L'ombra più grande sembra proiettargliela il suo avversario diretto in queste finali NBA appena iniziate, LeBron James. Un fantasma scacciato (e sconfitto) lo scorso giugno, che ora però sembra tornato a tormentarlo
OAKLAND, CALIFORNIA — Sarà perché è l’MVP in carica delle finali NBA. Sarà perché degli Warriors è il miglior realizzatore — ex aequo con Steph Curry in stagione regolare (26.4 a sera), in solitaria in questi playoff (28.8 finora). Sarà perché, semplicemente, si chiama Kevin Durant ed è una delle superstar più incredibili che una lega basata sulle superstar abbia mai visto. Normale allora forse che sul n°35 di Golden State ci siano i riflettori sempre puntati e un livello di scrutinio elevatissimo, che porta forse con sé qualche critica di troppo. Arrivata anche dopo una gara-1 chiusa con 26 punti e la vittoria, il contorno di 9 rimbalzi, 6 assist, 3 stoppate e un +17 di plus/minus, il tutto dovendo anche prendersi cura di un certo LeBron James. Che difatti ne ha messi 51 con un ottimo 19/32 al tiro, fanno notare prontamente i critici, mentre Durant ha avuto bisogno di 22 tiri per segnare i suoi 26 punti (8/22) e ha dimostrato di non poter tenere il 23 di Cleveland in difesa: “Fermarlo è un compito durissimo”, ammette lui, ma questo non è una novità — e Steve Kerr (così come Ron Adams, architetto della difesa degli Warriors) sanno benissimo che non può essere un uomo solo a riuscirci. Uno solo no, uno alla volta — verrebbe invece da dire — sì. Perché la strategia di Golden State contro James (ma anche contro James Harden e Chris Paul in precedenza o contro Anthony Davis nel turno ancora prima) è quella di accettare sistematicamente i cambi che l’attacco prova a forzare e affidarsi alla capacità di difendere — senza raddoppi — dei propri uomini. Anche se questo alla fine ha voluto sicuramente dire Durant su James (in 45 possessi lo ha marcato direttamente, concedendogli 30 dei suoi 51 punti, con 10/15 dal campo), ma anche tratti di partita con Steph Curry o Kevon Looney impegnati uno-contro-uno contro il “Re”. “Non è questione di singoli, non è questione di Durant”, taglia corto coach Kerr. “Non abbiamo fatto un buon lavoro su LeBron in generale, come squadra, indipendentemente da chi lo ha marcato”. Solo che il loro (analogo) ruolo in campo, così come il naturale accoppiamento iniziale che li vede più spesso che no ritrovarsi uno contro l’altro, insieme a una certa narrativa che tende a voler sempre proporre duelli individuali, sono tutti fattori che finiscono per portare a giudicare Kevin Durant su una scala di valore che sembra avere in LeBron James l’unità di misura. “Ci sono giocatori che sono di ispirazione, con cui vuoi misurarti — ha ammesso Durant prima del via di questa serie — e LeBron è sicuramente uno di quelli a cui guardo di più”.
Una stagione diversa (e l'ombra di LeBron James)
Lo fa lui, ma lo fanno anche i critici, pronti a valutarne le prestazioni solo comparandole a quelle di James. “Non posso controllare una dinamica del genere — ammette quasi sconsolato Durant — ma so qual è il mio ruolo in questo gruppo e quello che posso portare in dote: il basket è un gioco di squadra e l’unico obiettivo è vincere, io penso a me stesso solo in questi termini”. Se però LeBron in questi playoff è primo per punti, secondo per rimbalzi e terzo per assist, i 28.8 punti a sera mettono Durant al quarto posto ma il resto non è al livello. Ci sono stati i 37 punti seguiti da altri 38 in gara-1 e 2 di finale a Ovest contro Houston, ma prima di tornare ai 34 della settima e decisiva sfida anche qualche passaggio a vuoto nelle partite di mezzo (il 39% al tiro tra gara-3 e gara-6, e l’invito di Kerr “a fidarsi di più dei propri compagni” in un time-out di gara-5). Nella serie contro Houston Durant ha ammesso di aver “forzato qualche tiro di troppo, di aver cercato troppo presto la penetrazione al ferro e di essersi fidato eccessivamente del suo lavoro di piedi e delle sue finte per trovare il canestro, invece di leggere meglio la difesa”. Difficoltà emerse anche dalle percentuali di gara-1 contro Cleveland, dove il n°35 ha segnato solo 2 delle 9 conclusioni contestate che si è preso (22.2%). Percentuali lontanissime da quel 55.6% con cui aveva chiuso le finali NBA 2017, guadagnandosi quel premio di MVP che — forse stufo di tutte le critiche — ha voluto ricordare insieme al resto dei suoi successi proprio prima del via della serie contro i Cavs: “Forse qualcuno di voi non se n’è accorto ma gioco in questa lega da 11 stagioni e durante tutti questi anni ho imparato e vinto qualcosa: mi sono messo in tasca un titolo di MVP NBA, sono andato alle Olimpiadi [vincendo due medaglie d’oro, ndr], ho segnato qualche punto [quasi 21.000 in carriera, ndr]”, ci ha tenuto a ribadire. E se non sarà LeBron James (“Siamo in due fasi diverse della nostra carriera — ha detto lui — io sto ancora imparando, crescendo, cercando di capire molte cose: lui oggi è quello che è perché ha vissuto molta più pallacanestro di me, ma questo è il bello del basket, giocatori diversi con cammini ed esperienze diverse”), Kevin Durant è pur sempre Kevin Durant. A Golden State sembra bastare così.