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NBA, l'8, il 24 e la sua miglior stagione di sempre: Kobe Bryant pronto al ritiro della maglia

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Stanotte verranno ritirati i due numeri con cui Kobe Bryant ha costruito la sua leggenda. "L'8 era l'aggressività e la voglia di emergere, il 24 la crescita e la maturità" ha rivelato il Black Mamba a ESPN, spiegando che la sua miglior stagione non è stata quella in cui ha vinto un titolo o l'MVP...

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Quante volte Kobe Bryant avrà guardato in alto, nell’angolo dello Staples Center in cui sono esposte le maglie ritirate dei giocatori del passato, cercando ispirazione per scendere in campo? La risposta, rivelata a ESPN, è molto semplice: “Tutte le volte. Tutte le volte. Tutte. Le. Volte”. Dalle videocassette che si faceva spedire in Italia dai nonni per studiare le stelle della NBA a raggiungerle è stato un viaggio lunghissimo durato quasi tutta la sua vita, e che stanotte (anche in diretta su Sky Sport 2 dalle 4:30 del mattino) verrà celebrato con il ritiro di entrambe le sue magliette – la numero 8 che ha indossato per la prima metà di carriera e la 24 della seconda – diventando il primo giocatore di sempre a vedere ritirati due numeri da una squadra, nonché il decimo giocatore della storia dei Lakers a ricevere questo riconoscimento. “Quando sono arrivato con l’8 cercavo davvero di ‘piantare la mia bandierina’” ha spiegato Bryant. “Dovevo dimostrare di poter stare in questa lega, di poter essere uno dei migliori. Per questo sfidavo tutti quanti, avevo un’energia e un’aggressività che non si esauriva mai”. Già dopo l’addio di Shaquille O’Neal e Phil Jackson, però, Kobe aveva deciso di cambiare numero passando al 24, il numero indossato nel suo primo anno a Lower Marion High School nell’area di Philadelphia, ma avendo superato la deadline ha dovuto aspettare fino all’estate del 2006 per cambiare. Un cambiamento che spiega con una sola parola: crescita. “Il 24 rappresenta la crescita. Gli attributi fisici non erano più quelli di una volta, ma il livello di maturità era molto più alto. Il matrimonio, i figli: le cose avevano iniziato ad avere una prospettiva molto più ampia, essendo anche diventato uno dei più vecchi in squadra invece di uno dei più giovani. Le cose evolvono. Non che uno sia meglio dell’altro, o che ci sia un modo migliore di approcciare le cose. Semplicemente, si cresce”.

Nike, per l'occasione, ha rispolverato i "puppets" di Kobe e LeBron, diventati celebri in una campagna televisiva di quasi dieci anni fa.

I dolori, gli infortuni e la sua miglior stagione di sempre

Crescere però vuol dire anche invecchiare, e i tantissimi infortuni sui quali ha giocato per anni hanno definito la conclusione della sua carriera: “Il ‘24’ è un nuovo libro da scrivere ogni giorno. Perché quando invecchi i tuoi muscoli cominciano a fare male, il corpo stesso ne risente. Ti presenti per allenarti tutti i giorni e devi continuamente ricordare a te stesso ‘Ok, oggi è il giorno più importante di tutti. Devo spingere nonostante il dolore. Le caviglie sono bloccate e non riescono a sciogliersi, ma bisogna andare avanti perché oggi è il giorno più importante’. Per questo il 24 mi ha aiutato dal punto di vista della motivazione: era una tavola bianca, un nuovo inizio, concentrandomi su un numero che per me vuol dire tantissimo”. Quando però gli è stato chiesto qual è stato il suo Kobe Bryant preferito, quello in cui ha giocato meglio, la risposta è sorprendente: “La stagione in cui mi sono rotto il tendine d’Achille, perché sentivo di star giocando la miglior pallacanestro della mia carriera”. L’anno in questione è il 2012-13, iniziata con sogni di grandezza dopo gli arrivi estivi di Steve Nash e Dwight Howard e conclusa in maniera tremenda, con la rottura del tendine d’Achille in una gara casalinga contro i Golden State Warriors – lo stesso scenario, forse non casualmente, in cui verranno ritirate le due maglie stanotte. “Ho dovuto lavorare come un pazzo per poter giocare a quel livello, ma ci sono riuscito: mentalmente ed emotivamente riuscivo a vedere il gioco con cinque o sei passi di vantaggio, tutte quelle robe così. Quello è uno dei miei periodi preferiti, di sicuro – certo, mi ha quasi ucciso, ma è stato divertente”. 

Il prossimo sogno di Kobe: l'Oscar per "Dear Basketball"

Oggi Kobe non è più così tanto coinvolto con il basket – a meno che non si tratti della squadra della figlia, in cui allena e fa giocare il Triangolo… – concentrandosi soprattutto sullo storytelling e il mondo dell’intrattenimento. E con un obiettivo bene in testa: vincere un Oscar. Il suo cortometraggio “Dear Basketball”, in cui le sue parole di addio alla pallacanestro sono state animate da artisti del calibro di Glen Keane (disegnatore di personaggi Disney come Aladdin, Ariel e la Bestia) e musicisti come John Williams (già vincitore dell’Oscar per Star Wars, E.T. e Lo Squalo), è infatti uno dei dieci candidati all’Oscar come “Miglior Cortometraggio Animato”. La lista verrà ridotta da 10 a 5 il prossimo 23 gennaio, mentre il vincitore verrà annunciato il prossimo 4 marzo. “Vincere un Oscar avrebbe più significato che tutti gli altri trofei che ho vinto” ha rivelato Kobe. “Semplicemente perché non è una cosa che mi sarei mai aspettato di fare. Non è nemmeno una cosa che dovrei essere in grado di fare. Da bambino sognavo di poter vincere dei titoli, l’MVP e tutti gli altri premi, ma non questo”. Una cosa inattesa, ma che comunque può dare grandi soddisfazioni: “Era una cosa che avevo in mente, un obiettivo. La vita ti dà una mano di carte, poi succedono gli infortuni, altre cose, cambi strada e scrivi qualcosa che ti esce dal cuore. A quel punto mi sono detto ‘OK, ho questa passione per lo storytelling. Rendiamolo un business’. Poi sbatti gli occhi e un secondo dopo Glen [Keane] lo anima. Li sbatti ancora è sei sullo stage dell’Hollywood Bowl con John Williams. Un secondo dopo ti dici ‘OK, ora stiamo in lizza per l’Oscar’. E il treno continua a correre. Ti viene da chiederti: ‘Ma che ca..o sta succedendo?’. Non è una cosa che noi atleti dovremmo essere in grado di fare. Secondo quello che si pensa, dovremmo saper fare solamente una cosa e nient’altro”. Evidentemente non è così, anche se stanotte Bryant verrà celebrato soprattutto per quanto fatto in campo e per il suo impatto nella storia della pallacanestro: “Provo solamente gioia: questa è la mia casa. È bello poter essere di nuovo con le persone che letteralmente mi hanno visto crescere – e poter dire loro ‘grazie’ un’ultima volta”.