Prima di pensare a un eventuale back-to-back (il primo dai tempi dei Miami Heat 2012 e 2013), i Golden State Warriors devono sconfiggere gli Houston Rockets: "Pareggiando la loro intensità, andando forte a rimbalzo ed evitando di perdere palloni", la ricetta di KD
Kevin Durant è reduce da una gara-1 sensazionale, chiusa con 37 punti, la vittoria sul campo degli Houston Rockets e una partita eccezionale sui due lati del campo, virtualmente immarcabile uno-contro-uno in attacco (27 dei suoi 37 sono arrivati in isolamento) e sulle piste del miglior attaccante avversario per larghi tratti della partita (un James Harden che nonostante i 41 punti finali ha sofferto le lunghe braccia e la mobilità difensiva di Durant). A questo va aggiunto lo status di campione NBA in carica, titolo vinto lo scorso giugno al primo tentativo con la maglia degli Warriors, mettendosi in tasca anche il titolo di MVP delle finali dopo aver vinto quello di miglior giocatore della lega nel 2014, quello di MVP dell’All-Star Game due anni prima e quello di matricola dell’anno nel 2008, al suo ingresso nella lega. La parabola del n°35 di Golden State è in continua ascesa e sembra oggi essere ai suoi vertici massimi, ad altezze fin qui mai toccate: “Individualmente cerchiamo tutti, io per primo, di dare il meglio ed essere i migliori giocatori che possiamo essere, ma lo facciamo per il bene della squadra, non per la gloria personale”, racconta Durant ai microfoni di David Aldridge, in un’intervista esclusiva per la rubrica Inside Stuff. “È questo il bello di questo gruppo, è questo il bello del basket: lavori con persone diverse per cercare di raggiungere un obiettivo comune”. L’obiettivo comune in casa Warriors, finalisti gli ultimi tre anni, campioni due volte, è ovviamente il titolo NBA e per arrivarci le sfide di playoff sono il viatico perfetto per misurare le proprie ambizioni: “I playoff sono quel momento dell’anno in cui vuoi guadagnarti la fiducia dei tuoi compagni, del tuo coaching staff, dell’organizzazione e dei tifosi, dimostrando di poter essere decisivo quando conta: vuoi metterti alla prova tanto individualmente che di squadra”, racconta Durant. Eliminati Spurs e Pelicans ai primi due turni, il vero banco di prova si chiama ora Houston Rockets, ovvero la miglior squadra NBA, forte di un record di 65 vittorie e 17 sconfitte in stagione regolare, e ora avversaria da battere sulla strada per il quarto viaggio consecutivo in finale NBA. Su come fare a batterli KD sembra avere le idee chiare: “Dobbiamo pareggiare la loro intensità, andare forti a rimbalzo e non perdere palloni, perché loro sono bravissimi a capitalizzare su ogni errore altrui. Non possiamo batterci da soli, dobbiamo costringerli a farlo. Sappiamo che vogliono provare a fermarci cambiando su ogni blocco, più volte ad azione; sappiamo che vogliono provare a rallentare il nostro ritmo di gioco: poi man mano che la serie va avanti capisci meglio le loro tendenze, come giocano e cosa vogliono fare in campo e ti adatti di conseguenza. Mentalmente sei chiamato a studiare tutti i matchup, le diverse rotazioni e altri dettagli del gioco”.
La crescita (anche personale) di Kevin Durant
Se Golden State dovesse riuscire a superare Houston in finale di conference, davanti troverebbe un’altra sfida davvero ambiziosa: diventare la prima squadra dai tempi dei Miami Heat del 2012 e 2013 a ripetersi come campioni NBA. “Quando fin dal training camp le chiacchiere sono sulla possibilità di tornare in finale e poi vincere ancora, e davanti hai tutta una lunga stagione, poi i playoff e tutte le distrazioni del caso, la parte più difficile è restare nel presente, vivere solo l’attimo e non lasciare che la tua mente corra troppo in avanti”, racconta Durant. “Sappiamo benissimo quello che c’è in palio, sappiamo quello che potrebbe succedere se portiamo a termine il nostro lavoro, ma nel momento in cui iniziamo a pensare a quello e togliamo la nostra attenzione da ciò che dobbiamo fare nel momento, allora rischiamo di far saltare tutto per aria”. Una posizione saggia, che denota la crescita anche personale del giocatore di Steve Kerr, maturato tantissimo negli anni trascorsi all’interno della lega: “Sono cambiato molto anche solo rispetto a 4 anni fa, quando vincevo il titolo di MVP NBA”, ammette KD. “Al tempo ero un ragazzino che voleva ottenere qualsiasi tipo di riconoscimento individuale: volevo diventare MVP, volevo essere il capocannoniere NBA. Poi, nel momento stesso in cui raggiungi questi obiettivi, ti rendi conto che non hanno nessun senso se non quello che per ottenerli hai dovuto lavorare duramente in palestra ogni giorno. Non li ho vinti perché pensavo di meritarmeli o di doverli vincere: ce l’ho fatta perché ho lavorato duramente per riuscirci e questo era un aspetto che al tempo sottovalutavo. Da quel giorno apprezzo ancora di più ogni volta che ho la chance di scendere in campo e portare il mio contributo alla squadra”.