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Playoff NBA, l'arte del riposo in campo: come LeBron James è riuscito a giocare 48 minuti filati a 33 anni

NBA

Dario Vismara

Erano quasi sei anni che un giocatore NBA non chiudeva una partita di playoff senza mai riposarsi come fatto da LeBron James in gara-7 contro Boston. Un'impresa riuscita grazie a una resistenza incredibile... e a un po' di trucchetti perfezionati nel corso della sua incredibile carriera

Fino a qualche anno fa LeBron James diceva che era semplicemente “impossibile” pensare di giocare più di 40-42 minuti in una partita di Finale. “Con il ritmo della regular season, posso anche giocarli tutti e 48. Ma giocando duro per tutta la post-season, prenderei in giro la mia squadra se dicessi che posso andare in campo e giocare 48 minuti. Penso che sia impossibile”. Questo pensiero risale alle Finali NBA del 2015, quando senza Kyrie Irving e Kevin Love fu costretto a caricarsi addosso una dose supplementare di possessi e responsabilità, finendo la serie contro i Golden State Warriors sfibrato, distrutto e sconfitto in sei partite. Quella di ieri notte non era una partita di Finale, ma poco ci manca: in gara-7 sul campo dei Boston Celtics, LeBron James – alla sua 100^ partita stagionale – non ha riposato in panchina neanche per un secondo, sparandosi 48 minuti filati dopo averne giocati 46 solamente due giorni prima, infilandoci anche un viaggio aereo nel mezzo per volare da Cleveland a Boston. Per trovare l’ultimo giocatore a non uscire mai da una partita di playoff in partite che non sono finite al supplementare bisogna risalire al 6 giugno 2012, quando Kevin Durant lo fece con la maglia degli Oklahoma City per eliminare i San Antonio Spurs in gara-6 di finale di conference. Solo che “KD” ai tempi non aveva ancora compiuto 24 anni, aveva giocato una regular season ridotta a 66 partite per via del lockout e soprattutto aveva al suo fianco sia Russell Westbrook che James Harden. Non proprio le stesse condizioni che ha avuto a disposizione James, che giocando una partita del genere a 33 anni e 148 giorni è il terzo più vecchio di sempre a chiudere una gara da 48 minuti filati, dietro a John Havlicek (due volte nei playoff del 1974) e Scottie Pippen nel 1999.

Ritmo basso, riposo in difesa, timeout ad hoc: i piccoli trucchetti di James

Ovviamente sarebbe impossibile disputare una partita da 35 punti, 15 rimbalzi e 9 assist, per di più dovendo trascinare i compagni per ogni singolo possesso offensivo, senza usare qualche trucchetto qua e la. Ad aiutare l’impresa erculea di James c’è innanzitutto il pace della partita, ovverosia il numero di possessi giocati: in gara-7 sono stati 88.18, ancora più lento rispetto al 92.24 tenuto in gara-6. A un ritmo del genere James ha potuto risparmiare qualche energia, controllando lo sforzo specialmente nella metà campo difensiva dove in qualche occasione è stato letargico nei cambi difensivi e nel seguire i tagli backdoor degli esterni, peccati che i compagni hanno accettato di subire più che volentieri pur di averlo concentrato nella metà campo offensiva, dove comunque ha commesso qualche errore perdendo otto palloni.

Proprio il fatto che i suoi compagni però non siano “affogati” dopo il -12 subito nel secondo quarto ha permesso a coach Tyronn Lue di non sprecare timeout per fermare l’inerzia della partita, e quei minuti aggiuntivi sono tornati estremamente utili a 3:47 dalla fine della gara, quando Lue ha chiamato due timeout in fila per dare cinque minuti “reali” di riposo alla sua superstar. Da lì in poi, James ha guidato i suoi compagni al successo con un parziale di 8-1 con tre tiri liberi, un assist a tutto campo per George Hill e un coast-to-coast straordinario concludendo il gioco da tre punti nonostante Marcus Morris si fosse letteralmente aggrappato alle sue spalle in corsa. Avendo già trasportato l’intera Cleveland, cosa volete che sia avere un uomo di cento e passa chili in più da portare in groppa?

Le mille pause di James durante la partita

Nella lista dei bagagli di trucchi di James però c’è anche molto altro: come scritto in un pezzo di ESPN, nel corso degli anni il Re ha perfezionato l’arte di riposarsi in campo, cercando scientemente i momenti migliori per guadagnare qualche decina di secondi di pausa, quasi andando in stand-by. Ad esempio, James non partecipa quasi mai al rimbalzo sui tiri liberi, andando direttamente nell’altra metà campo e rimanendo in attesa che vengano tirate le penalità, tirando il fiato lontano dall’azione. In altre occasioni, invece, il suo distacco è ancora più palese: ci sono momenti in cui James proprio si prende degli interi possessi di pausa, rimanendo immobile in angolo oppure direttamente a centrocampo con le braccia sui fianchi, segno implicito per i suoi compagni che almeno per quell’azione se la devono cavare da soli.

Altre volte, invece, si trova costretto a gestire il suo sforzo difensivo: anche ieri si sono visti possessi in cui James ha deliberatamente scelto di non ruotare dal lato debole per “incontrare” i lunghi al ferro, lasciando due punti facili se si rendeva conto che era impossibile intervenire in tempo per evitare la schiacciata. L’utilizzo della sua riserva di energia è logica e scientifica, oltre che “emozionale”: quando è andato a stoppare Terry Rozier (colpendo la sua mano e commettendo fallo, va detto) a seguito di una brutta palla persa, James è rimasto per diversi secondi fermo e immobile sotto il canestro a osservare l’azione che si sviluppava dall’altra parte. Una pausa che gli è servita per riprendere immediatamente fiato ma anche per incutere timore a tutto il TD Garden, come per dire “Sono qui e non ho intenzione di andarmene senza aver dato tutto”. In un’altra occasione, pochi minuti prima, aveva fatto una palese “dormita” difensiva facendosi sfilare alle spalle Jaylen Brown in maniera banale, e sul possesso successivo per farsi perdonare l’errore è andato immediatamente a segno da tre. Anche in questo caso, il tempismo è tutto per LeBron James.

Il giocatore più lento della NBA (ma non diteglielo che altrimenti si arrabbia)

Con l’avanzare del tempo e della sua carriera LeBron James è migliorato come uno dei suoi amatissimi vini, comprendendo sempre più a fondo il suo corpo e come gestirlo (anche perché investe su di esso svariati milioni di dollari all’anno). Considerando anche la statuarietà della sua figura e la velocità con cui si muove in campo quando accelera, il dato riportato dalle telecamere statistiche della NBA ha colto di sorpresa un po’ tutti: James si muove a una media di 3.71 miglia orarie, pari a meno di 6 chilometri orari, uno dei dieci peggiori dati di tutti i playoff. È stato calcolato che James cammina in campo per quasi l’80% del tempo, scattando solo quando è strettamente necessario per arrivare al ferro il più velocemente e con la massima ferocia possibile. Per questo qualche settimana fa si era sparsa la voce che James fosse il giocatore più lento della NBA, accusa che lo stesso Re ha rispedito al mittente in maniera colorita definendole “stron…e” e auto-proclamandosi “il giocatore più stanco dopo una partita di tutta la NBA”.

In effetti, considerando il carico di lavoro che si è dovuto prendere sulle spalle non si fa fatica a crederlo: l’unica volta in cui il suo Usage Rate (ovverosia il numero di possessi chiusi con un canestro, assist, palla persa o fallo subito) è stato più alto del suo attuale 36.2 è stato nei playoff del 2015, quelli chiusi con Matthew Dellavedova, Iman Shumpert e Timofey Mozgov come compagni più affidabili in campo. In gara-7 ha superato quota 40 per la quarta volta nelle sette gare della serie, una cifra che non aveva più toccato proprio da quelle Finals del 2015, complice anche la presenza in questi anni di Irving al suo fianco. Insomma, ce n’è abbastanza per due vite intere, eppure non è ancora finita: “Mi è stato chiesto di giocare per tutta la gara e ho trovato un modo per farcela” ha detto il Re dopo la partita di ieri. Durante la premiazione per aver vinto la Eastern Conference, però, James riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti, buttandosi in un angolo sdraiato e sfinito. Quando la tua carriera si basa sul vincere il titolo o finire la stagione in un fallimento, festeggiare un banale premio della conference – il nono della sua carriera – ricade nella categoria delle cose per cui non vale la pena sprecare le sue preziosissime energie.