trasformarsi in occasionali possessi in post basso per Simmons, dove può sfruttare la sua potenza in caso di cambio sul blocco o la sua velocità se accoppiato a un lungo tradizionale. La sua visione periferica, poi, gli consente di trovare i tiratori sul perimetro una volta collassata la difesa in situazioni di mismatch.
Simmons quando si trasforma nella sponda luminosa di un flipper.
Come detto in precedenza parlando delle conclusioni al ferro, Simmons da buon adolescente deve scendere a compromessi con il suo corpo ed accettare che è stato più fortunato di gran parte della popolazione mondiale, perché può letteralmente camminare in testa alla gente.
Neanche un giorno sprecato
Nonostante la luminosità del suo talento, Simmons rimane davvero ancora un ventunenne che si chiude in casa riempiendo le sue serate di Call of Duty e orsetti gommosi. Nonostante la fronte spaziosa e la tranquillità del suo sguardo dai tratti arabi, Ben è solo all’inizio della sua parabola sportiva ed ha ancora molti passi da fare. Il primo consisterebbe nel riportare i Sixers ai playoff, un traguardo impensabile solo un paio di anni fa; i successivi conducono alla ricerca di quel titolo che manca in Pennsylvania dal 1983.
Ma per quello c’è tempo. Prima di tutto c’è da portare a casa il premio come Rookie dell’Anno, sperando che la sua carriera sia poi molto diversa dall’ultimo ROY in maglia 76ers, quel Michael Carter-Williams sacrificato (a ragione) sull’altare del Process. Quei giorni selvaggi sono ormai lontani: ora il roster dei Sixers assomiglia sempre più ad una Wunderkammer in cui ogni pezzo è stato scelto con cura certosina e racconta una piccola storia dentro una storia più grande.
C’è Robert Covington passato da undrafted a milionario; c’è Embiid arrivato dal Camerun per cercare le attenzioni di Rihanna; c’è TJ McConnell che si è arrampicato con le unghie fino in NBA; c’è J.J. Redick che per la famiglia ha lasciato L.A. cambiando costa e poi c’è Ben, che è arrivato dall’altra parte del mondo con l’etichetta di predestinato. Dalle partite nei circuiti AAU ai tre titoli nazionali, dalle copertine di SLAM in posa LBJ alla prima scelta assoluta al Draft: ci sarebbe di che perdere la testa.
Quindici anni di LeBron ci hanno fatto molto male in questo senso: ora diamo per scontato che un talento del genere diventi automaticamente uno dei giocatori più intriganti della lega, ma non è affatto così. Simmons ha iniziato a correre prima di camminare e questo probabilmente lo porterà ad inciampare lungo il processo. Ma non importa, perché se c’è una cosa che ci ha insegnato Phila in questi anni è che il tempo passato ad aspettare non è mai tempo perso se si è convinti delle proprie scelte. E Simmons è un giocatore affascinante, enigmatico, forse insolubile. Uno di quelli per cui non esiste un giorno sprecato.