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NBA: Bob Myers, l’uomo fuori campo dei Golden State Warriors

NBA

Dario Costa

Bob Myers, dirigente dell'anno per la stagione 2016-17 (foto Getty)

Il General Manager non compare spesso nelle istantanee dei trionfi degli Warriors, eppure è uno degli uomini chiave dell’egemonia di Golden State

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Trovare un portafogli smarrito per strada, in un negozio o sul vagone di un treno è una circostanza piuttosto ordinaria, capitata a molti e che potrebbe capitare a tanti altri. Di solito, nel tentativo di restituire quanto di dovere al malcapitato, dare una sbirciata al contenuto è d’obbligo. Oltre a tessere e documenti, quanto racchiuso nel portafogli di una persona dice molto della persona stessa, delle cose a cui tiene di più e che desidera portare sempre con sé. Ad esempio, qualora capitasse d’inciampare nel portafogli di Bob Myers, magari tra i parcheggi che circondano la Oracle Arena di Oakland, oltre alle foto della moglie Kristen e delle figlie Kayla e Annabelle, ci si troverebbe tra le mani qualcosa d’insolito. Un cimelio custodito con cura e con la data ben visibile stampigliata sul biglietto: 15 gennaio 1982, Golden State Warriors vs New York Knicks, la prima partita da spettatore nel palazzetto che trent’anni più tardi diventerà la sua seconda casa. Nato ad Alamo, mezz’ora d’auto dalla Baia, il giovane Bob non ha mai ceduto al contagioso glamour gialloviola anni ‘80 di Magic Johnson e Kareem Abdul-Jabbar, professando una solida fede in quella che all’epoca era una squadra in lenta ricostruzione dopo lo storico trionfo del 1975. Gli Warriors, insomma, sembravano essere nel suo destino fin dalle origini. Tuttavia, nel percorso che lo porterà fino alla stanza dei bottoni della sua squadra del cuore, il destino gioca una parte rilevante ma in fin dei conti trascurabile rispetto ad altri fattori come l’audacia, l’ingegno e un’innata vocazione a mettersi sempre alla prova.

California Love

Tutta la prima parte della vita di Myers si svolge all’interno dello stato della California, così come gli esordi sul campo da basket. Il talento, a dire il vero, è ridotto e inversamente proporzionale alla passione per la palla a spicchi, seconda solo alla carica agonistica. Myers sogna di vestire la maglia della Monte Vista High School e, nonostante la modesta cifra tecnica, riesce a entrare in squadra nel suo anno da junior per poi finire in quintetto in quello seguente. Il coach Jeff Koury ne apprezza l’intensità portata a ogni allenamento e la feroce applicazione difensiva in partita. Ai margini di un camp estivo, Koury ha modo di segnalarne le qualità del ragazzo a Steve Lavin, allora terzo assistente sulla panchina di UCLA. I due, Myers e Lavin, s’incontrano quando il primo, tra le altre cose studente modello, visita il campus dopo aver scelto la facoltà di economia per meri motivi accademici. Alla richiesta d’informazioni circa gli orari d’apertura degli impianti sportivi, giusto per capire come tenersi in forma durante il percorso di studi, Lavin replica con l’invito a presentarsi per i provini della squadra a inizio autunno.

Il neo-diplomato, puntuale nel praticare il mantra del basso profilo, confessa di credersi adatto al massimo al ruolo di accompagnatore, ma infine cede alla tentazione di provare a raggiungere quello che al momento è poco più di un miraggio. Superando ogni aspettativa, l’ex Monte Vista viene selezionato tra altri quaranta aspiranti Bruins ed entra a far parte della compagine che vincerà il titolo nel 1995. Il suo contributo concreto è limitato (0.3 punti a partita la media nell’anno culminato con la vittoria finale), ma il ragazzo diventa beniamino del pubblico e punto di riferimento per compagni e coaching staff. Sulle copertine finiscono Ed O’Bannon e Tyus Edney, trascinatori del quintetto che regala all’ateneo la prima gioia dai tempi di John Wooden, mentre Myers si guadagna la stima e l’affetto di tutto l’ambiente. Ricoprendo un ruolo solo in apparenza marginale, il futuro GM degli Warriors matura la prerogativa ad agire lontano dalle luci della ribalta, qualità che si rivelerà fondamentale nel prosieguo del suo cammino.

La storica finale che riporta il titolo ai Bruins dopo vent’anni, per scorgere il futuro GM degli Warriors occorre attendere le celebrazioni dopo il fischio finale.

“Un giocatore solido, un essere umano ancora migliore”

Jim Harrick, capo allenatore dei Bruins, stravede per Bob che a sua volta trova in Harrick un primo, agognato mentore. Una volta terminata l’esperienza universitaria, però, è chiaro a entrambi che il futuro non potrà coincidere con l’intenzione di diventare giocatore professionista. L’intelligenza e il trasporto per il gioco, nondimeno, sono fuori dal comune, tanto che Harrick si convince che il suo pupillo può comunque trovare la propria strada nel mondo del basket. Al coach di UCLA è sufficiente una telefonata per stuzzicare la curiosità di Arn Tellem, astro nascente tra gli agenti che si occupano di giocatori NBA. Un po’ per il debito di riconoscenza verso il coach, che qualche anno prima aveva spinto Reggie Miller tra le sue braccia, e un po’ perché sinceramente colpito dalle parole di Harrick — “È un giocatore solido, ma come essere umano è anche meglio: una mente straordinaria, uno dei ragazzi migliori con cui abbia mai avuto a che fare” —, Tellem decide di dare una possibilità al neo-laureato.

Assunto come stagista, Bob dimostra da subito di possedere doti fuori dal comune e l’etica del lavoro necessaria per metterle a frutto. Da stagista trova il tempo di conseguire una seconda laurea in legge alla Loyola Law School: alternando studio e lavoro, contribuisce a rimpolpare il pacchetto clienti con stelle del calibro di Tracy McGrady e Jermaine O’Neal. Oltre a una spiccata capacità relazionale, perfeziona la piena padronanza degli aspetti contrattuali e salariali della NBA che gli tornerà utile nel suo impiego successivo. Nel giro di qualche anno diventa il braccio destro di Tellem, guadagnandosi la fiducia dei tanti assistiti e il rispetto delle controparti con cui si trova a negoziare. Non a caso Danny Ainge, General Manager dei Celtics tornati in cima alla lega, sente di poterne spendere il nome con l’amico e socio in affari Joe Lacob, multi-milionario a capo della cordata che ha appena rilevato la proprietà dei Golden State Warriors. Come per la telefonata di Harrick qualche anno prima, anche le parole pronunciate da Ainge colpiscono nel segno e di fronte a Myers si schiudono le porte del sogno coltivato fin da bambino, ovvero essere a capo di una squadra NBA. Anzi, meglio: dirigere proprio la squadra del cuore.

Ritorno sulla Baia

Dopo aver ben impressionato la nuova proprietà durante i frequenti colloqui informali succedutisi per tutta la primavera del 2011, l’allora socio della potentissima Wasserman Media Group decide di accettare il ruolo di assistente a fianco di Larry Riley. Quando firma l’accordo di collaborazione con Golden State abbandona un pacchetto clienti di venti giocatori per cui ha negoziato un monte contrattuale di poco inferiore ai 600 milioni di dollari. Pur di lavorare per la squadra di cui è da sempre tifoso, accetta anche un sostanzioso taglio al suo compenso. La sua è una scommessa, coraggiosa ma non avventata: perché a dispetto della costante modestia con cui si rapporta verso gli altri, il ragazzo da Alamo crede ciecamente nelle proprie capacità professionali e umane. I frutti del suo operato sono da subito visibili e meno di un anno dopo viene nominato GM, succedendo proprio a Riley. Quella che inizia nell’aprile 2012, tra le incognite di una franchigia in pieno rebuilding, è una formidabile storia di successo sportivo, ma non solo.

La forza dei numeri

Lo slogan “Strength in Numbers”, divenuto manifesto degli Warriors padroni della lega, è ben supportato dai risultati. Le prime cinque stagioni della gestione Myers riportano un record di vittorie del 74% (305-105) in regular season e del 69% (56-25) nei playoff. Di fronte a numeri del genere è facile intuire la portata storica del ciclo avviato con l’insediamento del nuovo GM, soprattutto alla luce del fatto che nei 18 anni precedenti la franchigia era riuscita una sola volta ad accedere alla post-season. Le scelte azzeccate ai vari Draft, talora addirittura al confine con la chiaroveggenza cestistica, hanno costituito la base su cui edificare la solidità del gruppo. L’abbandono senza remore verso un basket fatto di statistiche avanzate, tralasciando i dogmi dei ruoli standardizzati e utilizzando massicciamente il tiro da tre ha consentito di massimizzare le caratteristiche dei talenti a disposizione. L’accortezza nella gestione del monte stipendi ha invece permesso, in coincidenza di un particolare e forse irripetibile momento di mercato, la realizzazione del colpaccio Kevin Durant, autentico balzo in avanti capace di ampliare ed estendere nel tempo la supremazia sul resto della lega.

L’arrampicata che ha portato i Dubs sulla vetta della NBA è parimenti lastricata di decisioni sofferte e spesso criticate al momento: il licenziamento di Mark Jackson, condottiero che aveva riportato Golden State alla dignità agonistica; il rifiuto di scambiare Klay Thompson per arrivare a Kevin Love, all’epoca tra le stelle più ambite; le rinunce a veri e propri pilastri del ritorno alla gloria del 2015 come Andrew Bogut, Festus Ezeli e Harrison Barnes pur di mettere le mani su Kevin Durant. Ogni sterzata, brusca o maturata con pazienza, ha visto il General Manager al volante di una macchina condivisa anche con altri, dai proprietari all’allenatore fino all’ex consigliere Jerry West. A prescindere dalla gestione tecnica, comunque decisiva per gettare le fondamenta dell’attuale predominio, Myers ha anche portato la fiaccola di un radicale rinnovamento identitario, modellato sulla scia dell’impulso generato dalla nuova proprietà.

L’onda lunga della Silicon Valley

Se numeri e risultati appaiono eloquenti, è quanto creato fuori dal campo a definire meglio l’operato di Myers. Più dei titoli vinti e di quelli ancora da vincere, ad attirare come un magnete sponsor, investitori, tifosi e giocatori in cerca della Terra Promessa è infatti l’aura creatasi intorno alla franchigia. Concetti come partecipazione aggregativa, libertà d’espressione e valorizzazione delle diversità, mutuati in buona parte dal libro magico delle regole scritte e non scritte della Silicon Valley, hanno di fatto elevato gli Warriors a un livello di successo sportivo ed extra-sportivo mai visto in precedenza.

Quando nell’aprile 2016 Joe Lacob ha dichiarato al New York Times che Golden State era “anni luce avanti” rispetto al resto della lega, forse ha peccato di superbia pagando poi lo scotto in Finale NBA contro Cleveland, ma non è andato molto lontano dal riassumere con efficacia la realtà dei fatti. Nel sollevare di peso l’intera lega per portarla verso il futuro, gli Warriors hanno in primo luogo tracciato la via verso un nuovo modo di intendere le comunicazioni col mondo esterno. La loro rivoluzione è stata anche, forse prima di tutto, mediatica: il cambio di sceneggiatura rispetto alla narrazione su cui le squadre dell’epoca moderna hanno caratterizzato le loro epopee — dall’impenetrabilità Zen di Bulls e Lakers guidati da Phil Jackson alla Pyongyang nero-argento piantonata da Duncan e Popovich — è di quelli notevoli. E anche in questo senso, a dettare la linea senza sentire la necessità di ribadire platealmente il proprio ruolo di leadership è stato Bob Myers. Inaspettatamente alieno all’universo social visto che il GM non ha profili Facebook, Twitter o Instagram, il numero d’interviste concesse, di ospitate ai podcast, di partecipazioni a eventi benefici e simili non è comunque nemmeno comparabile a quello di nessun altro dirigente della lega. Le uscite pubbliche a cui l’ex-Bruin ha prestato parte del proprio prezioso tempo, oltretutto, dicono molto della visione che ha imposto al front office dei Dubs.

Live @ San Quentin

La prigione di San Quentin, fondata a metà del XIX secolo e nota per ospitare il braccio della morte in cui vengono eseguite le pene capitali dello stato della California, nel corso degli anni è passata alle cronache per aver spalancato le alte inferiate dell’ingresso a eventi che normalmente non si assocerebbero all’ambito carcerario. La leggenda della musica americana Johnny Cash, che con il sistema detentivo vantava una discreta familiarità, ci ha tenuto un concerto immortalato nell’omonimo live del 1969. Più di trent’anni dopo, i Metallica, campioni d’incassi dell’hard rock a stelle e strisce, ne hanno ripercorso le tracce girandovi il video promozionale di un loro disco.

Paradossalmente, nel corso della propria storia recente il carcere di massima sicurezza ha cercato di aprire la propria struttura verso l’esterno. Lo sport, come prevedibile, non ha fatto eccezione. In questo senso, la partita con protagonista una selezione di carcerati era un esperimento già inaugurato da qualche anno quando Bob Myers, appena arrivato a Golden State, ha deciso di coinvolgere tutta la franchigia e, soprattutto, presentarsi in canotta e pantaloncini. Ancora in ottima forma fisica malgrado le scarpette siano appese al chiodo da oltre 20 anni, il General Manager — che già normalmente sfida i membri del suo staff in estenuanti uno contro uno — ha raggruppato una serie di colleghi per fronteggiare i San Quentin Warriors (il nome della selezione pare averlo scelto la direzione del carcere, forse in omaggio agli ospiti d’onore).

La sfida annuale, di solito programmata in settembre, è diventata una tradizione che il GM ha portato avanti con convinzione perché, stando alle sue stesse parole, permette a lui e agli altri di confrontarsi con una parte del paese di cui altresì ignorerebbero l’esistenza. L’iniziativa appare significativa nel contesto che vede l’intera NBA decisa a diventare punto di riferimento per le singole comunità locali. La particolarità del caso, però, sta nel furore agonistico con cui Myers pretende venga presa la disputa. Perché giocare fino al limite delle proprie possibilità è innanzitutto un atto di rispetto per gli avversari, ivi compresi i carcerati di San Quentin. Il messaggio, in sostanza, è chiaro: massima apertura nei confronti di chiunque, perché capire e accettare gli altri è la premessa per poter progredire, ma nessuna indulgenza quando si tratta di competere, perché solo il confronto vero permette di migliorarsi.

Dopo aver perso nel 2014, il General Manager ha condotto i suoi a due vittorie consecutive (per la cronaca, il box score personale nella prima rivincita dice 43 punti, 13 rimbalzi, 5 stoppate, 2 assist e 2 palle rubate, quello dell’ultima, bruciante sconfitta all’ultimo tiro 32 punti e 31 rimbalzi). Non contento dei risultati ottenuti sul cemento duro della prigione, durante le ultime edizioni Myers ha coinvolto anche alcuni giocatori come supporter a bordo campo. In prima fila, a incitare il suo GM, in entrambe le occasioni c’era Draymond Green. La presenza dell’ala degli Warriors, va sottolineato, non può essere considerata casuale.

La connessione Myers-Green

Quella approntata dagli Warriors può essere considerata una vera rivoluzione culturale, tant’è vero che il GM, tra i primi artefici e fomentatori, è ormai ospite fisso dell’annuale Sloan Sports Analytics Conference organizzata dall’MIT di Boston. La consistenza dell’apporto di Bob Myers, oltre che nelle manifestazioni pubbliche, è poi rilevabile dalla qualità dei rapporti interni instaurati con le figure chiave della rivoluzione stessa.

Dalle parti di Oakland, chiunque venga sollecitato in merito alle credenziali del General Manager evidenzia la capacità di far sentire la propria presenza senza prevaricare o avvertire la necessità di ribadire l’importanza del proprio ruolo. La predisposizione ad ascoltare e cercare di mettere le persone a proprio agio, senza dover sempre dare prova di primeggiare in ogni situazione, si è tradotta nella pietra angolare della filosofia degli Warriors. Quell’altruismo genuino di cui Myers è portatore sano ha costituito stimolo ed esempio per tutti gli altri, aprendo la strada a decisioni come quella di Steph Curry di accettare l’ingaggio di un’altra stella come Durant per il bene collettivo o a quella dello stesso Durant di rinunciare a parte del potenziale salario pur di favorire la permanenza di compagni come Andre Iguodala e Shaun Livingston. Ne sa qualcosa Steve Kerr, il cui vincolo d’amicizia con il “capo” si è cementato durante la lunga assenza dalla panchina per i noti problemi alla schiena. Periodo nel quale il GM, seppur oberato dall’intuibile mole di lavoro, è stato presente quotidianamente.

Da questo punto di vista, tuttavia, il legame più significativo è forse quello con Draymond Green. Carattere non proprio tra i più malleabili, l’ex Michigan State ha più volte dimostrato apprezzamento per colui che l’ha scelto sul fondo del Draft 2012. Tra i due esiste una connessione profonda, laddove Green rappresenta il cuore pulsante della squadra ben più delle tante stelle a roster e Myers è l’equilibratore delle tensioni tra l’esplosivo carattere del giocatore e il resto dell’ambiente, coaching staff in primis. A conferma dell’affinità, i due hanno celebrato insieme i premi vinti rispettivamente come miglior dirigente e miglior difensore della stagione 2016-17, proprio in quella Monte Vista dove il GM ha esordito sul parquet. Non bastasse, a poche settimane di distanza, nel discorso che l’ala degli Warriors ha tenuto durante la parata per celebrare il titolo appena vinto, Green ha sentito il bisogno di metterne in evidenza i meriti, spesso passati sotto silenzio.

Ovviamente, trattandosi di Draymond Green, l’ha fatto alla sua maniera.

Lui, ad ogni modo, pare aver apprezzato, tanto che l’urlo “Can Bob get some fu****g credit?” (“Possiamo dare dei ca..o di meriti a Bob?”) sembra sia diventato la suoneria del suo cellulare. Ma aldilà del tentativo di regalare per una volta il palcoscenico a Myers — uomo che sin dai tempi di UCLA ha costruito i successi, suoi e degli altri, restando attentamente fuori dall’inquadratura — Green è stato protagonista indiretto di un episodio che probabilmente funge da vera chiosa sulla natura del ragazzo da Alamo, California.

Di fronte alla domanda su quale sia la più grande soddisfazione raccolta in questi anni a Golden State, infatti, il dirigente non cita i due titoli o il miglior record di regular season della storia, tantomeno i riconoscimenti guadagnati a livello personale, preferendo partire da una sconfitta, l’unica vera delusione della sua esperienza sulla Baia. Durante gli exit meeting successivi alla clamorosa dèbàcle delle Finals 2016, Myers si aspettava che qualcuno tra giocatori e staff tecnico, sull’onda di una più che comprensibile frustrazione, menzionasse il comportamento sopra le righe in Gara-4 e la successiva squalifica rimediata per Gara 5 da Green, chiave di volta che aveva dato il via alla stupefacente rimonta di James e Irving. Viceversa nessuno, nemmeno tra i compagni consci di non essere riconfermati, aveva manifestato l’esigenza di togliersi il classico sassolino, che in quel frangente doveva avere le dimensioni di un macigno, dalla scarpa.

“È stato il momento in cui sono stato più orgoglioso di far parte di questo gruppo. Non durante le parate per le vittorie o alla consegna degli anelli, lì in quell’istante: nel nostro peggior momento avevamo dato il nostro meglio, rivelando la nostra vera natura”.