NBA, a cinque anni dalla rapina del secolo: lo scambio Brooklyn-Boston
NBACome lo scambio tra Brooklyn Nets e Boston Celtics del luglio del 2013 ha cambiato il destino delle due franchigie e anche quello della Eastern Conference, rivelandosi un punto di svolta cruciale nella storia recente della NBA
Se siete tra coloro che non credono alle coincidenze, ritenendo il caso un generatore fortuito di intervalli causa-effetto, potete saltare al capoverso successivo. Qualora invece nutriate l’inclinazione a unire i puntini della storia guardando i fatti in retrospettiva, vi proponiamo una suggestione. In mezzo alle tante peculiarità che caratterizzano gli Stati Uniti, la mania delle statistiche – stima numerica applicata ai campi più diversi dello scibile umano – ricopre un ruolo fondamentale. Tutto viene catalogato secondo meticolosi criteri numerici, dando via al proliferare di classifiche e record in ogni ambito, anche nei più bizzarri. Per dire: quando nel gennaio del 1950 viene derubata la sede della Brink’s, primaria compagnia di trasporto valori e contanti, a destare scalpore è un dettaglio, ovverosia che si tratta della più grande rapina nella storia del paese. Il bottino di 2.775.000 dollari, attualizzati oggi in poco meno di 30 milioni, separa il clamoroso colpo dalle innumerevoli peripezie criminali che l’hanno preceduto. Quella che all’epoca veniva definita “la rapina del secolo”, sarebbe poi stata immortalata nell’omonimo film del 1955 con protagonista Tony Curtis.
È probabile che quel nome, Brink’s, risulti familiare agli appassionati NBA. Il motivo è con ogni probabilità da collegare alle dichiarazioni rilasciate da Isaiah Thomas nell’estate 2016 circa il suo ipotetico rinnovo contrattuale. E si fatica a considerare accidentale l’allusione dell’ex-Celtics a quella specifica compagnia, perché era stato proprio il North End di Boston a fare da sfondo alla “rapina del secolo”. Insomma, in qualche modo i puntini di cui sopra sono uniti da un tratto diretto. E anche se la vicenda di cui si riporta in questo pezzo non è mai stata oggetto di denuncia penale (o tantomeno di traduzione cinematografica, finora) poco cambia. Proveremo comunque a utilizzare la struttura del crime movie per cercare di raccontare un altro colpo clamoroso, avvenuto a oltre sessant’anni di distanza. Il tentativo di capire come sia potuto succedere tutto ciò che è successo passa dalla ricomposizione delle premesse, partendo innanzitutto dal luogo dell’altra rapina del secolo – quella avvenuta in un giorno d’estate di cinque anni fa.
Parte prima: riassunto delle premesse
Dalla Russia con amore (e arroganza)
Quando arriva la primavera del 2013, le lancette dell’orologio corrono veloci per i Nets. Il tanto atteso trasferimento nel cuore di Brooklyn, perfezionato dodici mesi prima, non ha portato i risultati attesi: la stagione appena chiusa con l’eliminazione al primo turno dei playoff per mano dei Chicago Bulls di Marco Belinelli è stata caratterizzata dai dissidi interni, sfociati nel licenziamento di coach Avery Johnson a fine dicembre. Eppure le premesse con cui ci si era presentati ai nastri di partenza erano ben diverse: arrivato Joe Johnson da Atlanta e rifirmati Deron Williams, Brook Lopez e Kris Humphries, l’idea era quella di compiere un altro passo verso il gotha della lega. Billy King, General Manager subentrato al leggendario Rod Thorn, era insomma rimasto fedele all’interpretazione dei desiderata espressi dalla proprietà che l’aveva voluto tre anni prima. Le parole pronunciate dal magnate russo Mikhail Prokhorov al momento dell’acquisto non avevano infatti lasciato adito a dubbio alcuno: “Se entro cinque anni i Nets non avranno vinto un titolo NBA, prometto che mi sposerò”. Alla scadenza tracciata dallo scapolo d’oro Prokhorov con peculiare e sarcastica arroganza russa, conti alla mano, mancano due anni esatti. Occorre quindi accelerare i tempi e, nonostante il passo falso appena compiuto, il sentimento comune è di fiducioso ottimismo. La proprietà non pone un tetto ai limiti di spesa e come uomo immagine c’è JAY Z, vera e propria icona dell’hip-hop contemporaneo che ci si aspetta possa funzionare da magnete verso i migliori free agent sul mercato. E poi c’è Brooklyn, la nuova casa della squadra, quartiere che vive il picco più alto del processo di gentrificazione in atto da un decennio abbondante. A dispetto dei risultati fin lì più che modesti, nell’aria c’è una strana esuberanza: la sensazione è quella di poter effettuare lo storico sorpasso sugli odiati cugini Knicks, in tutto e per tutto padroni della città. Non bastasse, anche il regno degli Heatles che hanno dominato la Eastern nelle ultime annate sembra scricchiolare. Detronizzare LeBron James diventa una sfida tanto avvincente quanto attuabile.
Danny, il capo-cantiere
Anche l’annata dei Celtics si è conclusa con un’eliminazione al primo turno dei playoff, guarda caso per mano dei Knicks. Il roster è più o meno quello che ha riportato il titolo a Boston dopo oltre due decenni, eccezion fatta per Kendrick Perkins, scambiato con OKC, e Ray Allen, fuggito a South Beach per abbracciare i Tres Amigos. E proprio Miami, ultima fermata delle due stagioni precedenti, sembra irraggiungibile per i ragazzi di coach Doc Rivers. L’impressione che si sia arrivati alla fine di un ciclo è confermata dalla decisione del coach di accettare l’offerta dei Clippers e lasciare i colori biancoverdi dopo nove anni. Rajon Rondo, l’unico pezzo dei Celtics campioni nel 2008 ad avere ancora una buona prospettiva di carriera davanti, è reduce da un infortunio rimediato a gennaio che lo terrà fermo per un intero anno. Il fondo d’investimento Boston Basketball Partners guidato da Wyc Grousbeck, che detiene la maggioranza delle quote, affida a Danny Ainge il mandato di premere con forza il pulsante “Reset”. A capo dell’area tecnica dal momento del cambio di proprietà a inizio anni Duemila, Ainge si è guadagnato la fiducia incondizionata grazie al 17esimo gonfalone alzato verso il tetto del TD Garden. Malgrado la sua esperienza come giocatore nei leggendari Celtics di Bird durante gli anni Ottanta, Ainge non appare nemmeno sfiorato dalla mistica del Pride bostoniano e da tutti i suoi ammennicoli emotivi. La scelta di Brad Stevens, giovane ed esordiente totale in NBA, è in controtendenza con la storia della squadra e viaggia contromano rispetto alle aspettative del pubblico di casa, più che mai convinto di godere del diritto naturale alla permanenza nell’élite della lega. L’ingaggio del coach proveniente dall’università di Butler è solo il primo mattone posato nel cantiere aperto da Ainge. La ricostruzione si preannuncia lunga e dolorosa, i malumori dei supporter locali si fanno via via sempre più palesi. I tifosi dei Celtics, tuttavia, non hanno ancora visto niente.
Parte seconda: la rapina del secolo
Il giorno del colpo
Nelle settimane che seguono l’eliminazione delle rispettive squadre, il traffico telefonico tra Danny Ainge e Billy King si fa piuttosto intenso. In ballo c’è l’idea di provare a imbastire uno scambio che porti Paul Pierce a Brooklyn in cambio di Kris Humphries, MarShon Brooks e la prima scelta dei Nets nel 2016. Si tratta di una possibilità solo abbozzata, ma che si fa più concreta quando il 25 giugno viene annunciato il passaggio di Doc Rivers ai Clippers. Ancor prima che ne venga ufficializzato il successore, il segnale verso l’esterno arriva forte e chiaro: i Celtics hanno deciso di aprire la fase di rinnovamento. Quanto radicale sia l’intento di ricostruire, però, non è ancora chiaro. Nemmeno quando, due giorni dopo, va in scena il Draft. A ospitare il rituale di fine stagione è proprio il Barclays Center, la nuovissima casa dei Nets. Sia Ainge che King, a dire il vero, arrivano all’appuntamento con aspettative contenute. Boston ha la scelta numero 13, usata per chiamare Kelly Olynyk (urge ricordare che due posizioni più sotto c’era Giannis Antetokounmpo, ma questo è un universo parallelo che non ci appartiene), mentre Brooklyn nove posizioni più sotto punterà su Mason Plumlee. Insomma, ad accomunare lo stato d’animo di entrambe le parti dovrebbe essere una certa rilassatezza.
Invece l’atteggiamento con cui King e Ainge si presentano al 620 di Atlantic Avenue non potrebbe essere più diverso. Nella loro war room, la stanza riservata ad ogni franchigia in cui vengono discusse le mosse della giornata, i Nets registrano il tutto esaurito. Oltre al GM ci sono Jason Kidd, ex-bandiera ai tempi della palude nel New Jersey e da cinque giorni conferito del suo primo incarico da head coach, e Deron Williams, stella della squadra. Non bastasse, nel primo pomeriggio al gruppo si uniscono Brett Yormark, responsabile marketing, Dimitri Razumov, sorta di amministratore delegato e longa mano di Prokhorov, e Milton Lee, general manager degli Springfield Armor, squadra affiliata ai Nets che gioca nella D-League. Per contro, Ainge si gode una splendida solitudine nello spazio riservato ai Celtics. Mentre sul palco posto al centro dell’arena fervono i preparativi per la serata, nel folto gruppo riunitosi attorno a King matura una tentazione: acquisire anche Kevin Garnett. Kidd e Williams spingono in questa direzione, convinti che l’esperienza e il carattere vincente del duo Pierce/Garnett rappresentino premessa ideale per lanciare il guanto di sfida ai Miami Heat campioni in carica. Con il passare dei minuti la war room bianconera viene pervasa da un’atmosfera che Lee, unica voce critica presente nella stanza, definirà di “euforia testosteronica”. Sospinto sulle ali dell’entusiasmo, King contatta Ainge e avvia la trattativa vera e propria. Poco prima che David Stern pronunci il nome di Anthony Bennett, sciagurata prima scelta dei Cleveland Cavaliers, viene trovata la quadratura del cerchio: a Brooklyn, oltre a Pierce e KG, vanno anche Jason Terry e D.J. White. In cambio, i Celtics riceveranno Gerald Wallace, Kris Humphries, MarShon Brooks, Kris Joseph, Keith Bogans (rifirmato per l’occasione), ma soprattutto le prime scelte del 2014, 2016, 2018 e il diritto di scambiare con i Nets quella del 2017. Per far tornare i conti dal punto di vista salariale, i due dirigenti hanno dovuto calcolare al centesimo, nella fretta di chiudere un accordo sono sfuggiti alcuni particolari di non poca rilevanza.
Il classico imprevisto, anzi due
Come in ogni rapina che si rispetti, il colpo rischia di saltare per via di due intoppi non previsti dal piano originale. Prima di tutto Kevin Garnett vanta quello che è ormai diventato lo status symbol più ambito dalle stelle NBA: la cosiddetta no-trade clause. Ovvero, l’ex-T’Wolves può porre il veto a qualsiasi trasferimento che non lo soddisfi. E, a quanto pare, la prospettiva di traslocare a New York, sulle prime, non lo fa impazzire. Il progetto di conquista dell’Est imbastito dai Nets lo lascia perplesso, e poi lui si sente ormai un Celtic a vita. Il compagno di mille battaglie Pierce lo chiama per convincerlo, seguito da coach Kidd, con cui KG ha condiviso l’avventura olimpica di Sydney 2000. Dopo qualche ora di riflessione, infine, arriva il benestare di “The Big Ticket” e lo scambio può andare in porto.
Anzi, no, perché sorge un altro problema, questa volta di natura meramente burocratica. Kris Joseph, che attraverso la porta girevole del mercato dovrebbe tornare in quella Boston che l’ha scelto al Draft un anno prima, non può essere scambiato prima che siano trascorsi tre mesi dalla sua firma coi Nets, avvenuta poco prima dell’inizio dei playoff. Di conseguenza, sebbene ci siano tutti i crismi per dare l’annuncio a stampa e pubblico, la trade, per usare un’espressione cara al Principe Antonio De Curtis, rimane sottoufficiale. L’ufficialità, con tanto di sigillo della lega e fanfara mediatica, arriva il 12 luglio.
Parte terza: le conseguenze
Un sogno durato troppo poco
Lo sbarco al Barclays Center di Pierce e Garnett produce un effetto domino che porta alla conferma della buonanima di Andray Blatche, oltre che all’ingaggio di Shaun Livingston e Andrei Kirilenko. Nel giro di pochi giorni, il monte stipendi dei Nets sale a quota 101 milioni di dollari, per distacco il più alto dell’intera lega. Tradotto: c’è una luxury tax di 83 milioni da pagare ma Prokhorov, interpellato sulla circostanza, sorride e fa spallucce, come a dire “non ci sono problemi di soldi, qui”. Nel consueto sondaggio estivo effettuato tra i dirigenti NBA, uno su quattro vota i Nets come trionfatori del mercato e tre su quattro li piazzano vincenti nella loro Division. La franchigia registra il record di abbonamenti, la creazione di una vera e propria fan-base newyorkese non sembra più un miraggio. Il quintetto di All-Star collezionato da Billy King finisce dritto sulla copertina di Sports Illustrated.
La off-season, in breve, è un autentico tripudio. Viceversa, con l’avvio del training camp iniziano anche i problemi. Deron Williams s’infortuna e salta tutta la fase di preparazione, durante la quale tra i nuovi arrivati comincia a serpeggiare un certo malumore. Il clima in allenamento non è dei migliori, e l’impegno profuso dalla maggior parte dei giocatori a roster non è quello che servirebbe per cementare una squadra che punta in alto. Pierce, Garnett e in parte anche Terry, forti delle loro esperienze e dell’anello di campioni NBA portato al dito, provano a segnalare questa mancanza di professionalità al coaching staff. Purtroppo anche l’area tecnica della squadra non sembra all’altezza delle importanti ambizioni: le frizioni tra Kidd e Lawrence Frank, suo primo assistente, sfociano nel precoce licenziamento di quest’ultimo. Non contento, l’ex point guard intraprende una guerriglia quotidiana con il front office che minerà dall’interno la solidità del gruppo. Kidd vorrebbe godere di un potere decisionale assoluto, laddove King non perde invece occasione di marcare i rispettivi territori di competenza.
Il campo, inevitabilmente, riflette quanto avviene dietro le quinte. La squadra fatica a trovare una sua identità tattica ed emotiva, impegnata com’è a orientarsi tra una sequela di guai fisici e non solo. Garnett salta 30 partite e quando gioca fa segnare i minimi in carriera ad ogni voce statistica; Lopez chiude la sua stagione dopo nemmeno due mesi di regular season per un problema al piede destro; e anche Kirilenko è costretto a continui stop che ne logorano al tenuta. Blatche, che in teoria dopo l’infortunio di Lopez dovrebbe essere il centro titolare, matura l’abitudine di non presentarsi agli allentamenti e quando invece risponde presente, spesso, è reduce da nottate che poco si accordano al suo status di atleta professionista. I Nets chiudono al sesto posto della Eastern e, dopo aver procurato ai Raptors il primo di tanti dolori primaverili, vanno a sbattere contro il totem LeBron James.
Mandata agli archivi la stagione agonistica, quello che solo un anno prima appariva come un grandioso sogno di gloria si sgretola alla stessa velocità con cui era andato formandosi. Kidd, ai ferri corti con tutto il front office e buona parte dei giocatori, se ne va a Milwaukee. La proprietà, che fin lì aveva fatto della disponibilità di spesa illimitata la propria bandiera, decide di smobilitare. Contro ogni logica previsione Pierce, Livingston, Blatche, Kirilenko e Teague vengono lasciati liberi di trovarsi una nuova destinazione, ritenendo troppo onerose le rispettive richieste di rinnovo contrattuale. Sulla panchina arriva Lionel Hollins, scelta firmata da King e mal digerita dai giocatori rimasti. Quello che segue è un lento stillicidio che nel giro di diciotto mesi vede Garnett tornare a Minnesota e Williams e Johnson meritarsi il trattamento del buy-out, via d’uscita a cui normalmente si ricorre per liberarsi dei cosiddetti pesi morti. Poco dopo aver rescisso il contratto di “Iso Joe”, la stessa sorte capita proprio a Billy King. Dopo sei anni in sella tra il New Jersey e Brooklyn, gli succede Sean Marks, scuola Spurs e licenza di ricostruire azzerando roster e staff tecnico. Della gioiosa macchina da canestri assemblata meno di tre anni prima non rimane che un vago, trascurabile ricordo.
Un piano molto ben riuscito
“Il punto è che tanto a Danny Ainge non frega un c…o”. A sintetizzare bene il sentimento di frustrazione condiviso dai tifosi di Boston è uno dei loro rappresentanti più celebri, il giornalista Bill Simmons. Agli affezionati biancoverdi non va giù il modo in cui il general manager ha usato Pierce e Garnett, ritenuti autentiche leggende e viceversa valutati dal front office come ferri vecchi di cui disfarsi. La mistica del Celtics Pride, secondo i tanti supporter sparsi per il globo, non dovrebbe permettere un trattamento del genere per chi ha contribuito a scrivere capitoli importanti della franchigia più vincente della storia. Anche i giudizi degli addetti ai lavori, in verità, non brillano generosità nei confronti di Ainge: in tanti lo accusano d’aver azzardato una trade i cui unici ritorni ipotizzabili arrivano dalle scelte ai successivi Draft. Il punto è che appare assai probabile come i Nets, con quella squadra di veterani, abbiano davanti almeno due o tre anni ai piani alti della lega. Quelle scelte, in definitiva, potrebbero valere molto poco.
Le premesse alla prima stagione del dopo Pierce-Garnett-Rivers non sono quindi tra le più rosee, e la conferma delle difficoltà arriva dal campo. Il roster è un mix di giovani e cavalli di ritorno come Jeff Green, Rondo torna in campo solo a gennaio e Stevens fatica a modellare una formazione coerente. Le 25 vittorie tengono Boston ben lontana dai playoff, con ulteriore scorno dei tifosi di cui sopra. Le cose cominciano ad andar meglio l’anno successivo: Ainge pesca bene tra i collegiali (sesta scelta spesa per Marcus Smart) e ancora meglio nel convulso mercato degli scambi (Isaiah Thomas da Phoenix e Rondo a Dallas), avviando il percorso di ricostruzione della squadra. Percorso che grazie alla bravura di Stevens e all’improvviso e drastico crollo dei Nets consente a Boston di rimanere stabilmente nelle prime posizioni della Eastern e allo stesso tempo poter scegliere con chiamate molto alte ai Draft successivi. Con i famosi pick tanto indigesti ai tifosi qualche anno prima sbarcano in Massachusetts Jaylen Brown e Jayson Tatum, quest’ultimo accompagnato da un’ulteriore scelta ceduta da Philadelphia all’interno di un’altra trade rivelatasi geniale. Non solo: l’ultima scelta ereditata dalla rapina effettuata ai danni di Billy King permette di imbastire un altro scambio, quello che porta in biancoverde Kyrie Irving, in fuga dai Cavs e dall’ombra lunga di LeBron. Lo scambio con Brooklyn ha di fatto regalato a Stevens un trio di esterni pressoché perfetto per dare l’assalto al titolo e, considerati gli asset ancora oggi in mano a Boston e le aggiunte di Al Horford prima e di Gordon Hayward in free agency, la coda lunga della rapina del secolo pare non essersi ancora esaurita. Ora, i tifosi che chiedevano a voce alta il licenziamento di Ainge per aver tradito i valori storici della franchigia possono convogliare le loro energie nell’incitare la squadra.
Titoli di coda
A cinque anni di distanza da quel pomeriggio di un giorno da cani, per i Nets, lo scenario che si presenta davanti agli occhi per le due parti in causa è diametralmente opposto. Brooklyn, archiviata l’era King e in fase di dismissione dalla gestione Prokhorov, è diventata ricettacolo dei contratti più sgraditi della lega. Pur di raggranellare qualche scelta al Draft, Sean Marks ha accettato di portarsi in casa i vari DeMarre Carroll e Timofey Mozgov occupando lo spazio salariale a disposizione. La squadra ha mantenuto una sua dignità, frutto in primis dell’eccellente lavoro di coach Kenny Atkinson, senza però riuscire nemmeno a sfiorare le 30 vittorie. La maledizione ricevuta in eredità da quell’infausta trade dovrebbe esaurirsi nel corso di questa stagione, al termine della quale i Nets torneranno in possesso delle loro scelte. Considerata la povertà tecnica del roster a disposizione, è probabile che per il 2019 Marks possa finalmente pescare tra i migliori prospetti in uscita dal college. Tuttavia, la riforma della lottery che entrerà in vigore proprio tra dodici mesi potrebbe complicare i piani del GM e allungare ulteriormente le tempistiche di un ritorno alla competitività.
Dall’altro lato della trade, i Celtics viaggiano in direzione ostinata e contraria. Insieme a Philadelphia, i ragazzi di Stevens si candidano a guidare l’est del dopo-LeBron. La differenza la fa invece il modo in cui Boston è riuscita a tornare in alto, senza mangiare il pane nero del tanking, sorte toccata in dote ai Sixers per diversi anni. Certo, la bravura di Brad Stevens, trasformatosi nel giro di poche stagioni da promettente coach universitario a guru venerato da stampa e tifosi, ha contribuito al raggiungimento di questo strabiliante risultato. Così come un po’ di fortuna, nelle scelte di mercato e in quelle al Draft, non ha guastato. Eppure alla base di questo miracolo manageriale e sportivo rimane lo scambio con Brooklyn del 2013. E la rapina del secolo pare destinata a pagare dividendi ancora per lungo tempo.
Protagonisti
Se è innegabile che le condizioni ambientali e la sorte abbiano giocato un ruolo fondamentale nel decretare quelle circostanze così particolari, premessa necessaria perché succedesse ciò che è poi successo, è altrettanto evidente come a muovere le pedine della storia siano stati uomini in carne ed ossa. Personalità distinte e molto diverse tra loro, così come diverse sono state le motivazioni che li hanno spinti a prendere decisioni che hanno segnato gli anni a venire. Il cast della rapina del secolo, blockbuster del mercato NBA, ha potuto pregiarsi di tre straordinari protagonisti.
Mikhail Prokhorov
“Oggi gli Dei del basket hanno sorriso ai Nets”. Mikhail Prokhorov non è mai stato tipo da tirarsi indietro quando si è trattato di regalare ai media un titolo da prima pagina. Dopo l’uscita iniziale sul suo eventuale matrimonio in alternativa al Larry O’Brien Trophy e le reiterate allusioni a fantomatici piani quinquennali dal tono tardo-sovietico, in pochi restavano sorpresi dalla solennità con cui il patron metteva il punto esclamativo sullo scambio coi Celtics. L’altro lato dell’imperscrutabile personalità del miliardario russo, poi, emergeva nei mesi successivi all’annuncio della trade. Dopo aver lasciato la propria inconfondibile impronta sulle scelte strategiche della franchigia, rimarcando l’assenza di un limite di spesa, Prokhorov spariva dalle scene fino a dicembre. Comportamento speculare a quello tenuto la stagione precedente, quando dopo aver regalato un autentico show al primo giorno di training camp, con tanto di dimostrazione di arti marziali sciorinata in prima persona, non dava sue notizie per oltre cinque mesi. Tra la gestione del suo impero finanziario e l’ambigua carriera politica, il miliardario russo ha caratterizzato il suo ruolo di proprietario alternando segnali tanto categorici quanto contraddittori a lunghi periodi di totale distacco.
Al di là delle tante critiche che gli possono essere rivolte, nessuno può però contestarne il senso per gli affari. A cavallo tra la fine dello scorso anno e l’inizio di quello nuovo, Prokhorov ha infatti ceduto il 49% del pacchetto azionario dei Nets al magnate taiwanese Joseph Tsai, co-fondatore di Alibaba. Il miliardo abbondante di dollari incassato proietta la valutazione complessiva della franchigia ben oltre i due miliardi e l’opzione sottoscritta da Tsai per accaparrarsi il diritto ad acquistare il restante 51% delle azioni entro il 2021, guarda caso, non comprende il passaggio di proprietà del Barclays Center. L’arena, costata 825 milioni di dollari, rappresenta l’unico asset remunerativo dell’universo Nets. Al contrario, la franchigia ha perso 144 milioni di dollari nel campo delle basketball related activities per la singola stagione 2013-14, non a caso quella della rapina subita, staccando i secondi in questa poco ambita classifica di oltre 100 milioni. L’ultimo dato disponibile, quello relativo al 2016-17, riporta una perdita di 23 milioni di dollari, seconda solo a quella dei Detroit Pistons. Grazie all’entrata a regime del nuovo contratto televisivo e ai relativi diritti, la cui fetta per Brooklyn si aggira intorno ai 50 milioni, è ipotizzabile che i conti dei Nets possano tornare in pareggio dalla prossima stagione. Ad ogni modo, Prokhorov, che a fine 2009 comprava gli allora New Jersey Nets per 875 milioni, potrebbe già ora dirsi più che soddisfatto del rendimento ottenuto investendo nella NBA. Inquadrarlo nella parte del ricco stupido che si fa fregare con facilità sarebbe quindi oltremodo approssimativo. Certo, quanto al Larry O’Brien Trophy promesso, quello è tutto un altro discorso. E anche del suo ventilato matrimonio riparatore, ad oggi, non si hanno tracce.
Billy King
Ogni uomo ha un vizio che prima o poi lo farà cadere, cantava un vecchio poeta della canzone italiana. E Billy King di vizio ne ha sempre avuto uno, coltivato con ostinazione: già dai tempi in cui si parlava di lui come studente modello nella stimatissima università di Duke, il futuro general manager dei Nets era uno scommettitore compulsivo. Poker, dadi, slot machine, eventi di qualsiasi tipo: dove c’era una possibilità, seppur vaga, di puntare e vincere, Billy si buttava a pesce. Durante il periodo di permanenza nel front office dei Sixers, King è stato uno dei promotori della costruzione di un casinò nuovo di zecca nel centro di Philadelphia, investendo in quel progetto buona parte dei guadagni accumulati fin lì. Ad oggi, quel casinò non è ancora stato costruito e quanto al successo delle altre puntate fatte nel corso degli anni, in particolare quelle sul mercato NBA, non è andata molto meglio.
Prima della trade con Boston, nei tre anni trascorsi tra il New Jersey e Brooklyn, King aveva già rinunciato a quattro prime scelte per mettere le mani su Deron Williams, Joe Johnson e Gerald Wallace (la scelta ceduta a Portland per quest’ultimo si trasformerà in Damian Lillard, tanto per rendere l’idea). Non fosse stato per la ferrea opposizione di Avery Johnson, all’epoca capo allenatore dei Nets, ne avrebbe sacrificate altre per arrivare a Carmelo Anthony e Dwight Howard. Tutti gli scambi condotti in porto da GM dei Nets sono accomunati dall’assenza di un piano B, scorciatoia di sicurezza da percorrere nel caso in cui i giocatori acquisiti non si fossero rivelati all’altezza. Scommesse al buio insomma, come quella fatta su Jason Kidd, chiamato a guidare la squadra a un mese scarso dal suo ritiro dall’attività agonistica e divenuto in poche settimane acerrimo nemico. Dopo l’esonero a febbraio 2016 e la staffetta con Sean Marks, per molti aspetti sua antitesi, King è sparito dai radar NBA. Al contrario di molti suoi collaboratori, tra cui l’assistente GM Bobby Marks, ora firma di ESPN, la colpa delle tante mosse rivelatesi disastrose pare averne affossato la credibilità. La rapina del secolo, in questo senso, è diventata una vera e propria lettera scarlatta.
Danny Ainge
Come già detto, Danny Ainge è uno che si cura il giusto delle opinioni altrui. La personalità non ha mai difettato nel repertorio del ragazzo da Eugene Oregon, nemmeno quando al suo primo allenamento con la maglia dei Celtics, appena uscito dal college, gli capitava di inanellare uno 0/2547 al tiro (fonte Larry Bird, quindi da prendere con le molle). Costruitosi una carriera da giocatore sulla capacità di giocare duro e mettere a disagio gli avversari, ha mantenuto queste peculiarità una volta smesse canotta e pantaloncini. Tornato a Boston nel 2003, il feeling con la proprietà è stato fortificato dall’anello vinto nel 2008 e gli ha concesso di fatto carta bianca nella gestione della squadra. Fiducia che Ainge non ha esitato a spendere prendendosi la responsabilità di scambi come la rapina del secolo, col senno di poi frutto di una lungimiranza senza pari ma all’epoca motivo d’attrito con il tifo locale, invero tra i più sanguigni d’America. E quella trade, che ora non è esagerato definire epocale, ha alzato talmente in alto l’asticella da ridimensionare il consenso ottenuto tramite quelle indovinate in seguito, dagli scambi prima in entrata e poi in uscita con protagonista Isaiah Thomas a quello con i Sixers al Draft dello scorso anno. Non che ad Ainge interessi poi molto del giusto riconoscimento riservato al suo operato. A lui interessa vincere, per tutto il resto vale la massima riassuntiva di Bill Simmons.