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Perché i Jazz sono la squadra del momento in NBA? Chiedete a Mitchell (e non solo)

NBA

Stefano Salerno

I Jazz erano intenzionati a perdere in questa seconda parte di stagione, ma sono riusciti a mettere a posto un po’di cose meglio di quanto loro stessi potessero immaginare. E adesso andarsi a prendere i playoff non sembra più un’illusione

23 gennaio 2018: Utah affonda in trasferta ad Atlanta, battuta di 14 punti in un match senza storia contro gli Hawks e scivolata sempre più lontano dalla zona playoff. “Ci sono alcuni momenti in cui sembriamo non aver voglia di giocare”. Con la chiusura del mercato alle porte e una rivoluzione tecnica portata avanti soltanto a metà, il destino dei Jazz puntava in quel momento pericolosamente verso quella mediocrità che in NBA è spesso sinonimo di fallimento. Il mancato rinnovo di Gordon Hayward in estate (unito alla partenza di George Hill e al declino di Joe Johnson) aveva sottratto dei tasselli fondamentali a una squadra arrivata con merito in semifinale di Conference meno di 12 mesi fa e l’intenzione, anche dopo i ripetuti infortuni di Rudy Gobert, era chiara: perdere non sarebbe stato un grosso problema, soprattutto considerando la prima scelta da giocarsi il prossimo giugno. I Jazz però non avevano fatto i conti con quella che avevano speso qualche mese prima; non pensavano in buona fede che Donovan Mitchell potesse risultare così forte e così incisivo sin da subito. La 13esima chiamata all’ultimo Draft è stata una delle più felici mai fatte dalla squadra di Salt Lake City in tutta la sua storia; un gruppo rivoltato come un calzino dal miglior rookie dell’anno (Ben Simmons permettendo). Mitchell ha più ventelli a referto di quanti ne realizzò Karl Malone nel suo primo anno NBA (record di franchigia superato sbadigliando); mai nessun giocatore nella lega aveva segnato 61 triple nelle prime 25 gare in carriera e i suoi due quarantelli rendono la sua regular season una delle migliori mai messe a referto da un giocatore al suo esordio. Mitchell si è preso in meno di 20 partite il posto da titolare, segnando quasi 20 punti di media e garantendo al fianco di Ricky Rubio un’opzione più che credibile in quanto a capacità realizzativa. “Per noi raggiungere i playoff è sempre stato l’obiettivo, anche nei momenti più complicati. Non abbiamo cambiato rotta”. Dirlo adesso che sono riusciti a mettere nove vittoria in fila ha tutto un altro senso.

Il mercato cambia la forma, ma non la sostanza

Nelle ultime nove gare qualcosa è cambiato per davvero. In queste tre settimane i Jazz sono terzi per rating offensivo (113.5, a fronte del 104.4 nei tre mesi precedenti) e primi a pari merito coi Bucks per resa difensiva (Utah incassa 97 punti ogni 100 possessi, una miseria in una lega che corre sempre di più). Mitchell e compagni hanno il miglior Net Rating della NBA e a guardare l’ultimo successo raccolto contro Portland sembrerebbe che anche il mercato non ha cambiato più di tanto le cose. I Jazz infatti sono stati costretti a fare delle scelte dolorose, rinunciando a un prospetto come Rodney Hood (scalzato in pianta stabile da Mitchell), pur di aggiungere esperienza e sostanza difensiva in ala. Il grande assente di questa regular season infatti è stato Joe Johnson, scaricato in questo finale di mercato nella maxi trade in cui ha fatto le valigie anche Hood. In cambio sono arrivati Jae Crowder e Derrick Rose. Il primo, lanciato subito in campo per 29 minuti, ha risposto presente segnando 15 punti contro i Blazers e dando un’enorme mano in difesa. “Non conosce i nostri giochi, non sapeva bene cosa fare, ma nonostante questo è riuscito a incidere in maniera positiva – racconta Gobert -. È un giocatore intelligente, uno di quelli che ci serviva”. Il suo contratto da 7.5 milioni di dollari per altri due anni ha poi un’incidenza minima sulle possibilità di manovra dei Jazz, che al netto del rinnovo di Derrick Favors avrebbero lo spazio per puntare a un big durante la free agency. Discorso diverso invece per l’altro arrivo, quel Rose rilasciato dopo poche ore dall’ufficialità dell’accordo. “Senti Derrick, è nostro interesse lasciarti libero affinché tu possa trovare una squadra realmente competitiva per i playoff. Anche noi puntiamo alla post-season, ma non vogliamo vincolarti”. Questo il senso del messaggio con cui hanno rilasciato quello che ormai è soltanto il lontano parente dell’MVP del 2011. “Jae è uno di quei giocatori che abbiamo ammirato a lungo; è uno di quelli che conosco bene la lega e possono tornarci molto utili”, commenta il GM Dennis Lindsey. Lo scorso anno Crowder si arrabbiò con il pubblico di Boston che acclamava Hayward per convincerlo a prendere il suo posto. Alla fine anche lui si è andata a prendere lo spazio lasciato vuoto dall'All-Star a Salt Lake City.

Non solo Mitchell: la chiave sono Ingles, Gobert e O’Neale

Il definitivo cambio di marcia però è arrivato perché tutto il supporting cast dei Jazz ha iniziato a viaggiare a un’altra andatura. A cambiare in maniera radicale sono stati prima di tutto le due star del gruppo, Gobert e Rubio. Il primo ha ridato consistenza alla difesa (che resta il core business della squadra, nonostante adesso il canestro sembri una vasca da bagno in attacco), aumentando l’efficacia anche sul pick&roll che il francese gioca in maniera favolosa da rollante. Per dare consistenza alla resa offensiva la chiave resta la ritrovata mira dall’arco. Merito in primis di Joe Ingles, che nelle ultime nove gare ha dimostrato di meritare gli oltre 14 milioni di dollari incassati: quasi 16 punti di media, tirando con il 58% dal campo e il 56% dall’arco su oltre sei tentativi. Una macchina da canestri a cui si aggiunge anche un Rubio dall’insospettabile efficacia: 19 punti con il 54% dal campo e il 53% da tre punti sono cifre oggettivamente non sostenibili per lo spagnolo, da sempre in difficoltà quando si è trattato di dare continuità alle sue percentuali. In casa Jazz però adesso tutto funziona al meglio, anche il più insospettabile dei rookie, come accaduto nel caso di Royce O’Neale. Una regular season da 82 partite infatti riserva spazio e opportunità anche a chi non penserebbe mai di averne. O’Neale contro Portland ha fatto il suo esordio da titolare (data l’assenza di Rubio), in una sfida chiusa con quattro punti, 11 rimbalzi, sei assist e un eloquente +28 di plus/minus. Quando le cose vanno per il meglio, anche l'ultimo arrivato riesce a dire la sua: "Dobbiamo continuare a giocare a basket. Abbiamo dimostrato di saperlo fare così bene: perché smettere?".