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NBA, a tutto Billups: “Vi racconto la mia carriera: da delusione a MVP delle Finals”

NBA

Dario Vismara

Ospite d’onore della NBA Fan Zone di Milano, il campione NBA del 2004 si è raccontato ai microfoni di Sky Sport ripercorrendo le tappe più importanti della sua carriera: “Oggi vincere il titolo senza superstar è impossibile, per questo i miei Pistons non verranno mai eguagliati”

NBA FAN ZONE 2018: CHE SPETTACOLO CON CHAUNCEY BILLUPS

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Anche a incontrarlo oggi, all’età di 41 anni, non si fa fatica a capire per quale motivo Chauncey Billups in campo sia stato così difficile da marcare per i suoi avversari. Quando scendeva sui parquet della NBA, specialmente nei suoi anni migliori a Detroit, Billups sapeva sempre cosa fare, come farlo e come sfruttare il corpaccione a sua disposizione per fare più male possibile agli avversari. Quando si metteva spalle a canestro erano davvero poche le point guard in grado di gestirlo, forte di una mole davvero impressionante confermata anche incontrandolo oggi, in calzoncini e maglietta, ospite d’onore della NBA Fan Zone di Piazza Duomo. Allo stesso tempo, basta parlarci per qualche minuto e non si fatica a capire per quale motivo la lega di Adam Silver lo voglia ancora tra le sue fila. Nel recente passato il suo nome è stato associato a quello dei Cleveland Cavaliers e dei Detroit Pistons per assumere il ruolo di general manager, senza però che nessuna delle due opzioni si concretizzasse. Ma non c’è alcun dubbio che prima o poi Billups lascerà il suo posto a ESPN — dove se la cava egregiamente nel dispensare la sua saggezza con spiegazioni sempre lucide davanti alla telecamera — per assumere un posto di rilevanza all’interno di the League, che sia dietro la scrivania oppure direttamente in panchina, opzione che non ha escluso neanche in diretta a Sky Sport 24, tenendosi aperta ogni possibilità. Oggi Billups è un ex giocatore di grande successo, un MVP delle Finals che per cinque volte è stato convocato all’All-Star Game e un campione NBA negli indimenticabili Detroit Pistons del 2004. Eppure è facile dimenticarsi i suoi trascorsi iniziali, quando nei primi cinque anni della lega ha cambiato squadra per ben sei volte, rischiando seriamente di perdere il posto in NBA. “Ero vicino a essere considerato un bust”, dice Billups sui divanetti della sede di Sky, senza girarci troppo attorno. “È normale quando vieni chiamato con la terza scelta assoluta del Draft ma non riesci a rimanere sul serio da nessuna parte. Devo ammetterlo: ai tempi non ero pronto a essere ‘The Guy’, ma avevo pur sempre 20 anni. E a differenza di molti 20enni a cui veniva data la palla in mano dal primissimo istante dicendogli ‘Fai quello che vuoi’, io non ho avuto quel lusso. Onestamente però è stato un bene: in quegli anni ho imparato a gestire le avversità, e questo mi ha formato come persona, prima ancora che come giocatore”. Dopo essere stato scelto dai Boston Celtics nel Draft del 1997, passano solo sei mesi prima che i biancoverdi di Rick Pitino decidano di cederlo a Toronto. Da lì in poi seguono in rapida successione Denver (dove dura poco, pur essendo atleta di casa, dopo i trascorsi al college di Colorado), Orlando (dove non scende neanche in campo per un infortunio alla spalla) e infine i Minnesota Timberwolves: “Quello è stato il momento in cui la mia carriera è cambiata: lì ho potuto imparare tanto alle spalle di Terrell Brandon, un giocatore che era — ed è ancora — incredibilmente sottovalutato. Poi ho potuto giocare con il mio amico Kevin Garnett; ho imparato da un veterano come Sam Mitchell come ci si comporta da professionisti; ho giocato per Flip Saunders, che era stato una point guard e che da allenatore mi ha dato grandi responsabilità. Lì la mia carriera ha svoltato: una volta arrivato a Detroit ero già pronto a guidare una franchigia e a essere il giocatore che pensavo di poter diventare”.

Gli indimenticabili anni di Detroit

Nei suoi sei anni a Detroit neanche una volta i suoi Pistons hanno mancato l’accesso alle finali di conference, una striscia di successi che ha segnato indelebilmente la Eastern Conference degli anni 2000, raggiungendo due finali — una vinta nel 2004 contro i Lakers dei quattro Hall of Famer (Shaquille O’Neal, Kobe Bryant, Gary Payton e Karl Malone) e una persa solamente in gara-7 contro i San Antonio Spurs. Lo scorso anno Rip Hamilton ci aveva raccontato che i protagonisti di quella cavalcata ancora oggi si tengono in contatto con una chat di gruppo, come i campioni del mondo di Spagna ’82: “Oh sì, ci sentiamo spesso: è il nostro modo per rimanere in contatto pur abitando lontani”, conferma Billups. “Ho sempre pensato che l’essere così amici fosse la nostra ricetta segreta, perché ci importava davvero l’uno dell’altro e passavamo parecchio tempo fuori dal campo, anche insieme alle nostre famiglie. Ci volevamo genuinamente bene: se qualcuno di noi aveva una brutta partita ci rimanevamo tutti male, proprio come una famiglia. Giocare con quei ragazzi è stata la cosa più bella della mia carriera”. Proprio dall’idea che quel gruppo sia irripetibile viene da chiedersi se un’altra squadra, prima o poi, riuscirà a raggiungere un anello senza avere una cosiddetta “superstar”: “Non penso che una squadra riuscirà mai a rifare quello che noi abbiamo fatto nel modo in cui noi lo abbiamo fatto, perché il gioco è strutturato in maniera diversa. È impossibile”, il giudizio di Billups. “Anzi, di questi tempi non si può vincere se non hai almeno due o tre superstar di livello assoluto. Se guardi in giro per la lega, anche lasciando da parte i Golden State Warriors, hai gli Houston Rockets dove due superstar James Harden e Chris Paul si sono dovuti unire per avere una chance, oppure gli Oklahoma City Thunder, con Paul George e Russell Westbrook. E anche così può succedere che pur avendo due superstar non si riesce a superare il primo turno di playoff. Nessuna squadra riuscirà più a fare quello che hanno fatto i miei Pistons, almeno per come la vedo io”.

Giocare con le marce (e con “Radio Rasheed” alle spalle)

Quello che rendeva speciale quel gruppo dei Pistons era l’assoluta familiarità che ognuno aveva con gli altri, come se il quintetto formato da lui, Hamilton, Tayshaun Prince e i due Wallace (Rasheed e Ben) fosse legato con un filo invisibile. Una consapevolezza che molto spesso — specialmente in regular season — li portava a scherzare un po’ troppo col fuoco, gestendo le energie e le risorse mentali per 43 minuti per poi “cliccare il bottone” solamente negli ultimi 5 per portare a casa la vittoria. “Arrivi a un certo punto in cui ti conosci così bene che non hai neanche bisogno di guardarti per capire cosa farà il tuo compagno. E se a questo aggiungi il grande IQ cestistico che tutti noi avevamo, ottieni la ricetta perfetta”, spiega Billups su questo modo di giocare con le marce. “Per esempio: io chiamavo certi giochi una o due volte durante i primi tre quarti solo per vedere come le difese reagivano e si adattavano. Facendo così immagazzinavo informazioni in vista del finale di partita, dove sapevo già quale dei miei compagni sarebbe stato libero nel momento decisivo. Spesso usavamo uno schema chiamato 2 Chest disegnato per le uscite di Rip Hamilton, ma una volta spostata la difesa su di lui sapevo che avrei trovato Prince libero dall’altra parte. Poi la volta successiva loro dovevano rimanere vicini a Tay[shaun], così da lasciare più spazio per Rip e magari per uno scarico su Ben Wallace in area. Avevamo così tante opzioni a disposizione da essere sempre imprevedibili per i nostri avversari, anche perché eravamo più intelligenti degli altri”. Un dominio e un controllo mentale che si vedeva soprattutto nella metà campo difensiva, dove i Pistons davano sempre l’impressione di sapere in anticipo tutto quello che avrebbero provato a fare i loro avversari, portando a casa partite di pura esperienza e mestiere: “Una volta arrivati all’ultimo quarto non c’era schema che i nostri avversari potessero chiamare che noi non conoscessimo già con anticipo, e questo grazie a Rasheed Wallace”, racconta Billups. “Sotto questo aspetto ‘Sheed a mio modo di vedere non riceve il merito che dovrebbe: conosceva tutti i giochi degli avversari e li chiamava da una posizione privilegiata, essendo sotto canestro e potendo osservare lo sviluppo dell’azione da dietro. Io non avevo mai un dubbio, sapevo sempre quello che dovevo fare: bastava ascoltare lui e non dovevo neppure mai voltarmi alle spalle, riuscendo a marcare il mio avversario facilmente senza schiantarmi su nessun blocco”. Wallace è stato l’ultimo ad arrivare in un gruppo che era già reduce dalle finali di conference del 2003, ma l’ex Blazers in carriera aveva lasciato più persone perplesse rispetto a quelle convinte che la sua personalità debordante fosse gestibile in un contesto di altissimo livello. Viene inevitabile chiedere a Billups quale fosse stata la sua reazione iniziale alla notizia che i Pistons lo avrebbero aggiunto al loro roster: “Ero molto sorpreso, ma felice. È sempre stato uno dei miei giocatori preferiti, e sapevo che sarebbe stato l’ingrediente mancante per farci fare il salto di qualità. Non credevo a nulla di quello che si diceva su di lui: non ci avevo mai giocato assieme, eppure sapevo che le etichette che gli avevano appiccicato erano tutte dovute alla sua emotività in campo, ma che da fuori non si può davvero conoscere il ragazzo dentro lo spogliatoio. E lui lì è stato uno dei migliori compagni che io abbia mai avuto. C’erano certe cose che circondavano il gioco che non gli piacevano: i media, gli arbitri, la lega stessa… lui voleva solamente giocare a pallacanestro, menre non gli piaceva avere a che fare con tutto il resto. Questo lo ha portato a essere visto come un giocatore diverso da quello che realmente era, ma credetemi: ‘Sheed era veramente incredibile”.

Che giocatore sarebbe oggi Chauncey Billups?

Oggi è piuttosto normale vedere le point guard prendersi il primo tiro disponibile anche con molti secondi sul cronometro, specialmente da 7 o anche 8 metri di distanza dal canestro. Saper tirare dal palleggio oltre la linea da tre punti fa la differenza in termini di spaziature in campo e di coperture difensive per gli avversari, perché un conto è dover marcare un giocatore che non ha tiro passando sotto tutti i blocchi, e un altro è dover difendere i vari Steph Curry, Damian Lillard e James Harden a 8 metri dal ferro. Billups è stato uno dei primi — almeno nella sua era — a utilizzare il tiro dal palleggio come minaccia per le difese avversarie, come ben hanno imparato a loro spese i Los Angeles Lakers del 2004 che non avevano idea di come marcarlo, specialmente con un lungo poco propenso ad abbandonare il pitturato come Shaq. “Non c’è alcun dubbio che quello sia stato il mio tiro”, dice Billups con un pizzico di orgoglio. “Oggi quando guardo le partite vedo un sacco di giocatori che prendono le triple dal palleggio direttamente in transizione o in contropiede, tanto che gente come Curry è diventata famosa per quel tipo di tiro. Ed è bellissimo che sia così, anche perché loro lo fanno meglio di quanto lo facessi io. Però so che nella mia era io sono stato uno dei pochi – e dei primi – a prendersi quel tiro, che era proprio il mio tiro”. Se Billups giocasse oggi ne prenderebbe almeno 3 o 4 a sera, mentre ai suoi tempi doveva contenersi perché in panchina sedeva un allenatore poco avvezzo alle innovazioni tattiche così avveniristiche: “Coach Larry Brown semplicemente odiava quel tiro: discutevamo tantissimo di quella conclusione perché non si allineava con la sua filosofia di gioco”, ammette Billups con un sorriso. “Se giocassi ora il mio stile sarebbe perfetto per questa era: su e giù per il campo, pick and roll uno dietro l’altro e triple come se piovessero. Questo era il mio gioco. Ma sono assolutamente contento di com’è andata la mia carriera e di come si giocava ai miei tempi, perciò non ho nessun rimpianto”. Una delle differenze rispetto al passato è la difficolta oggi a trovare una superstar offensiva nella posizione di point guard che sia in grado di essere anche un ottimo difensore sul suo diretto avversario, come invece Billups era in grado di fare: “Un po’ sono le regole che sono diverse, come ad esempio quella dell’hand check, ma un po’ è anche un discorso di mentalità. Ho avuto la fortuna di giocare in area FIBA ai Mondiali del 2010 [vinti in Turchia nel ruolo di veterano, ndr]: ricordo che mettevamo Russell Westbrook sull’avversario perimetrale più pericoloso e quello a malapena riusciva a superare la metà campo, perché Westbrook se lo mangiava. Lo osservi giocare adesso ed è solo un buon difensore, non un grande difensore. Il problema è che giocatori come lui hanno così tante responsabilità nella metà campo offensiva per la sua squadra che in difesa non si vuole finire ad avere problemi di falli. Eppure i più grandi del gioco trovano sempre un modo per essere efficaci sulle due metà campo e prendono sul personale la sfida di doverti fermare in uno contro uno, indipendentemente da quello che si deve fare in attacco. Penso che la mentalità sotto questo punto di vista sia un po’ cambiata”.

Compagni speciali, da Carmelo Anthony a Gigi Datome

Un giocatore che è sempre stato deficitario dal punto di vista difensivo è Carmelo Anthony, che però al fianco di Billups ha raggiunto il massimo risultato della sua carriera, arrivando fino alle finali di conference del 2009 con i Denver Nuggets, squadra nella quale Billups era tornato dopo essere stato scambiato con Allen Iverson. Ora che negli ultimi anni si è ritrovato a recitare il ruolo di comprimario, viene inevitabile chiedere a uno informato sui fatti come Billups cosa sia mancato a Anthony per raggiungere il rango dei più grandi NBA: “‘Melo aveva bisogno di uno come me o come Jason Kidd: una point guard che potesse facilitare il gioco e guidare la squadra dal punto di vista della leadership, così che lui potesse concentrarsi solo sul fare canestro mostrando quanto sia speciale. Spesso certi giocatori vengono messi in situazioni difficili: non tutti possono essere come LeBron James, che è un talento che passa una volta nella vita, e trascinare i compagni alle Finals indipendentemente di chi essi siano. Gente come Dwyane Wade, ad esempio, è stata messa in una grande situazione avendo Pat Riley a guidarlo prima in panchina e poi dalla dirigenza, e compagni del calibro di Shaquille O’Neal o Chris Bosh, e così ha potuto vincere più di un titolo. ‘Melo non è stato mai messo in quelle condizioni, anche se a Denver pensavo ci fossimo vicini: onestamente, penso che se avessimo tenuto assieme quel gruppo prima o poi saremmo riusciti a superare tutti gli ostacoli e a vincere il titolo. Ci siamo andati vicini nel 2009 e anche nel 2010 alla pausa per l’All-Star Game avevamo il miglior record della lega: poi è uscita la notizia del cancro di coach George Karl e quello ci ha distrutti per il resto della stagione. L’anno successivo è arrivata la trade con New York [in cui lui stesso è stato inserito, ndr] e non siamo più riusciti a ritrovare quello spirito, ma credo che se fossimo riusciti ad aggiungere qualche pezzettino a quel gruppo di Denver saremmo riusciti ad arrivare al titolo”. Dopo i passaggi nella Grande Mela e nei primi Clippers dell’era Lob City, la rottura del tendine d’Achille ha costretto Billups a dire basta, ma non prima di un ultimo anno a Detroit in cui ha condiviso lo spogliatoio con un rookie dalla Sardegna di nome Gigi Datome. E il ricordo del capitano della nostra nazionale è ancora bene impresso in Billups, che non può fare a meno di sorridere ripensando al loro trascorso insieme: “Ogni giorno dopo l’allenamento Gigi e io ci sfidavamo nelle gare di tiro. Ho adorato Gigi sin dal primo giorno in cui ci siamo incontrati alla conferenza stampa di presentazione, e ancora oggi ci sentiamo attraverso messaggi privati su Twitter. Gigi sa tirare con una facilità pazzesca, e so che ancora oggi sta andando alla grande”. Un po’ come Billups, che è pronto al prossimo passo della sua incredibile carriera.